Ferdinando Endrigo della Rocca, terzo del nome, aveva un problema. Be’, in
realtà ne aveva più d’uno. Essere il signore del ducato di Valle Brumosa non
era una passeggiata e le difficoltà erano all’ordine del giorno.
Facendo
un elenco in ordine d’importanza crescente (Ferdinando Endrigo era una persona
precisa), i suoi crucci erano questi:
Primo,
Valle Brumosa non si chiamava così per scherzo. Era brumosa davvero. Le
giornate di sole si contavano sulle dita di una mano, immaginando che quella
mano fosse pesantemente mutilata. Il clima plumbeo nuoceva all’umore di Ferdinando Endrigo e, cosa più grave, alle sue ginocchia.
Secondo,
forse a causa del tempo costantemente plumbeo, il volgo batteva la fiacca. O,
quantomeno, questa era l’impressione di Ferdinando Endrigo, che comunque non
amava osservare il volgo troppo da vicino. La produzione di patate, unici
vegetali a crescere passabilmente bene in quella contrada sfortunata, non era
all’altezza delle aspettative e a nulla valevano le occasionali incursioni
intimidatorie della soldataglia del duca. Anzi, persino le incursioni
intimidatorie erano diventate un peso, per lui. Il popolo se le aspettava. Se
la soldataglia non incendiava almeno un paio di granai al mese, la gente
protestava. Era una situazione snervante.
Terzo,
e più importante, la giovane e volitiva moglie di Ferdinando Endrigo, Bianca
Rosaria Matilde Margherita Tornabuono, figlia e unica erede di Arturo (molti
altri nomi) di Tornabuono, parteggiava sfacciatamente per la megera del paese,
nell’ormai pluriennale sfida intellettuale tra lei e il duca.
Tutto
era iniziato al processo per stregoneria della megera, che si chiamava Matilde
pure lei. Era anche vero che la giovane e volitiva moglie del duca aveva così
tanti nomi che, statisticamente, che la megera ne incoccasse almeno uno non era
molto improbabile. Matilde, però, era il suo preferito. Della moglie, non della
megera.
Comunque,
la megera Matilde era una strega. Lo sapevano tutti. Non solo preparava decotti
per qualsiasi malanno, ma aveva anche il phyisique du rổle. Tanto per
dirne una, aveva il naso adunco. Aveva i capelli ingarbugliati, il viso
leggermente asimmetrico e persino un gatto nero.
Era
una strega fatta e finita.
Ferdinando
Endrigo si considerava un uomo moderno. A lui la stregoneria non interessava.
Non che non ci credesse, non era così moderno, ma, insomma, nel
complesso, non le dava grande importanza.
E
tuttavia, aveva ben presente quali fossero i suoi doveri di signore. Doveva
andare a caccia, cosa che faceva con regolarità almeno una volta al mese,
doveva esigere tasse esose e ingiuste, cosa che faceva con notevole puntiglio,
e doveva bruciare almeno una strega o due all’anno.
La
gente se lo aspettava.
Quando
aveva sposato Bianca Rosaria Matilde Margherita da poche settimane, il duca
aveva fatto bruciare una delle due levatrici di Valle Brumosa. Aveva fatto
bruciare quella più brutta, naturalmente, perché era vero che il popolino si
aspettava un rogo ogni tanto, ma ai contadini la popputa Guendalina piaceva
molto.
E,
per la verità, anche al duca non dispiaceva.
Così,
per comodità, aveva fatto bruciare l’altra.
Bianca Rosaria Matilde Margherita
non aveva avuto niente da ridire. Anzi, forse non se n’era nemmeno accorta.
In seguito, la duchessa era
rimasta incinta. Non in seguito al rogo, è chiaro. Anche Ferdinando Endrigo
capiva che tra le due cose non c’era nessuna relazione. Era rimasta incinta
perché lui si era dedicato alla questione con l’abituale puntiglio, facendole
visita almeno una volta alla settimana per due mesi.
Non appena Bianca Rosaria ecc.
era stata pregna, naturalmente, Ferdinando Endrigo aveva smesso subito,
considerando il suo dovere concluso, almeno per il momento.
La duchessa si era gonfiata di
mese in mese e aveva iniziato a pestare i piedini ancora più di frequente di
quando non era in attesa. Ferdinando Endrigo, ancora una volta, aveva fatto il
suo dovere: l’aveva ignorata.
Queste erano state le sue
intenzioni e così sarebbe stato giusto, non fosse che le continue richieste di
Bianca ecc. gli davano sui nervi. Aveva molte cose a cui pensare anche senza
che lei pretendesse le cose più assurde: un letto nuovo, dei vetri alle
finestre, delle fragole di bosco...
