giovedì 23 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 13

“Brucia,” disse il commissario, cercando di ritrarre la mano.
“Ma figurate. È solo acqua ossigenata.”
Carmel gli tenne fermo il polso e versò sulla sua ferita un altro po’ del liquido bruciante che sosteneva non gli avrebbe fatto alcun male. Sensi guaì come un cagnolino.
“È possibile che un hombre cresciuto come te faccia tutte este storie?”
“Ma brucia…” si lamentò il commissario.
Erano seduti sul divano di casa sua e Carmel gli teneva il polso fermo contro il tavolino laccato di nero del salotto.
“Non fare el niño.”
“In italiano si dice bambino,” ribatté, l’altro, piccato.
Carmel non lo ascoltò nemmeno. Tappò la boccetta dell’acqua ossigenata e sparì in bagno. Poco dopo riemerse con una confezione di bende in mano.
A Sensi sarebbe piaciuto molto essere uno di quegli uomini che sopportano stoicamente il dolore, ma di fatto non lo era. Per di più, lamentarsi lo faceva sentire meglio.
Quando aveva l’influenza sembrava che stesse per morire da un momento all’altro e quando si faceva male piagnucolava finché non veniva consolato. Il fatto che spesso riuscisse a trovare chi lo consolasse dimostrava che era una strategia vincente.
“Da’ qua,” disse Carmel e, prima che l’altro potesse opporsi, afferrò nuovamente il suo polso e iniziò a bendargli la mano. A rigor di logica non avrebbe dovuto fargli alcun male, ma Sensi piagnucolò un po’ lo stesso.
“Oh, forza!” lo rimproverò lei, e fermò la benda con una clip con più energia del necessario.
“Hai finito?” recriminò Sensi, riprendendosi la mano. Provò a muovere le dita. Come volevasi dimostrare, il palmo gli faceva male.
“Questa cosa di essere al servizio dei cittadini è una fregatura colossale, l’ho già detto?”
“Solo un milione di volte.”
“Io soffro e tu che cosa fai? Mi prendi in giro. Sei una donna senza cuore.”
“E tu sei un hombre senza cojones.”
Sensi ridacchiò.
“Non provarce nemmeno!” lo mise in guardia Carmel, ma sorrideva anche lei.
“Oh, ma dai… sono ferito, sono sofferente, non potrei mai…”
Carmel si alzò. “Devo andare al bar,” disse, recuperando la borsetta.
“E mi lasci qua solo e ferito?”
Il sorriso di lei si allargò bianco e un po’ canzonatorio.
“Esatto,” concluse.
Sensi la guardò uscire dal suo appartamento con aria incredula.
Il mondo era davvero un luogo ingiusto e crudele.

