La casa di Jimmy Razor adesso era deserta. Gli
alti papaveri, naturalmente, si erano trattenuti lo stretto indispensabile. Il patologo
era andato. La scientifica era andata. I fan erano stati allontanati. Jimmy –
neanche a dirlo – era andato pure lui, chiuso in un bel sacco di plastica nera,
riparato per sempre dai flash dei fotografi.
Anche gli investigatori erano andati. Tutti tranne
uno.
Jack Wyte era ancora nel giardino sul retro.
Tutte le luci erano spente, gli annaffiatoi automatici spruzzavano la loro
silenziosa melodia.
La punta incandescente della sigaretta lo
illuminava con il suo alone ogni volta che dava un tiro, tingendo il suo
profilo di ocra.
Era alto, Jack Wyte, alto e grosso, e nemmeno
la sera poteva nasconderlo. Il suo completo marrone era tutto spiegazzato, il
collo della sua camicia era sbottonato, i capelli avrebbero avuto bisogno di un
giro dal barbiere. Jack, invece, aveva bisogno di un attimo di calma, e non
c’era posto più calmo – su questo non c’erano dubbi – della scena di un crimine
dopo che il circo delle indagini se ne era andato. Anche se, come Wyte ben
sapeva, non era affatto detto che lì ci fosse stato un crimine di qualsiasi
genere.
Fece qualche passo sull’erba, tornando a
pensare vagamente alla giovane età del cantante. Avrebbe dovuto essere turbato,
dispiaciuto, impressionato. Sapeva che avrebbe dovuto esserlo.
Ma provava solo un leggero senso di smarrimento.
Dopo vent’anni di quel lavoro non si poteva pretendere di più da lui.
Diede un ultimo forsennato tiro alla sigaretta
e la lasciò cadere nell’erba. La pestò con la punta della scarpa.
Per un attimo la sua faccia era stata
illuminata dalla brace, ma ora non si vedeva più. Era stato un bell’uomo, per
qualche anno, molti anni prima. Un quarto d’ora di gloria, come avrebbe detto
Andy Warhol. Forse un po’ più di un quarto d’ora.
Fino ai vent’anni era stato magro e
allampanato; timido, goffo, impacciato. A vent’anni, per motivi ancora
sconosciuti, aveva iniziato a mettere su peso. Non grasso; aveva messo su una
compatta barriera di muscoli, non tanto evidenti da farlo passare per un body
builder, ma nemmeno gli atrofici muscoletti di un secchione. Un fisico
asciutto, che sommato alla sua statura imponente, ne aveva fatto per qualche
tempo se non il più desiderabile dei maschi, almeno un oggetto da collezione.
Era durato poco. Mentre il suo matrimonio si
sgretolava e i casi gli si accumulavano sulle spalle, si era sgretolato anche
lui. I folti capelli castani si erano ingrigiti, diventando duri e stopposi
come i peli di uno spinone. Il viso si era scavato. Mentre gli comparivano una
serie di rughe verticali intorno alla bocca, gli occhi si infossavano e ogni
singolo osso della sua faccia sembrava spingere per uscire all’aria aperta. Il
fisico – quello si era miracolosamente preservato, anche se, certo, un poco più
pesante di un tempo. Fumava troppo, mangiava male e beveva anche peggio.
Le uniche donne che lo guardavano, ora, erano
quelle troppo disperate per andare per il sottile, o quelle abbastanza
fantasiose da immaginarlo diverso da com’era.
Jack piegò la testa all’indietro, cercando un
filo di vento come una bandiera su un pennone, gli occhi socchiusi, la testa
pesante. Stava arrivando il momento di sedersi al bancone di un bar: il suo
stomaco lo chiamava.
Quando aprì gli occhi lei era là.
Di primo acchito gli venne in mente che avrebbe
potuto essere un’allucinazione. Non sarebbe stato poi così strano. La casa era
chiusa, piantonata da due agenti, il sistema di allarme era inserito. Jack
inclinò la testa da un lato, cauto, aspettandosi di non vederla più. Invece lei
era ancora lì, ferma sotto allo spruzzo degli annaffiatoi automatici.
Sembrava giovane, sui venticinque, ma era
difficile a dirsi. Era vestita completamente di nero, dai pantaloni aderenti,
alla t-shirt, agli scarponcini alti da città. Anche i capelli erano corvini,
con delle ciocche irte che le coprivano metà del viso. La pelle era candida come
la luna, anche sulle labbra. Non era truccata e lo stava fissando, seria.
«Che cosa ci fai qui?» chiese Wyte,
avvicinandosi di un passo. Non pensò nemmeno per un istante di allungare la
mano verso la pistola di ordinanza, o verso la Sig Sauer calibro .40 che in
teoria non avrebbe dovuto avere, ma che invece era al comodo nella sua tasca.
La ragazza lo fissò in uno strano modo, come se
volesse imprimersi nella mente ogni dettaglio di lui. Non rispose, né diede
segno di volerlo fare.
«Jimmy non è più qua» disse Wyte, immaginando
di trovarsi di fronte a una fan, entrata chissà come. Ma dentro di sé non ne
era sicuro. Il look grossomodo corrispondeva, ma c’era qualcos’altro, qualcosa
che non riusciva a mettere a fuoco. «L’hanno già portato via» aggiunse, comunque.
«Il detective Jack Wyte» disse lei. La sua voce
era roca, come se giungesse da distanze siderali attraversando un lungo tratto
tra i ghiacci delle montagne. Wyte, all’improvviso, ebbe freddo.
La ragazza fece un passo verso di lui. Il suo
corpo era troppo magro, i seni quasi non c’erano.
«Chi sei tu?» chiese Wyte. Si accorse solo dopo
di aver sussurrato.
«Guarda» disse lei, e indicò lontano con la
lunga mano bianca.
Wyte seguì il gesto con lo sguardo. Ma non
c’era niente. Solo la massa scura delle siepi che attraversavano il giardino.
Quando tornò a voltarsi dalla sua parte, di lei
non c’era più traccia.
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