Ora, tutti sapevano che a Valle
Brumosa crescevano solo patate – e anche a stento – ma sulla faccenda delle
fragole Bianca ecc. era stata irremovibile. Ferdinando Endrigo aveva finito per
spedire i suoi messi in tutto il ducato alla ricerca di quei maledetti frutti.
Verso la fine della gravidanza
Bianca ecc. era diventata così insopportabile che Ferdinando Endrigo aveva
avuto paura di ucciderla e questo non poteva farlo.
Per prima cosa, capricci da
puerpera a parte, la duchessa era un esempio di virtù e modestia, quindi
sostenere che l’aveva uccisa per condotta immorale sarebbe risultato sospetto.
Ma specialmente, il ducato andava avanti con i soldi di lei, eredità di suo
padre Arturo (molti altri nomi) di Tornabuono.
Ferdinando Endrigo, vicino alla
crisi di nervi, aveva pensato di intrattenerla con un bel rogo.
Bruciare streghe era un
passatempo molto popolare tra nobili e popolino e il duca era sicuro di farle
cosa gradita.
Così, aveva mandato a prendere
Matilde la megera e aveva fatto preparare delle fascine di legna nella spianata
fuori dal castello.
Fuori perché, per quanto i roghi
fossero dilettevoli, facevano anche cattivo odore e Ferdinando Endrigo non
voleva ritrovarsi tutte le stanze impestate di strega bruciata.
Prima del rogo c’era stato il
processo.
Si trattava di un passaggio
puramente formale, come tutti sapevano.
Si faceva accomodare la strega su
un sedile apposito e le si chiedeva un po’ di volte se era davvero una strega.
Di solito lei diceva “no, no, no”, che era la tipica confessione di una strega.
Poi la si metteva sulle fascine e
le si dava fuoco, davanti alla nobiltà e al popolino festante.
Ferdinando Endrigo non si
aspettava che ci fossero problemi. Non ce n’erano mai.
Aveva aiutato Bianca ecc. a
scendere nelle segrete del castello, dove la megera era stata imprigionata e
dove si sarebbe tenuto il processo.
Lui, la duchessa e il Vescovo
Pampone avevano preso posto sui loro scranni. C’erano un notaio e un paio di
testimoni, perché nessuno potesse dire che a Valle Brumosa non bruciavano le
loro streghe dopo un processo regolare.
Matilde la megera era assisa
sulla sua sedia speciale e non sembrava molto turbata. Era un bene. Ferdinando
Endrigo detestava le scenate e apprezzava le streghe che sapevano andare al
rogo con sportività.
Il vescovo Pampone fece un
discorsetto di circostanza sul Male e su Satana e il duca prese il cartiglio
con le domande.
«Matilde la megera» iniziò,
sperando che la faccenda non andasse troppo per le lunghe. «Sei accusata di
essere una strega, quest’accusa è vera?».
Si trattava di una serie di
domande assolutamente formali, la cui risposta regolamentare era “no”. Era un
po’ come se avessero chiesto al duca: “Il branco di figlioli alti e con i
capelli scuri, con il naso proprio uguale al tuo, che ha avuto Guendalina la
levatrice sono il frutto dei tuoi lombi?”. Il duca avrebbe dato la risposta
regolamentare “no” e tutto sarebbe stato fatto nel modo corretto.
Era una questione di etichetta.
Quando Matilde la megera rispose
“sì”, quindi, dal principio Ferdinando Endrigo non ci fece caso e continuò con
le altre domande.
«Sei accusata di mercimonio con
il Maligno e di partecipare a riti abietti e innominabili che hanno lo scopo
di... scusa?».
Matilde la megera annuì con una
certa soddisfazione. «Sì, sì, partecipo ai riti abietti e innominabili e tutte
quelle altre cose. È il mio lavoro. Ora posso andare a casa?».
Ferdinando Endrigo, preso
leggermente alla sprovvista, aggrottò le sopracciglia. «Cioè, praticamente
staresti confessando?» chiese, per sicurezza.
Matilde la megera sbuffò. «Sei
sordo? Sì, sto confessando. È il mio lavoro. Come credi che abbia fatto a
procurare le fragole a tua moglie in un posto in cui crescono solo patate?».
Ferdinando Endrigo, seccato, si
voltò verso la duchessa. «È vero quello che dice questa donna? Hai mangiato i
frutti che ti ha dato?».
Bianca ecc. si strinse nelle
spalle. «Be’, sì. Mi andavano delle fragole. Questo processo è una noia,
marito, non potremmo fare qualcos’altro?».
Il duca si accarezzò il mento,
pensando. Era un pensatore molto veloce, all’occorrenza.