mercoledì 22 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 12

Chiara era nel suo letto. La stanza era pressappoco quadrata, la finestra era chiusa, l’altro letto era vuoto. Sensi entrò, scortato dalla dottoressa Pagano, e si fermò in piedi accanto alla testa della degente.
“La è venuta a trovare il commissario Sensi,” disse la psichiatra, avvicinandosi all’altro lato del letto. “Come si sente?”
“Ho sonno,” rispose Chiara, con voce strascicata. “Quel calmante era una bomba.”
“Credo che dormire un po’ le faccia bene.”
“Sì, suppongo di sì. Grazie, dottoressa.”
“La lascio con il commissario. Per qualsiasi cosa chiami le infermiere.”
La psichiatra se ne andò e Sensi rimase in piedi accanto al letto, osservando Chiara. La frangia le spioveva floscia sopra gli occhi, che senza trucco sembravano ancora più piccoli. Si puntarono su di lui come due spilli.
“Perché mi hai fatta portare qua?” chiese. La voce era impastata, ma lei sembrava sufficientemente lucida.
“Perché non potevo evitarlo,” rispose il commissario. “Hai detto di aver visto un demonio nella tua camera da letto.”
Chiara prese lentamente fiato. “Questo posto ti fa venire il sospetto di essere pazza.”
Sensi si guardò lentamente intorno. Qualcuno, in un’altra stanza, canticchiava una sorta di ninna nanna, le pareti erano spoglie, i letti avevano l’intelaiatura di alluminio, ma fuori dalla finestra si vedevano degli alberi.
“Ti hanno trattata bene?” chiese, alla fine.
“Sai, non legano più i matti al proprio letto,” rispose l’altra, con un vago sorriso. “Mi hanno dato da mangiare. La dottoressa sembra decente.”
“Le ho spiegato che c’era stato un omicidio sopra casa tua. Ho fatto revocare il TSO. Domani, se vuoi, te ne puoi andare.”
“Le ho spiegato anch’io che c’era stato un omicidio. Ha detto che probabilmente ho avuto un’allucinazione come risposta allo stress.”
Sensi si limitò a guardarla in silenzio.
“Le ho dato ragione su tutta la linea,” aggiunse Chiara.
Sensi continuò semplicemente a guardarla. Indossava la maglia di un pigiama leggero con sopra disegnati dei pinguini.
“Ma ovviamente ho visto quell’affare nella mia camera, ho visto i tuoi occhi diventare rossi e ti ho visto mentre tracciavi un cerchio di sale attorno a me. Potrei essere impazzita, ma io non credo.”
Sensi si stropicciò gli occhi.
“Ora stai cercando di decidere che cosa dirmi,” continuò Chiara. “Se dirmi che sono pazza, o se dirmi che non la sono.”
“No,” rispose Sensi. “Mi sto solo chiedendo se nel bar di questo posto vendono della Red Bull, perché sarà una lunga chiacchierata e ho la gola secca.”
Chiara gli passò la bottiglietta d’acqua che aveva sul comodino. Sensi la guardò per qualche istante come se pensasse che potesse essere velenosa, poi l’aprì e bevve un sorso.
“Qualcuno è stato nell’appartamento sopra al tuo, stanotte,” disse, poi. “Come è entrato non è importante. Ci sono tanti modi per aprire una porta, più modi di quelli che immagini. Ha ucciso Paolo Sorriso. Era un sacrificio, credo. Uno strano sacrificio, se vuoi.”
“Perché i tuoi occhi sono diventati rossi?” lo interruppe Chiara, con una certa urgenza.
Sensi la fissò.
“Questa è una domanda che non puoi farmi,” disse, e a Chiara in quel momento sembrò che un muro fosse sceso davanti al suo sguardo, un muro che non poteva nemmeno immaginare di sgretolare.
Sensi girò attorno al suo letto e andò a sedersi sull’altro, quello vuoto più vicino alla finestra, con la luce del giorno alle spalle.
“La persona che ha ucciso Sorriso ha tracciato un sigillo sul muro. Non è necessario nominare l’essere che ha chiamato, ma l’hai visto nella tua camera da letto. A questo serviva il cerchio di sale.”
“A… proteggermi?” domandò l’altra, con voce sottile.
“A nasconderti,” rettificò Sensi. “Ma non sapevo ancora niente. Quando sono stato nella stanza dell’evocazione… è stata una strana evocazione. Mi mancano troppi tasselli, non capisco quali fossero le intenzioni dell’omicida. Sai, di solito… se evochi un demone vuoi qualcosa da lui. Per prima cosa non vuoi che ti uccida. Vuoi che faccia qualcosa per te.”
Il commissario si fermò un istante, chiuse gli occhi. Sembrava sul punto di lasciarsi cadere all’indietro sul letto, forse di addormentarsi.
“Certo, così avrebbe un senso…” mormorò.
“Che cosa avrebbe un senso?” lo incalzò Chiara.
L’altro riaprì gli occhi e la fissò come se fosse stupito di vederla.
“Ieri sera avrei dovuto fare qualche domanda in più ai due piccioncini. Posso farne qualcuna a te, invece?”
“Ermanno, io vorrei che mi spiegassi qualcosa, piuttosto,” replicò lei.
Lui sbuffò. “Come posso spiegarti qualcosa che ancora non so? Questa mattina non ho capito niente, non è certo una novità. Potrei non aver capito niente neanche ora. Parlami del demone, piuttosto. È come colato dal soffitto, come se stesse sprofondando attraverso qualcosa privo di sostanza. Era solido?”
Il labbro inferiore dell’altra tremò appena. “Non lo so. Non l’ho guardato bene. Forse… non del tutto. Sembrava come… fuori fuoco.”
“Ti ha guardata.”
“Sì,”
“Ti ha vista,”
“Non lo so! Mi stai facendo paura, adesso!”
Chiara iniziò a piangere e Sensi si sedette sul suo letto e l’abbracciò. Un’infermiera mise la testa dentro la stanza.
“Tutto bene?” chiese, in tono sospettoso.
Sensi alzò lo sguardo su di lei, continuando a tenere Chiara contro il suo petto.
“Questa donna ha paura,” disse. “Ha visto un assassino.”
L’infermiera aprì la bocca, attonita.
“Sto bene,” piagnucolò Chiara, con la faccia premuta contro la maglietta del commissario.
“È passato,” disse Sensi. “È passato.”
“Vado a chiamare il primario,” borbottò l’infermiera, e uscì come un razzo dalla stanza.
Sensi si alzò di scatto. “Merda,” disse.
Poi si mosse molto velocemente. Non solo con una velocità che Chiara non gli avrebbe creduta propria (Ermanno, di solito, era piuttosto lento), ma con una velocità che quasi rendeva difficile seguire i suoi movimenti. Non veloce come un essere soprannaturale, questo no, ma comunque molto veloce per essere un essere umano.
Spostò il letto di lei di qualche centimetro, staccandolo dal muro. Prese un temperino da una tasca dei jeans, lo aprì e si praticò un taglio lungo e profondo su una mano. Il sangue ne zampillò copioso, come se avesse reciso una vena. Sensi tracciò un largo cerchio attorno al letto: una scia rossa e irregolare si disegnò sul pavimento piastrellato. Poi, con la stessa mano sanguinante, il commissario estrasse un accendino e diede fuoco al cerchio. Chiara non pensava che il sangue potesse bruciare, ma quello di Sensi bruciò. Divampò come se fosse benzina e non lasciò traccia.
Il commissario si rimise l’accendino in tasca, poi spinse di nuovo il letto contro il muro, ma non completamente. Lo accostò soltanto. Chiara sapeva che era tutto dentro il cerchio, il cerchio che era bruciato e non si vedeva più.
La dottoressa Pagano entrò nella stanza un secondo più tardi, seguita da un’infermiera.
Sensi, in piedi accanto al letto, la guardò con sguardo calmo, con una mano infilata in tasca (la mano ferita).
“Dottoressa, le devo rivolgere una richiesta,” disse il commissario, solo leggermente affannato.
“Si sente bene, signorina Rosaio?” chiese il primario, invece di rispondere. Col suo lungo camice bianco, assomigliava a un totem.
“Sì, io… sto bene, ora.”
“Questa donna è una testimone per un caso di omicidio. La lascio sotto la sua responsabilità fino a domani, quando qualcuno verrà a prelevarla per interrogarla in modo ufficiale. Qualunque cosa dovesse dire fino a quel momento – e auspico che sia il meno possibile – è coperto dal segreto istruttorio.”
Sensi fece un gesto vago con una mano, la mano che non era nella tasca dei pantaloni. “Preferirei non doverlo aggiungere, ma è chiaro che si verificasse una qualsiasi fuga di notizie…”
“Non si verificherà nessuna fuga di notizie,” lo interruppe la dottoressa, in tono netto.
“No,” sorrise Sensi. “Credo di no. Arrivederci, Chiara. Ci vediamo domani mattina.”
E senza aspettare altro, Sensi uscì dalla stanza.
Il primario lo seguì, il lungo camice che le svolazzava dietro. “Commissario!” lo chiamò.
“La ringrazio,” disse Sensi, voltandosi appena.
“Commissario, non c’è niente che pensa di dovermi dire?”
Sensi si fermò, si voltò, e la fissò con i piccoli occhi grigi e duri.
“Forse soltanto… che non era un demone, dopotutto, la persona che Chiara ha visto.”
Poi riprese a camminare come se l’altra non esistesse più. La dottoressa gli aprì una porta che dal reparto femminile portava sul retro dell’ospedale e Sensi camminò di buon passo fino alla jeep.
Quando si fu seduto al suo interno tirò fuori la mano dalla tasca e osservò la lunga e profonda lacerazione che si era fatto col temperino.
Strizzò appena gli occhi ed emise un gemito soffocato di dolore.
“Merda, che male,” piagnucolò.

