Dio ha la voce
di Mark Knopfler. Sonora. Convincente. Sicura. Bellissima.
Dice: «Ancora
una volta, forza. Ci siamo quasi».
Ma non è la
voce di Dio, naturalmente. È solo Monday. Che insiste. Che pontifica. Che
corregge.
Come diavolo
ci sono finita, qua?
***
Se hai sedici
anni a Merdaville, Tennessee, morire può sembrarti un modo come un altro di
passare il venerdì pomeriggio.
Questo era quello che pensavo più o meno da quando avevo iniziato a
desiderare una vita sociale, tranne cambiare idea all’improvviso quando la
morte era venuta a bussarmi alla porta.
La mia vita, fino a quel momento, non era stata uno scoppiettante
susseguirsi di fuochi artificiali. La mattina mi trascinavo fino a scuola, dove
sarei stata crudelmente derisa o, al meglio, ignorata, fino alla fine delle
lezioni. I professori non vedevano per me un brillante futuro da astrofisica o
roba del genere, i miei compagni pensavano che fossi una sfigata all’ultimo
stadio. A Merdaville la catena alimentare era stata semplificata in modo da
essere alla portata dei buzzurri semi-analfabeti dei dintorni: o eri uno che le
dava o eri uno che le prendeva.
Io, ovviamente, facevo parte dei secondi.
I miei erano andati al creatore quando avevo pochi anni, infilandosi in
un fosso mentre tornavano da una serata allegra in qualche baracca danzante dei
dintorni.
Da allora in poi avevo vissuto con mia zia Stella, ovvero la pecora nera
della famiglia di mia madre. Stella era giovane, non aveva idea di come
crescere una bambina di quattro anni e tirava su due soldi come capitava. Per
lo più, vendendo filtri d’amore e bugie compassionevoli alle donne del
vicinato.
Eravamo povere in canna e questo non aumentava le mie già scarse
prospettive di una vita sociale decente. Forse a Los Angeles o in qualche altro
posto che per me esisteva solo nei film, andare a scuola con i vestiti della
charity sarebbe stato considerato magnificamente vintage. A Merdaville
era considerato da pezzenti, segno che a Merdaville, nonostante il Q.I. medio
fosse piuttosto basso, la gente non era così facile da infinocchiare.
Eravamo due pezzenti.
Stella era il tipico esemplare di white-trash che compare nei programmi
sul degrado sociale. Mi immaginavo gente impaccata di soldi della East-Coast,
comodamente stravaccata nella sua confortevole bifamiliare, che guardava la
tele e pensava “Mio Dio, ci sono veramente delle persone che vivono in una
roulotte! Che cosa dannatamente interessante!”.
Stella era così. Capelli ossigenati sopra il biondo grano che le aveva
affibbiato Madre Natura, con una cicca perpetua incastrata in un angolo della
bocca e il vestitino floreale che veniva direttamente dalle anime pie della
parrocchia.
Quello che forse gli sciccosi della East-Coast non immaginavano era che
Stella, il buon vecchio mojo, sapeva farlo davvero. Questo era il motivo
per cui le anime pie della parrocchia si allineavano davanti alla porta della
nostra roulotte – ovviamente a notte fonda, quando i vicini facevano finta di
non vedere – se il maritino scappava con la commessa del Wal-Mart o se il loro
vecchio arnese tirava l’ultimo respiro. Il viagra ci aveva private di una
considerevole fetta di mercato.
Inutile aggiungere che essere la figlioccia della strega del paese
non aveva migliorato le mie già misere prospettive di una vita sociale.
Se Stella si fosse limitata a mescolare infusi nauseabondi e a raccontare
alla sfortunata di turno che il consorte, legittimo o meno, sarebbe tornato con
la coda tra le gambe – e se il consorte avesse continuato a tornare veramente –
le cose sarebbero andate più o meno bene.
Ma Stella non era solo una fattucchiera di paese con un debole per i
giovanotti, a modo suo era anche una sperimentatrice. Era stata lei a farmi
conoscere la musica di tutti quei vecchi gruppi degli anni ’70 e ’80 che
suonavo incessantemente sull’Hitachi mezzo scassato della roulotte. Le
piacevano le cose forti, e fiche, e divertenti.
