Quando, nell’XI secolo, i mongoli di Gengis Khan erano
calati dalle steppe l’effetto doveva essere stato simile.
Certo, i mongoli non avevano
zainetti multicolori, sandali Birkenstock e pantaloni kaki, ma il concetto,
secondo Sensi, era lo stesso. Alla faccia della crisi, scendevano lungo via
Prione in gruppi, parlando a un volume decisamente educato, in lingue
decisamente forestiere e con espressioni giulive che al commissario mettevano i
brividi.
Naturalmente il fatto era che
Sensi detestava l’estate.
La brezza fresca e salina che
soffiava dal mare, mitigando la calura, lo metteva a disagio. Le facciate dei
palazzi, brillanti di luce, gli ferivano gli occhi. Il sole, a picco nel cielo,
batteva impietoso sui suoi abiti neri facendoli diventare caldi e umidi come la
salvietta di un bagno turco. Dietro alla sua nuca si creava una nicchia
ecologica la cui biosfera Sensi non osava esplorare.
Il problema era che Sensi aveva i
capelli troppo lunghi. Troppo lunghi e insolitamente scuri. O meglio,
insolitamente scuri per un trentasettenne, come gli avevano gentilmente fatto
notare di recente.
La città era invasa di turisti
inglesi, tedeschi e americani, tutti tesi verso il prossimo paesaggio così
pittoresco e ansiosi di comprare souvenir tipicamente locali, fabbricati in
Cina su disegno giapponese.
Gli spezzini li tolleravano.
Non erano molti gli aspetti della
sua città di residenza che piacessero al commissario Sensi. Il mar Tirreno non
l’aveva mai convinto (e comunque anche l’Adriatico vicino a Gorizia non era
preferibile), la carenza di servizi lo avviliva, l’aria di provincia lo
nevrotizzava e da quelle parti, secondo lui, si moriva di noia.
Tuttavia non poteva fare a meno
di provare una certa ammirazione per il carattere scostante degli spezzini.
Pessimisti, chiusi, ruvidi, dotati di slanci emotivi scarsi o nulli, avevano
ricevuto l’implicita approvazione del commissario fin dalla prima occhiata.
Alla quale, naturalmente, avevano risposto con uno sguardo torvo.
Se le altre città italiane
durante la stagione turistica diventavano stranamente attraenti e vitali, se
tutti i commercianti di quelle città sorridevano in modo sospetto a chiunque
indossasse bermuda e sandali tedeschi e se branchi di americani ubriachi
venivano incoraggiati dalla popolazione autoctona a scorrazzare per i centri
storici con espressione obnubilata; gli spezzini si limitavano a fingere che i
turisti non esistessero.
Alle loro maniere cordiali
opponevano un’indifferenza cosmica, ignorandoli come ospiti fuori luogo a un
ricevimento.
Sensi approvava.
E, anche se quel giugno era più
caldo della media, non aveva ancora adottato il suo abbigliamento estivo
per una questione di puntiglio.
Motivo per cui, nel breve
tragitto dalla sua mansarda rovente alla sua rovente jeep, si era quasi
sciolto. Per “breve tragitto”, naturalmente si intendeva “breve tragitto per
uno che ha parcheggiato in città”, ovvero circa quattrocento metri
prevalentemente al sole.
Ben protetto dal suo
abbigliamento invernale, quindi, si era infilato nel wrangler e aveva acceso in
un gesto unico motore e aria condizionata.
Partendo dal basso, il suo corpo
considerevolmente magro era coperto da: anfibi di cuoio nero dalla punta
rinforzata alti fino a metà polpaccio, jeans aderenti neri un po’ sdruciti del
tipo spesso, t-shirt a maniche lunghe nera con il logo dei Joy Division e,
legata in vita, una felpa nera con sopra una fila di ufo stilizzati bianchi.
Gli occhi erano coperti da un paio di occhiali tondi da saldatore.
Se qualcuno gli avesse chiesto
perché portasse occhiali da sole così coprenti, Sensi avrebbe probabilmente
risposto “per vedere il meno possibile”. In realtà i suoi piccoli occhi grigi
erano innaturalmente sensibili alla luce e senza gli occhiali, d’estate, non
avrebbe visto quasi niente sul serio.
Quella mattina (se mezzogiorno
meno un quarto poteva considerarsi “mattina”) il suo vice, Massimiliano Tudini,
gli aveva fatto presente che farsi vedere in questura un po’ prima delle tre
del pomeriggio sarebbe stato gradito.
Il commissario era quasi sicuro
che ci fosse un messaggio ben preciso nascosto nelle parole di Tudini, anche se
non aveva idea di quale fosse.
Purtroppo Massimiliano,
nonostante gli anni di formazione con Sensi, non era ancora in grado di
spifferare, senza giri di parole, “il questore è fuori dal tuo ufficio.”
Appoggiare senza riserve il nullafacentismo di Sensi non gli sembrava
professionale.
Sensi accettava la cosa con
filosofia.
Non appena l’interno della jeep
raggiunse una temperatura accettabile si staccò dal marciapiede e si immise nel
flusso irregolare del traffico di via Gramsci. Passò davanti al museo di arte
moderna, dall’architettura inquietantemente simile a quella della questura, e
proseguì verso viale Italia e il lungomare. Visto che uno dei vezzi degli
automobilisti spezzini era di far trascorrere almeno cinque secondi dal momento
in cui scattava il verde a quello in cui partivano, il tragitto non fu
particolarmente veloce.
D’estate, tuttavia, le strade
erano più libere e gli animi più rilassati. Per arrivare in questura gli ci
vollero solo una ventina di minuti, più o meno lo stesso tempo che ci avrebbe
messo a piedi. Era un ottimo risultato.
Lasciò la jeep nel parcheggio
sotterraneo e salì nelle stanze della squadra mobile.
Come sospettava, Salvemini stava
incrociando davanti al suo ufficio.
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