martedì 21 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 11

Il servizio psichiatrico di diagnosi e cura, così si chiamava il reparto psichiatrico, era alloggiato nella non-esattamente-moderna struttura dell’Ospedale Felettino. Perché non fosse esattamente moderna era un mistero, visto che i lavori di ammodernamento erano in corso da più di dieci anni e le impalcature abbellivano una delle facciate da così tanto tempo che, probabilmente, se le avessero rimosse, l’edificio sarebbe crollato e basta.
L’ospedale era giustamente isolato dal centro cittadino. Era, per dirla tutta, infrattato su per una stradina mal tenuta, mal segnalato e anche nascosto dalla vegetazione.
L’edificio con i reparti era in cima a un poggio, circondato da un dedalo di stradine e da alberi frondosi, e guardato da una sorta di garitta.
Sensi provò a passare la sbarra con la sua jeep, ma, dopo vari minuti di attesa, un membro dello staff molto simile a una guardia giurata gli spiegò che all’interno del plesso ospedaliero c’erano sì e no tre parcheggi, che erano occupati in pianta stabile dalle auto di servizio.
Sensi si rassegnò a parcheggiare in una propaggine dello stradello che portava all’ospedale, all’esterno e sotto il sole. Poi, con una decina di minuti di trekking, raggiunse l’ingresso dell’edificio.
L’Ospedale Felettino ospitava tutti quei reparti che il più centrale Sant’Andrea non poteva o non voleva ospitare: geriatria, psichiatria, infettivologia, oculistica, oncologia e radioterapia. In poche parole, i matti, i ciechi, i vecchi, gli infettivi e i malati terminali erano esiliati in cima a un monte.
Una scelta oculata, secondo Sensi, visto che di matti, vecchi, infettivi e malati terminali Spezia era già fin troppo piena. In quanto ai ciechi, il commissario non sapeva decidersi: li avevano messi in cima a un monte per riabilitare le loro capacità di orientamento, per rendere la loro vita più piena e avvincente o soltanto perché speravano che si sarebbero smarriti nel parco?
Sensi attraversò l’atrio dal tipico colore istituzionale sbiadito, seguì la tortuosa serpentina che portava (o che, più probabilmente, mirava a non far trovare) la sala di attesa del reparto psichiatrico e bussò alla porta blindata.
Dopo qualche minuto di attesa qualcuno gli chiese chi era.
Sensi mostrò le proprie credenziali e chiese di poter parlare con Chiara.
L’infermiere che aveva aperto studiò con cura il distintivo del commissario, poi studiò con cura anche il commissario stesso. L’esame non lo lasciò completamente convinto, ma si dovette persuadere che non era uno dei suoi pazienti o che, quantomeno, nessuno lo pagava per curarlo.
Lo introdusse in uno stretto corridoio piastrellato, dall’odore ospedaliero, nel quale di aggiravano tizi in ciabatte e pigiama. Da una stanza laterale provenivano le voci di un gruppo chiaramente avvinto in un’eccitante partita a carte.
“Carlo, mi dai una sigaretta?” chiese un tizio in ciabatte e pigiama all’infermiere.
“Dopo,” gli rispose lui.
“Me ne viene ancora una,” insistette il degente.
“Ok, ma dopo. Devo accompagnare questo signore.”
Il degente sospirò e, apparentemente, si rassegnò.
“Il reparto femminile è sull’altro lato. Sento se il primario la può ricevere,” disse a Sensi l’infermiere, aprendo una porta chiusa a chiave. La porta era di alluminio e aveva un vetro bugnato che rendeva impossibile guardare attraverso. Sensi, che non aveva mai chiesto di parlare col primario, fu introdotto in un altro stretto corridoio, che era il prolungamento del primo. Sulle pareti erano incorniciati dei poster con dei paesaggi naturali e delle voci provenivano da quella che doveva essere la stanza degli infermieri.
Il suo anfitrione lo scortò fino a una porta chiusa e bussò educatamente. “Dottoressa?” chiamò. “C’è qui un commissario di polizia.”
La porta si aprì a mostrare una signora sulla cinquantina, molto alta, con un camice bianco molto lungo e con dei capelli molto curati.
“La dottoressa Rosa Pagano, il primario,” disse l’infermiere. “Il commissario… mh…”
“Ermanno Sensi,” completò Sensi, stringendo la mano alla dottoressa.
Lei gli fece cenno di entrare.
L’ufficio era piccolo e niente-di-speciale. Conteneva un armadio, uno schedario, un po’ di libri medici sparsi e una scrivania bianca con sopra un computer dall’aspetto vecchiotto.
“Salve, si accomodi,” disse la dottoressa Pagano.
“In realtà sarei venuto per parlare con Chiara Rosaio,” spiegò il commissario.
“Ah. È arrivata da qualche ora, è molto tranquilla. L’ho visitata personalmente e non ho avuto l’impressione che ci fosse realmente bisogno di un TSO.”
Sensi sorrise appena. “Ho avuto la stessa impressione,” disse.
Poi si rassegnò a fornire qualche spiegazione, visto che la dottoressa lo guardava con sguardo educatamente incuriosito.
“Questa mattina del sangue ha preso a colare dal soffitto della sua camera dal letto. Al piano superiore c’era stato un omicidio, una faccenda decisamente sgradevole. Chiara ha avuto un attacco di… bho? Panico? Follia? Comprensibile strizza? Questo me lo dovrebbe dire lei.”
“Sì, me l’ha spiegato. Ha pensato di vedere un essere soprannaturale nella sua camera da letto. A volte il cervello ci fa degli strani scherzi.”
Sensi sorrise. “È una definizione psichiatrica?”
Sorrise anche la dottoressa. “Se vuole il termine tecnico le posso dire che ha avuto un episodio delirante con allucinazioni, ma non suona molto meglio.”
“Ovviamente a meno che non ci fosse veramente un demone in camera sua,” disse il commissario.
“Ovviamente,” ribatté la dottoressa. “Ma gli esorcismi non sono il nostro forte.”
Sensi rise. “Neanche il nostro. Già con gli assassini abbiamo qualche problema. In ogni caso…”
“La può vedere, ma se vede che si sta agitando…”
“Chiamerò aiuto in tono isterico, non tema.”
La dottoressa sorrise ancora. “Ecco, è proprio quello che non dovrebbe fare.”
L’altro sogghignò. “Allora la immobilizzerò contro il muro e le darò un paio di cazzotti, era esattamente quello che volevo sentirle dire.”

lunedì 20 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 10

L’ufficio di Sensi era buio come al solito. I suoi uomini erano seduti qua e là, alcuni al posto delle pile di cartacce che avevano rimosso dalle sedie, alcuni, come Mainardi, direttamente sopra di esse.
“Forse se covi abbastanza nascerà qualcosa,” gli disse il commissario, andandosi a sedere dietro la scrivania.
“Dunque,” continuò, “nell’ottica di un’archiviazione del caso veloce e indolore, credo che dovremmo dividerci i compiti, in modo che ognuno di voi abbia la possibilità di svolgere indagini imprecise e inadeguate in un ambito specifico.”
La Riu strinse le labbra, ma non disse niente.
“A parte l’ispettrice, è chiaro. Le sue indagini saranno meticolose e altamente efficaci, solo che noi le rovineremo tutto come al solito. Va meglio, così?”
L’ispettrice grugnì.
“Direi che lei, come unica rappresentante del gentil sesso nella squadra, potrebbe occuparsi di qualcosa di squisitamente femminile, come andare dal patologo e rompergli le palle finché non le spiega perché il sangue della vittima non si coagula.”
La Riu, che evidentemente non voleva sapere che cosa ci fosse di squisitamente femminile nel compito, si limitò a un brusco cenno d’assenso.
“In quanto a Mainardi, credo che possa applicare le sue non trascurabili doti investigative nel più classico degli interrogatori porta a porta del vicinato. Quello che dovresti cercare, se posso permettermi di suggerirtelo, sarebbero sconosciuti armati di coltello che si siano aggirati con fare losco nei dintorni nelle ore immediatamente successive alle due e mezzo.”
“Ok, capo,” disse Mainardi, remissivo.
“Ah, e lo sconosciuto potrebbe anche non essere stato palesemente armato di coltello. O persino ben conosciuto. E anche per niente losco.”
L’altro annuì.
“Max, tu, invece, credo che dovresti andarti a sincerare delle condizioni del secondo ragazzo, Johan Milovich.”
“Mi servirà un interprete?”
“Se ne trovi uno che sappia tradurre dal coma al linguaggio di noi desti credo che ti sarebbe enormemente utile, altrimenti Johan parla perfettamente la nostra lingua, visto che è nato e cresciuto a Migliarina. Be’, forse “perfettamente” potrebbe non essere la definizione giusta, ma ci siamo capiti.”
Sensi mosse leggermente il mouse del computer, si sincerò che il download della discografia completa dei Red House Painters fosse a buon punto e tornò a concentrarsi sulla sua squadra.
“No, dovresti cercare di capire che cosa gli è successo. All’apparenza non aveva lesioni e, sempre all’apparenza, era sul letto durante l’omicidio, probabilmente incosciente, quasi sicuramente di schiena, almeno a fidarsi della traiettoria delle gocce di sangue. Ora, non voglio suggerire che bisognerebbe fare un’analisi dei blood pattern, ma ho ugualmente scaricato sul computer la fotografia presa con il mio cellulare. O meglio, ho scaricato l’intera cartelletta, visto che non mi consentiva di fare altro. Sarà tua cura rimuovere le fotografie dei concerti, dei locali notturni e di me stesso in atteggiamenti poco adatti al prestigio della nostra divisa.”
Tudini, serio come al solito, gli assicurò che l’avrebbe fatto.
“Molto bene. Ora, mentre voi iniziate le indagini, io mi recherò all’ufficio person… al reparto psichiatrico.”
La Riu inarcò un sopracciglio. “Lei è consapevole del fatto che spostare la data delle sue ferie sarebbe un gesto di ben poco senso civico, vero, commissario?” chiese, con voce flautata.
Sensi sospirò pesantemente. “Un giorno scoprirò una postilla del regolamento che mi permetterà di cancellare dal mondo il male che lei rappresenta, ispettrice.”
La Riu si limitò a un sorrisetto soddisfatto, segno, pensò Sensi, che quella postilla esisteva di sicuro, ma che lei sapeva benissimo che lui non l’avrebbe mai trovata.
Anche perché, per trovarla, avrebbe dovuto leggere il regolamento: una possibilità peggiore del male, a suo avviso.
Rassegnato, mise in stand-by il computer e si preparò a un’allegra gita all’ospedale dei matti.