E la magia, a modo suo, lo era.
Le cose forti, e fiche, e divertenti, però, non erano fatte per lei, come
si vide alla fine. Morì quando la schifezza che stava mescolando nella sua
vecchia pentola di rame le esplose in faccia.
Mai fare una magia di fuoco, se non hai almeno un paio di guanti da
saldatore. Nel suo caso, venne fuori, sarebbe stata meglio una tuta completa da
pompiere.
Quel pomeriggio ero andata alla discarica delle macchine a esercitarmi
col piattello. Old Joe, il proprietario, era un rudere come le auto che
rottamava, quindi non c’era nemmeno il rischio che provasse a infilarsi sotto
il mio vestitino floreale della charity.
Quando tornai alla roulotte era sera, e mi andava di mangiare un piatto
di riso al curry mentre gli Zeppelin giravano sull’Hitachi mezzo scassato.
Ma non c’era stato riso al curry.
Gli Zeppelin non avevano cantato Whola Lotta Love mentre muovevo
il culo a tempo di musica.
Stella era un tizzone sul pavimento della roulotte, un tizzone che si era
consumato senza bruciare nient’altro. Non so quale fosse la magia, non mi è mai
interessato scoprirlo, so solo che in quel momento sentii che odiavo quella
maledetta vacca – e che l’amavo con tutto il cuore.
Fu allora che le cose iniziarono ad andare nel verso sbagliato.
Non che prima fosse stato tutto rose e fiori, ma Stella era con me.
Ora Stella non c’era più e la realtà stessa sembrava decisa a commemorare
la sua dipartita in grande stile, sbriciolandosi.
Barcollai fino alla mia stanza e lì ebbi la seconda sorpresa della
giornata.
Il letto ribaltabile era aperto e sul letto c’ero… io.
La Sonia Sinclair che era sul letto era morta stecchita, su questo non
c’era da farsi illusioni. Con i capelli lisci e color grano sparsi sul cuscino,
era quasi bella. Indossava un vestito bianco che io non avevo mai avuto, come
se le anime pie della parrocchia si fossero superate per la sua – la mia –
cerimonia funebre. Ai piedi aveva i miei vecchi anfibi, segno che neanche le
anime pie della parrocchia avevano intenzione di regalare ai vermi un paio di
scarpe buone.
L’aria bollente della roulotte aveva un odore di fiori incomprensibile,
come se qualcuno avesse nascosto da qualche parte un grande mazzo di orchidee e
le orchidee avessero iniziato a marcire.
Osservai per un po’ quella strana e lugubre visione, pietrificata.
Poi feci un passo avanti e la realtà sembrò decidere di aver giocato
abbastanza.
Il letto era di nuovo incastrato nella ribalta, l’odore di fiori era
scomparso, della Sonia Sinclair morta e quasi bella non c’era più traccia.
Tutto quello che restava era l’odore acre che proveniva dall’altra stanza.
L’odore del tronchetto di cenere che era diventata Stella.
Ma sapevo che cosa avevo visto.
Non puoi vivere per sedici anni nella stessa casa – be’, roulotte – di
una strega senza imparare ad apprezzare una premonizione, specie se è una
premonizione in technicolor come quella che avevo avuto io.
A volte mi chiedo se non fosse questo a cui Stella stava lavorando quando
si era incendiata come un fuoco d’artificio del 4 luglio. Se aveva avuto la
curiosità di sapere come sarei morta io, ed era stata punita per la sua
sfacciataggine.
Ma conoscendo Stella era molto più probabile che stesse cercando di far
comparire un Jimmy Page diciottenne sulla porta della sua roulotte.
Comunque fosse, ero stata avvertita.
Fino al giorno prima avrei detto che a Merdaville, Tennessee, morire
poteva essere un modo come un altro di passare il venerdì pomeriggio.
Ma ora che era chiaro che sarei morta di lì a poco, non c’era un cazzo da
ridere.
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