L'appartamento di sopra - 9

“Era alto, forse tre metri…” piagnucolava Chiara, al suo arrivo. “Sembrava come… un ratto, o un altro roditore, però con la faccia da uccello, e poi…”
“Stia calma, signorina,” le stava dicendo Tudini, tenendole la mano.
Sensi si avvicinò. Chiara era seduta al tavolo della cucina, era in lacrime, aveva la faccia rossa, il naso umido e lo sguardo di una che sta perdendo la ragione.
“Da dove è entrato?” chiese, sedendosi sull’altra sedia.
Lei continuò a piangere. “È… è… è come sprofondato dal soffitto… dalla macchia di sangue…”
Chiara lo guardò come se non avesse idea di chi fosse. “Ha… annusato il letto… poi… poi…”
“Dov’è la signora in questione?” chiese una voce maschile, in quel momento.
Tudini si voltò. “Qua,” disse.
Sulla porta erano comparsi due uomini vestiti da volontari della Croce Rossa. Erano, notò Sensi, grossi come due armadi e non sembravano minimamente toccati dalla vista di una donna in lacrime.
“Sono qua per portarla all’ospedale,” le spiegò Tudini, gentilmente.
“A… all’ospedale?” tartagliò lei.
“È molto scossa e…”
Chiara si alzò in piedi di scatto e iniziò a urlare: “Io non sono pazza! So quello che ho visto! C’era un gigantesco coso nella mia camera da letto ed era un mostro!”
“Signorina Rosaio, cerchi di capire…” provò a placarla Tudini.
“Abbiamo un ordine di trattamento sanitario obbligatorio,” disse, tempestivamente, uno dei due uomini della Croce Rossa.
“Io non sono pazza!” gridò Chiara, cercando di strattonare via la mano da Tudini. Lui la tenne con più energia.
“Mollami, bastardo!” strillò lei.
“Lei deve…” provò a imporsi l’altro.
“Lasciala.”
Tudini, Chiara e gli uomini della Croce Rossa si voltarono verso Sensi, che aveva parlato con calma e, con altrettanta calma, aveva chiuso una mano attorno al polso di Tudini.
“Lasciala, Massimiliano,” ripeté. Tudini aprì le dita.
“Scusi, lei chi sarebbe?” chiese, invece, uno degli uomini della Croce Rossa.
“Il commissario capo. Uscite per qualche minuto, per favore.”
“Scusi, non credo che sia sicuro…”
“Scusi, non credo che si renda conto che questa donna pesa la metà di me e non ha neanche una pistola. Adesso uscite.”
Qualche minuto più tardi Chiara emerse dalla cucina. Aveva gli occhi asciutti, un borsone a tracolla e sembrava un po’ più tranquilla.
“Andiamo,” disse ai due uomini della Croce Rossa.
Sensi emerse dalla cucina dopo di lei e la salutò con una mano mentre si allontanava con i due uomini.
“Come hai fatto a convincerla?” chiese Tudini.
L’altro sorrise appena. “Una piccola bugia a fin di bene: le ho detto che all’ospedale il demone non l’avrebbe trovata.”
“Ah. Buona idea.”
“Naturalmente sempre il che il demone non la voglia trovare,” rispose il commissario.

domenica 19 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 8

Sensi stava andando in macchina verso la questura quando il primo dei suoi uomini si rese conto che quando era uscito dall’appartamento non era stato per fare qualcosa di attinente all’indagine, e non sarebbe rientrato dopo pochi minuti.
La telefonata gli arrivò da Tudini, ma era chiaro che il mandante era l’ispettrice Riu.
“Ermanno?”
“Sì?”
“Scusa, dove sei?”
“In questo momento imbottigliato nel traffico delle 12 e 38 del mattino.”
“Ah. No, intendevo…” riprese Tudini.
“Sto andando a fare delle indagini,” mentì disinvoltamente Sensi.
“Oh, ok,” disse l’altro.
Era semplicemente troppo facile, pensò Sensi. La Riu stava perdendo dei colpi. Un tempo avrebbe telefonato di persona, pretendendo che tornasse immediatamente sul luogo del delitto.
Ma visto che la chiamata l’aveva fatta il suo vice, e visto che il suo vice era facile da confondere, Sensi si sentì autorizzato a proseguire verso la questura.
Anche se proseguire, vista la coda che bloccava tutta via Fiume e presumibilmente buona parte della galleria Spallanzani, era un’espressione un po’ forte.
Sensi guardò il serpentone di macchine che gli si stendeva davanti e spense il motore.
Un sigillo tracciato sul muro col sangue non era esattamente la sua idea di “buon inizio di giornata”. Se poi ci si aggiungeva che il sigillo era quello di Dantalian la cosa era ancora meno simpatica.
A Sensi i demoni non piacevano. Aveva un’esperienza fin troppo vasta in merito e non sentiva nessun bisogno di ampliarla ulteriormente.
Quello di cui sentiva il bisogno, a quell’orario del mattino, era una lattina di Red Bull, della focaccia e qualche ora di peer-to-peer col computer dell’ufficio.
Ovviamente, col nuovo caso, tutti i suoi piani sarebbero stati sconvolti.
Adesso avrebbe dovuto andare all’ufficio del personale e vedere se riusciva a farsi anticipare le ferie di una quindicina di giorni. Poi avrebbe dovuto cambiare le prenotazioni dell’aereo, capire se a Berlino c’era qualcosa da fare anche con mezzo mese di anticipo e, in caso contrario, cercare qualche altro evento musicale di suo gusto in qualche altra zona del globo.
Una seccatura infinita, ma sempre meglio che occuparsi del caso Dantalian.
L’auto davanti alla sua ebbe un sussulto e Sensi rimise in moto.
Il suo cellulare ricominciò a suonare.
“Commissario?” disse la voce della Riu. Sensi imprecò tra sé.
“Sì?”
“Non so quale pista stia seguendo…” spiegò l’altra, con evidente sarcasmo “…ma dovrebbe tornare qua, credo. La testimone, Chiara Rosaio…” Sensi impiegò qualche secondo per capire che l’altra si stava riferendo alla donna con cui aveva fatto sesso per tutta la notte “…ci sta dando dei problemi. Dice di aver visto un essere infernale nella sua camera da letto. Abbiamo chiamato un’ambulanza e stiamo per emettere un TSO, ma il questore insiste che lei debba essere presente alla procedura.”
Sensi aggrottò le sottili sopracciglia nere.
“Be’, se insiste…” borbottò.
Poi tirò fuori il lampeggiante dal cassetto del cruscotto, lo fissò sul tetto della sua jeep e fece disinvoltamente inversione nel traffico, con la sirena al massimo.
In fondo qualcosa di positivo c’era, in tutta quella faccenda.

L'appartamento di sopra - 7

“Non avrebbero dovuto portare via l’altro ragazzo prima dell’arrivo della scientifica,” fu una delle prime cose che disse la Riu, arrivando sul luogo del delitto.
“Capisco quello che intende, ispettrice. Se poi fosse stato morto anche lui preservare la verginità della scena sarebbe stato ancora più semplice.”
La Riu gli lanciò un’occhiataccia, mentre Sensi tirava fuori il cellulare, un guscetto di plastica rosso brillante.
“Comunque gli ho fatto una foto, così stasera potrò metterla su Facebook.”
Tudini aggrottò le folte sopracciglia.
“Non è un nuovo software della polizia,” lo prevenne Sensi. “Comunque,” aggiunse, tirandosi indietro i capelli, “mi sembra il momento giusto per farci qualche domanda. Chi inizia?”
Mainardi, che cercava di evitare la vista del cadavere da quando era entrato nell’appartamento, alzò una mano. “Io ne avrei una, capo.”
“No, non puoi usare il bagno. Te la dovrai tenere fino alla ricreazione.”
L’altro sbuffò. “Volevo chiedere: che cavolo è quel coso?”
Lo sguardo di tutti i presenti si spostò sul graffito insanguinato sulla parete. Era un disegno geometrico, formato da quattro croci e vari cerchietti, che si intersecavano a formare un quadrato irregolare privo di un lato sormontato da un’altra croce.
“Quello?” disse Sensi. “Quello è un sigillo.”
“Roba esoterica?” volle sapere la Riu. Dal modo in cui pronunciò la parola “esoterica” avrebbe potuto anche dire “diarrea”.
Il commissario si accarezzò il mento. “Se con esoterica intende satanica, direi che, sì, possiamo definirla roba esoterica.”
“Oh, Cristo,” sospirò Mainardi.
“Che razza di simbolo sarebbe, Ermanno?” chiese, invece, Tudini, con il taccuino in mano.
L’altro guardò la parete per qualche istante. “Sigillo, non simbolo. È il sigillo di Dantalian, un duca infernale che comanda trentasei legioni di spiriti, che influenza le menti e controlla la scienza e l’arte. Ma quello che mi colpisce è un altro particolare.”
“Che sia stato tracciato col sangue?” interloquì Mainardi.
“Tu sei un osservatore fottutamente acuto, Mainardi, non ti sfugge davvero niente.”
“Ma perché disegnare il sigillo di questo demone?” chiese la Riu. “A parte il fatto che il tizio è fuori di testa, ovviamente.”
Sensi incrociò le braccia. “Perché non disegnare anche un cerchio, piuttosto? Questa è la domanda interessante.”
Il commissario scosse la testa, assorto. “Non ha senso.”
“E le dispiacerebbe spiegarlo anche a noi?” disse la Riu, irritata.
L’altro la guardò per un istante in silenzio, come se stesse seguendo un suo pensiero personale.
“Sembra che qualcuno volesse evocare questo demone,” spiegò, alla fine, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. “Ha fatto un sacrificio di sangue… un sacrificio francamente esagerato, tra l’altro: per evocare un demone bastano poche gocce. Ha tracciato il sigillo sul muro, e questo ha un senso, ma non ha tracciato un cerchio per terra, e questo non ne ha. Se uno evoca un demone di solito è per asservirlo, e per asservirlo devi intrappolarlo, e per intrappolarlo ti serve un cerchio. Per questo i pentacoli stanno dentro dei cerchi, è soltanto logico. Ma qui non c’è nessun cerchio, non c’è niente che trattenga il demone. Che senso ha?”
“Commissario, non vorrei sottolineare l’ovvio, ma chiunque abbia commesso questo crimine è un demente. È probabile che quel segno stimolasse qualche suo delirio. Non credo che…”
Sensi interruppe l’ispettrice con un gesto stanco della mano.
“Lei ha senz’altro ragione. Adesso… qualcuno ha un pennarello?”
La Riu inarcò le sopracciglia. “Un…”
“Pennarello, è quello che ho chiesto.”
Tudini ne estrasse uno, blu, dalla tasca.
“Eccellente,” disse Sensi, prendendolo. Poi andò alla parete e tracciò un bel cerchio tondo attorno al sigillo. Accanto ci scrisse, in stampatello: REPERTO A.
Poi lo passò a Mainardi. “Adesso puoi fare un cerchio attorno al cadavere e scriverci reperto B.”

sabato 18 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 6

Qualcuno le stava infilando una maglietta. Chiara aprì leggermente gli occhi e scoprì che la luce le faceva scoppiare la testa dal dolore. A scopo precauzionale li richiuse.
“Aiutami con le gambe, ok?” la raggiunse la voce di Ermanno.
Chiara si limitò a gemere.
“Mi dispiace averti mandata nel mondo dei sogni, tesoro, ma dovevo proprio salire e non potevo lasciarti qua in preda a una crisi isterica.”
Ermanno la sollevò prendendola sotto le ascelle e le tirò su i pantaloni con l’altra mano. Poi la riappoggiò sulla sedia.
Chiara provò di nuovo ad aprire gli occhi. Questa volta riuscì a guardare il mondo da una fessura.
Il pavimento sembrava pulito, del sale che l’altro aveva versato poco prima non c’era più traccia.
“Ti prendo un po’ d’acqua,” disse lui. Si voltò verso il lavandino, riempì un bicchiere e lo posò sul tavolo davanti a lei.
Si sedette sull’altra sedia e la guardò in silenzio per qualche secondo con i suoi occhietti grigi e pensosi.
“Come ti senti?” chiese, in tono gentile.
“Che cosa è successo?” replicò lei, leccandosi le labbra screpolate. Sensi spinse il bicchiere verso di lei.
“Abbiamo un problemino, al piano di sopra. Uno dei due finocchi è morto, l’altro… scusa, questa dev’essere l’ambulanza.”
Dalla strada, in effetti, proveniva il suono lancinante di una sirena spiegata.
Sensi aprì la finestra e fece dei segni verso il basso. “All’ultimo piano!” gridò. Poi tornò a sedersi al tavolo.
“Tra poco qua ci saranno più sbirri che cavallette durante le piaghe d’Egitto,” disse.
“Chi… chi è morto?” chiese lei.
“Quello moro, non so il nome.”
Chiara ricominciò a piangere. “Paolo,” disse.
“Ok, Paolo è morto. È successo stanotte. Temo che dovranno dare un’occhiata alla tua camera da letto.”
“Ma come? Perché? Che cosa… chi è stato?”
Sensi si strinse nelle spalle. “Non ne ho idea,”rispose.
Chiara socchiuse gli occhi, sospettosa. “Perché hai fatto un cerchio col sale, prima?” domandò. E visto che l’altro non rispondeva aggiunse: “Perché i tuoi occhi sono diventati rossi?”
Sensi la guardò in silenzio per alcuni secondi, poi si alzò e si diresse verso la porta.
“Devo tornare di sopra,”disse.

L'appartamento di sopra - 5

Sensi salì per le scale due gradini alla volta. La porta dell’appartamento del piano di sopra era chiusa. Lui ci appoggiò una mano sopra, scosse la testa e iniziò a frugarsi nelle tasche.
Alla fine trovò il temperino che stava cercando, si fece un piccolo taglio sul palmo e lo appoggiò alla serratura.
Faceva male.
La serratura scattò con un suono ovattato e Sensi entrò in casa con passi lenti e circospetti.
La camera da letto era sopra a quella di Chiara.
“Fantastico,” borbottò.
Per terra, ai piedi del letto, c’era un uomo nudo, sgozzato come un maiale. Qualcuno aveva pensato bene di aprirgli non solo la gola, ma anche la pancia, da sotto lo sterno fino all’inguine. Le sue previsioni sulla quantità di sangue attorno al corpo erano esatte. Dentro il cadavere doveva esserne rimasto davvero poco, e infatti era bianco-bluastro.
Il sangue, inoltre, era ancora liquido, come se la coagulazione non fosse ancora iniziata.
Sul letto c’era un altro uomo nudo, a pancia in giù, che apparentemente dormiva.
Sensi poteva attestare di prima mano che un uomo, dopo il sesso, era in grado di dormire praticamente ovunque, ma che lo facesse con uno scempio simile vicino sembrava strano anche a lui.
Anche il fatto che sulla parete sopra al letto qualcuno avesse scritto qualcosa con le dita era abbastanza insolito.
Sensi si avvicinò al dormiente e gli esaminò le mani. All’apparenza erano pulite, mentre qualche goccia di sangue era schizzata sulle sue gambe e sulle sue chiappe, come se il tizio non si fosse mai mosso da lì.
Sensi tirò fuori il cellulare e gli fece una fotografia.
Ovviamente la scientifica si sarebbe incazzata, ma tanto quelli si incazzavano sempre, per un motivo o per l’altro. Provò a scuotere l’uomo per una spalla. Lui non si mosse.
Gli appoggiò una mano sul collo. Il battito era lieve, velocissimo, impetuoso.
Sensi riprese il cellulare e compose il numero del pronto intervento medico.
“Sono il commissario Sensi, sono sulla scena di un delitto. Qua c’è un uomo in condizioni gravi, incosciente, con il battito accelerato, nessuna reazione agli stimoli.”
Lasciò l’indirizzo, poi fece un’altra telefonata.
“Max? Siamo nella merda più nera. Sono in via Monfalcone 86, o forse 88, adesso non mi ricordo. C’è un tizio aperto in due per terra, un altro tizio in coma sul letto, un graffito di sangue sul muro – sangue che sta gocciolando nell’appartamento di sotto – e una donna svenuta nell’appartamento dove sta gocciolando il sangue. La donna l’ho messa a nanna io, ma tutto il resto si è verificato in mia assenza, nelle cinque-sei ore passate.”
Massimiliano Tudini, i cui veri pensieri per Sensi erano sempre stati imperscrutabili, si limitò a rispondere: “Arrivo subito con una squadra.”
Il commissario chiuse la comunicazione e tornò a guardare il graffito.
Si inginocchiò accanto al cadavere dell’uomo sgozzato e immerse la punta del dito nel sangue. Era quasi fresco, eppure era ancora perfettamente liquido.
In quanto al graffito, era uno strano intrico di linee, tracciato con una certa rozza precisione.
Sfortunatamente Sensi sapeva benissimo che cosa significava.

venerdì 17 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 4

Chiara era consapevole che Ermanno non era esattamente entusiasta di iniziare una relazione con lei, ma non pensava che vedendola entrare nuda nella sua stanza da letto avrebbe avuto una reazione così negativa.

Il commissario aveva spinto via il copriletto e le lenzuola e adesso se ne stava rannicchiato contro la testiera, con le ginocchia attaccate al petto. Aveva lo sguardo fisso sulla porzione di letto davanti a sé, dove c’era una macchiolina rossa.

“Oh,” disse Chiara, “forse ieri sera abbiamo esagerato.”

Sensi voltò lentamente lo sguardo su di lei.

“Non mi risulta che abbiamo fatto sesso appesi al lampadario. Molto energico, a giudicare dalla macchia.”

Chiara alzò gli occhi. Proprio sopra il letto, nell’intonaco chiaro del soffitto, si allargava una macchia rosso scuro, liquida. Sembrava che stesse… una goccia cadde sul lenzuolo in quel momento.

Sì, stava decisamente gocciolando.

“Oh, Cristo, bisogna chiamare la polizia!” esclamò.

Sensi le rivolse uno sguardo vacuo. “Fai conto di averlo già fatto.”

“Giusto. Oh, merda. Merda, Ermanno! Sta gocciolando sul mio letto!”

“Davvero incivile.”

“Ma no! Volevo dire… è sangue?”

“A meno che non stiano preparando un hot-dog al ketchup davvero gigante e le cose gli siano sfuggite un po’ di mano…” commentò l’altro, quieto. Poi si rivoltò e avvicinò la faccia alle gocce sul lenzuolo. “Ma no, è sangue.” Sollevò lo sguardo su di lei, uno sguardo rosso e fisso come quello di un coyote davanti ai fari di una macchina. “Sangue umano.”

Chiara retrocesse lentamente fino alla porta della stanza. “Chi sei tu?” gridò.

Il commissario tornò a guardarla. I suoi occhi erano grigi e infossati e un po’ pensierosi come sempre.

“Era una domanda retorica, spero,” disse.

“Dio… i tuoi occhi, per un istante… Cristo. Scusa, sono sconvolta. Forse ho le allucinazioni. Che cosa…” Si sedette a terra, con le gambe davanti a sé. “Che cosa facciamo?”

L’altro scese cautamente dal letto.

“Mi toccherà andare a dare un’occhiata.”

Raccolse da terra le mutande e se le infilò con calma. “Fossi in te mi vestirei. Be’, a meno che tu non voglia farti una sveltina sul luogo del delitto.”

“Ermanno!”

Lui si infilò anche la maglietta, una cosa nera con sopra il nome di un movimento architettonico dei primi decenni del novecento.

“Scherzavo. Alla mattina le sveltine non mi riescono, solo sesso pacato e letargico, mi dispiace. E per il sesso pacato e letargico credo di non avere tempo.”

Dal soffitto cadde un’altra goccia.

“Forse dovrei metterci sotto un sacchetto o qualcosa,” disse lei.

“Giusto. Non c’è motivo di sporcare un eccellente materasso.”

Chiara si rialzò in piedi. Le tremavano le mani, le gambe non la reggevano. Probabilmente stava per mettersi a piangere e quella sottospecie di fidanzato che non la voleva nemmeno continuava a vestirsi con calma assurda.

“Cristo santo, Ermanno, è morto qualcuno!”

“È piuttosto probabile. Di sopra dev’esserci un lago, e uno non può perdere un lago di sangue e restare vivo.”

A quel punto Chiara iniziò a piangere davvero. Dalle sue labbra uscì un lungo lamento disperato, mentre si copriva gli occhi con le mani e scivolava di nuovo a terra, contro la parete.

Qualcuno la prese sotto le ascelle e la tirò su.

“Avanti, avanti. Muore qualcuno tutti i giorni, sai?” Sensi la prese senza tante cerimonie sotto alle chiappe e la portò in cucina di peso. Uscì dalla stanza e tornò poco dopo, con un fagotto di panni tra le mani.

“Vestiti. La polizia la chiamo io appena ho controllato di sopra. È più pratico.”

“Ermanno…” mugolò lei, accasciata su una sedia.

“Resta qua, su questa sedia, e non ti succederà proprio niente,” disse lui. Poi fece una delle cose più strane che Chiara avesse mai visto fare a un uomo. Prese il sale dal barattolo e lo rovesciò deliberatamente tutto attorno a lei, formando un cerchio sul pavimento.

“Che cosa…?”

“Stai lì. Non chiamare la polizia. Non ancora. Torno tra qualche minuto, credo.”

“Come sarebbe a dire credo!? Io qua da sola non ci resto! C’è un morto al piano di sopra! Che cosa hai fatto con il sale?”

Sensi chiuse gli occhi. Sembrava irritato. Sembrava estenuato.

Chiara lo vide come in sogno appoggiarle una mano sopra alla gola, poi non vide più niente.

giovedì 16 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 3

Sensi si svegliò verso le undici. Mise a fuoco un soffitto che non era il suo e, lentamente, prese atto che anche i muri, il letto e tutto il resto non erano quelli di casa sua.
Dopo qualche secondo ricordò di essere a casa di Chiara, perché era lì e che cosa era successo la sera prima.
Ricordò che l’aveva conosciuta la settimana precedente al Portrait, un localino del centro che apparteneva a un gruppo di artisti. Sensi ci era andato solo perché era vicino a casa sua, era un posto tranquillo e la musica, di solito, non faceva schifo.
Chiara era insieme a tre o quattro amiche. Sensi non aveva fatto caso a loro, ma l’aveva incontrata davanti alla porta del bagno.
“Sei in coda?” le aveva chiesto.
“Sì, ma quello degli uomini è quello,” aveva risposto lei.
In effetti accanto alla prima c’era un’altra porta. “Ed è libero?”
“Sì. Quello degli uomini è sempre libero,” aveva detto lei, saltellando leggermente da un piede all’altro.
Sensi aveva sorriso. “Puoi usarlo, non faccio la spia.”
Così lei era entrata nel bagno degli uomini e Sensi aveva aspettato. Dal bagno delle donne era uscita una cicciona gotica, un esemplare diffuso a tutte le latitudini. Chissà perché le donne quando pesavano più di cento chili erano sempre convinte che il nero le snellisse o che avere un look trasgressivo le rendesse più sexy.
E d’altronde gli uomini che pesavano più di cento chili di solito erano convinti di non avere alcun problema di grasso.
Sensi era entrato nel bagno delle donne. Dato che la chiusura non funzionava aveva messo in conto che qualcuno potesse entrare mentre pisciava, ma si stupì lo stesso un pochino quando l’intrusa si rivelò essere la ragazza a cui aveva ceduto il bagno degli uomini.
“Oh, scusa. Volevo vedere se te ne eri andato.”
Sensi, con il pisello in mano, le aveva rivolto un’occhiata divertita.
“Di’ un po’, quanto hai bevuto?” aveva chiesto, dando una scrollata e rimettendoselo dentro.
Lei aveva riso. “No, solo un margarita. Non sono sbronza, solo stanca. Hey, scusa per l’invasione, eh?”
Sensi era scivolato fuori dal bagno passandole accanto. Sapeva di alcool e di fumo. “Fammi indovinare, adesso andrai nel cortile a farti una sigaretta,” aveva detto, lavandosi le mani.
Lei aveva riso e aveva confermato. Sensi aveva deciso di accompagnarla.
Il cortile interno era una cosa minuscola, con dei tavolini minuscoli e delle sedie di tela da regista. I gestori non incoraggiavano i clienti a stare fuori, perché un paio di volte il vicino del piano di sopra gli aveva tirato addosso delle secchiate d’acqua, in linea col tipico senso della tolleranza spezzino.
Sensi e Chiara si erano seduti a un tavolino e lei si era accesa una sigaretta.
“Tu non fumi?” aveva chiesto lei.
“Ho altri difetti,” le aveva spiegato lui, dolcemente.
“Quindi sei uscito giusto per fare un po’ di conversazione? Ti ho visto, prima, eri solo.”
Lui aveva sorriso. Nelle ombre scure create dall’illuminazione tenue la sua ombra era parsa stiracchiarsi.
“Veramente sono uscito per vedere se dopo avermi visto il pisello ora mi facevi vedere qualcosa di tuo,” aveva risposto, sincero, con un piccolo sorriso disarmante.
“Be’, sei sincero,” aveva commentato, infatti, lei.
“Potrei diventarlo ancora di più, ma non hai ancora finito la sigaretta. So quanto diventano irritabili i fumatori se gli togli la loro droga.”
Lei aveva dato un tiro bello profondo. Aveva il naso aquilino e le labbra carnose. Gli occhi erano piccoli e castani, semi-nascosti da una frangia ramata che doveva costarle un patrimonio in lacca ogni mattina.
“I ragazzi d’oggi non sanno più cosa significhi la parola corteggiamento.”
“Le ragazze d’oggi non sanno più che cosa significhi la parola gonna.
Lei aveva riso e aveva accavallato le gambe nell’altra direzione.
“La mia gonna non è così corta,” aveva detto.
Sensi si era permesso di apparire scettico. “Hai ragione. Copre le tue chiappe quasi per intero e questo, temo, è il suo unico difetto. Mi spiego meglio.” Aveva allungato una mano sotto la sedia e l’aveva appoggiata in corrispondenza delle sue chiappe. “Immaginiamo che questo inconsistente pezzo di tela non ci sia… starei toccando la tua gonna o le tue mutande?”
L’altra era sembrata oltraggiata solo per pochi istanti. “Esattamente in quel punto?”
“Mh.”
“Be’, allora non staresti toccando proprio niente. Ho uno string.”
Sensi aveva tolto la mano, si era riappoggiato contro lo schienale della sedia e aveva accavallato le gambe.
“Oh, e di che colore?” si era informato.
Chiara era sembrata perplessa. “Bianco, credo.”
“Credo?”
Lei aveva scosso la testa e si era messa a ridere. “Mi stavo giusto chiedendo dove volevi andare a parare!”
“Sai, metà delle persone non sono in grado di rispondere a una domanda sul colore delle proprie mutande a memoria. L’altra metà suppongo che le abbia di un colore solo.”
“E di che colore sono le tue, allora?”
Sensi aveva inarcato le sopracciglia. “Io sono di quelli che le hanno di un colore solo.”
“Nero!”
Il commissario si era messo a ridere. “Bianco, temo.”
“Sono delusissima.”
“Di solito questo me lo dicono in seguito, ma è sempre meglio mettersi avanti, eh?”
Lei aveva finalmente spento la sigaretta. Sensi si era alzato. “Te ne vai?” aveva chiesto Chiara.
“Torno al bagno, vieni con me?”
Lei aveva aggrottato le sopracciglia. “Cioè?”
“Dobbiamo concludere la nostra indagine sul colore del tuo string. Quel “credo” non mi ha convinto per niente.”
“Ah,” aveva detto lei. “Be’, hai la faccia come il culo.”
“Un culo divinamente ossuto, però.”
Sensi, ovviamente, era preparato a un due di picche. Il due di picche era un’arte squisitamente spezzina. Per questo aveva imparato a non perdere tempo con il corteggiamento.
Ma lei si era alzata, gli aveva rivolto un sorrisetto indisponente e l’aveva preceduto dentro. Forse, aveva pensato Sensi, era stata adottata. Forse, in realtà, era originaria di qualche altro posto. Tipo di Saturno.
L’aveva seguita nel bagno degli uomini, visto che quello delle donne era occupato. Era, tra l’altro, insolitamente pulito, segno che la serata era fiacca.
Le aveva sollevato la gonna e aveva osservato per qualche minuto.
“Sono verde acqua. Come hai fatto a dimenticartelo?”
“Mhh… fretta mattutina.”
Sensi si era accucciato e aveva fatto scivolare il capo d’abbigliamento incriminato fino alle caviglie dell’altra.
“E questa che cos’è, ceretta brasiliana?”
“Era dalle elementari che non andavo in bagno con qualcuno per guardarci a vicenda,” aveva sottolineato lei, con le mani sui fianchi.
Sensi l’aveva accarezzata con un dito. “Scommetto che alle elementari eri molto popolare.”
Lei non aveva risposto e Sensi l’aveva di nuovo accarezzata con un dito. “Scommetto che alle elementari questo non si vedeva,” aveva aggiunto, e si era chinato per baciarla tra le gambe. L’aveva succhiata leggermente e lei gli aveva appoggiato le ginocchia sulle spalle.
“In definitiva penso che tu debba arrenderti all’evidenza che non sei più alle elementari.”
Le aveva infilato un dito davanti, poi, visto che sembrava divertente, le aveva infilato anche un dito dietro.
La serata era proseguita con un rapporto nel bagno del Portrait, con un veloce saluto alle amiche di lei e con altro sesso a casa di lui.
E adesso Sensi era in un letto non suo, in un appartamento non suo, a guardare un soffitto non suo.
Un soffitto sul quale si stava allargando una macchia rossa.

L'appartamento di sopra - 2

Paolo Sorriso e Johan Milovich in effetti non erano morti. Dormivano molto profondamente, questo sì, ma per il resto stavano piuttosto bene. Quando sentirono suonare alla porta Johan guardò la sveglia con aria stupita, come se si aspettasse che fosse già mattina. Paolo, di riflessi più pronti, lanciò una bestemmia e scese dal letto. Aveva altri piani per la nottata.
“Chi è a quest’ora?” chiese.
Al contrario di Johan non aveva guardato la sveglia, quindi non sapeva con certezza che erano le due e mezza di notte, ma gli era ben chiaro che non era il solito orario del postino.
Guardò dallo spioncino.
Davanti a lui c’era un ragazzo gotico, belloccio, dall’espressione un po’ irritata, che teneva davanti a sé un distintivo.
“Commissario Sensi, polizia,” disse il tizio.
Paolo aprì la porta.
“Che succede?”
“Una vicina rompipalle si è lamentata del rumore,” spiegò il tizio.
“Ma lei è davvero un poliziotto?”
L’altro non sembrò affatto turbato dalla domanda. “No, sono un burlone notturno. Senta, c’è qualcun altro in casa con lei?”
Paolo si accigliò. “Il mio compagno, perché?”
In quel momento, ciabattando, arrivò il diretto interessato. Johan aveva un ciuffo di capelli biondi appiccicato sulla fronte e una t-shirt grigia. Per il resto era come mamma l’aveva fatto.
“Chi è questo bel tipo?” chiese.
Il poliziotto gli rivolse un sorriso che a Paolo sembrò di maligna soddisfazione.
“Uno che è venuto a controllare che foste ancora vivi tutti e due. Ora che l’ho fatto è mio dovere avvisarvi che ci saranno altri schiamazzi notturni a seguire.”
“Eh?” fece Paolo.
“Eh?” fece Johan.
“Io vi ho avvertiti, ok?”
Poi, inaspettatamente come era apparso, il supposto poliziotto sparì giù per le scale.
Una decina di minuti più tardi Johan, semi-addormentato, allungò la mano verso il comodino per prendere i suoi tappi per le orecchie.
Dall’appartamento di sotto provenivano dei lamenti animaleschi. Il pensiero che qualcuno avesse bisogno di aiuto non gli attraversò il cervello nemmeno per un secondo.

mercoledì 15 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 1

Il commissario Ermanno Sensi non era portato per le relazioni sentimentali lunghe e durature. Per usare un eufemismo, non erano il suo forte. Per dire tutta la cruda verità, in campo sentimentale era un disastro.
Non che non si impegnasse… no, in realtà non si impegnava affatto, ma il problema era più profondo. Per prima cosa non lo considerava un problema.
Era consapevole di non essere una persona affidabile e non ne faceva mistero. Le sue partner solitamente non apprezzavano questa sua schiettezza. Sensi si chiedeva se dichiarando amore eterno in totale cattiva fede le cose sarebbero migliorate.
Probabilmente, tutto sommato, sì, ma Sensi era troppo distratto per ricordarsi di sostenere le sue buone intenzioni giorno e notte, per non cascare nelle domande a trabocchetto o, semplicemente, per non fregarsene del tutto.
Che, in effetti, nella sua vita ci fossero una serie di eventi ricorrenti collegati alla sua disordinata vita sentimentale, gli fu provato ancora una volta una sera, all’uscita del cinema.
Il commissario non era un appassionato del grande schermo. Non conosceva i nomi degli attori più in voga e non scaricava i film in anteprima da internet.
Però, ogni tanto, al cinema ci andava. Meglio se da solo. Se poi era appena uscito l’ultimo film di Tim Burton si sentiva praticamente obbligato.
Qualche anno prima in città aveva aperto il primo esemplare di Mutiplex.
In realtà non era il primo esemplare in assoluto. Tempo addietro, con tipico spirito di approssimazione spezzino, avevano provato a trasformare un cinema grande in un multisala piccolo. Forse a causa del fatto che le immagini traballavano come un vecchio col Parkinson, prendevano strane sfumature di colore ed erano costantemente sfuocate, l’esperimento non aveva avuto il successo sperato.
Così avevano aperto un vero Multiplex, da dieci sale, con l’aria condizionata, il pop-corn e il vasto parcheggio esterno. La popolazione intellettuale l’aveva immediatamente osteggiato, ma la popolazione intellettuale non era esattamente il target del Multiplex, e in città non era neanche molto rappresentata. Tutti gli altri erano accorsi a frotte.
Sensi era appena uscito dallo spettacolo di mezzanotte, che finiva verso le due, e stava meditando di dirigersi verso l’altra pietra dello scandalo cittadina, il McDonald vicino al cinema, quando il suo cellulare aveva iniziato a suonare.
Il numero non era associato a nessun nome della rubrica, così Sensi, ingenuamente, rispose.
“Ermanno? Stavi dormendo?”
La voce era quella di Chiara, una tizia con cui Sensi aveva fatto un po’ di esercizio da letto la settimana precedente.
“Se fossi stato addormentato probabilmente non avrei risposto,” disse, cercando di fare buon viso a cattiva sorte. Visto che Chiara aveva gambe lunghe, tette grandi e una discreta propensione al contorsionismo poi, in fondo la sorte poteva anche non essere così cattiva.
“Qua è successa una cosa… non sapevo chi chiamare.”
Sensi aprì la sua jeep e si sedette al volante, senza mettere in moto.
“Che cosa?” chiese, iniziando a cercare un chewinggum o qualcosa per eliminare il gusto di pop-corn dalla bocca.
“Sai quei due tizi del piano di sopra… quelli finocchi?”
Sensi aveva la vaga cognizione che lei, in qualche momento, gli avesse parlato dei suoi vicini. Come un po’ tutto il resto di quel che gli aveva detto, il suo cervello aveva iniziato a rimuoverlo nel momento stesso in cui lo stava ascoltando. “Sì?” disse, in ogni caso.
“Ho sentito delle urla. Litigavano.”
“Eccitante,” commentò lui, con l’aria di chi troverebbe più eccitante un documentario sulle foche monache.
“E poi più niente. Si è sentito come… uno schianto.”
“Uno schianto tipo un mobile che cade o uno schianto tipo un colpo di pistola?”
L’altra ci pensò per qualche istante.
“Più tipo un mobile, credo.”
Sensi ebbe una fugace visione di due tizi che litigavano e che, poi, presi improvvisamente dalla passione, facevano sesso animalesco facendo cadere un mobile. Poi, visto che entrambi erano uomini, si sarebbero addormentati di schianto tutti e due. Solo le donne diventavano comunicative nella fase post-coito.
“Allora puoi telefonare alla polizia e denunciarli per schiamazzi notturni.”
“Verrà qualcuno a controllare?”
“Certo che no.”
Ci fu un altro silenzio.
Sensi sospirò. “Oppure posso venire a controllare io,” si offrì, non esattamente entusiasta dell’idea.
“Oh, grazie, sarei molto più tranquilla,” disse l’altra.
Sensi trovò finalmente il chewingum, se lo infilò in bocca e avviò il motore.
“Se non sono morti dovrai pagare per la chiamata notturna,” specificò.

venerdì 10 luglio 2009

Tra poco si riprende

Almeno per un'altra avventura. Poi le vacanze me le prenderò IO, se permettete.