Dunque, quella megera confessava
di essere una strega e implicava che Bianca ecc. fosse sua complice. Era una
buona difesa, doveva ammetterlo. Se Ferdinando Endrigo la dichiarava colpevole,
doveva mandare al rogo anche sua moglie.
Ora... non che mandare al rogo
anche Bianca ecc. fosse un’idea così... Ma no, non doveva lasciarsi indurre in
tentazione.
Sospirò pesantemente. «Ancora
qualche minuto. Quindi, Matilde la megera, se dovessi definire la tua attuale
posizione lavorativa diresti che sei...».
«Una strega» disse l’altra, con
ostinata convinzione.
«E potresti descriverci la natura
della tua professione?» insistette Ferdinando Endrigo, che sapeva essere non
meno ostinato.
«Cioè?».
«Cioè che cosa fai durante il
giorno!» sbottò il duca.
L’altra ci pensò un po’ su.
«Raccolgo le radici, preparo le pozioni, tengo oliata la mia scopa...».
«Fai sabba satanici al chiaro di
luna?».
La megera sembrò rattristata.
«Alla mia età? Magari. E poi, di quale chiaro di luna parli? A uscire alla
notte, con la nebbia che c’è, rischi di finire in un fosso».
«Quindi si può dire che le tue
attività quotidiane riguardino la preparazione di infusi e la manutenzione di
strumenti per la pulizia domestica» concluse Ferdinando Endrigo, soddisfatto.
«Strumenti per la pulizia
domestica?» fece l’altra, perplessa. «La mia scopa? No, guarda, la scopa mi
serve per...».
«Spazzare, è chiaro» la
interruppe il duca, lanciandole un’occhiataccia.
La megera si strinse nelle
spalle. «Be’, anche, ma...».
«Donna, ci fai perdere tempo
inutilmente. Noi siamo persone molto impegnate. Fai silenzio, ora» le tappò la
bocca Ferdinando Endrigo, sfoderando tutto il suo contegno nobiliare. Si voltò
verso il vescovo Pampone e gli rivolse un sottile sorriso di scuse. «Caro
vescovo, mi dispiace. Purtroppo i miei uomini hanno preso un abbaglio. Questa
megera è una comune erborista, una vecchia pazza e una seccatura, ma non è una
strega. Propongo di rimandare il rogo al mese prossimo».
Più tardi, il duca aveva chiesto
a Bianca ecc. perché non avesse semplicemente negato di aver preso le fragole
della donna. Al popolino non piaceva che le esecuzioni non si tenessero con
regolarità.
La duchessa aveva alzato il suo
nasino delizioso e aveva sostenuto di averlo fatto per solidarietà femminile.
Il duca non conosceva questo
termine e immaginò che fosse un'altra delle infinite fissazioni della moglie.
Se ne andò prima che lei potesse aggiungere altro.
Una settimana più tardi Bianca
ecc. diede alla luce una femminuccia, mentre il marito faceva sfoggio di
splendido disinteresse maschile in una battuta di caccia alla volpe.
La bambina, che venne chiamata
Ferdinanda Rosaria Artura Matilda della Rocca, era un frugoletto con le guance
rosse, la chioma scura e, come fu presto innegabile, con il naso proprio uguale
a quello del padre. La faccenda del naso doveva essere un po’ il marchio di
fabbrica del duca.
La piccola Ferdinanda ecc. aveva
anche una voglia color fragola su una chiappa, ma non fu questo a riempire il
duca di disappunto. Il problema era che la bambina era, appunto, una bambina e
non un bambino.
Ferdinando Endrigo non aveva
proprio niente contro le femmine (pur non avendo niente nemmeno a favore), ma
aveva sperato di risolvere la questione dell’erede al primo colpo.
Come suo suocero Arturo (molti
altri nomi) di Tornabuono dimostrava ampiamente, avere come unica erede una
femmina era una iattura. La femmina in questione finiva per sposarsi e portarsi
via in dote buona parte del patrimonio.
Lasciato trascorrere il tempo di
prammatica, riprese dunque, sebbene a malincuore, a fare visita alla duchessa
una volta alla settimana, sperando che la seconda volta andasse meglio.
In quanto alla megera, era
diventata la sua spina nel fianco.
Forse incoraggiata dalla clemenza
che il duca le aveva dimostrato durante il processo, non si limitava più a
mescere le sue pozioni e a rimpinzare il suo gattaccio nero, ma aveva preso a
ficcare il (lungo) naso un po’ dappertutto.
La duchessa, nuovamente pregna,
le accordava i suoi favori, ricevendola e chiedendole assistenza nella sua
serie infinita di richieste: dei fiori per la sua stanza, un nuovo scaldaletto,
delle more...
Le more, proprio come le fragole,
a Valle Brumosa non crescevano, ma questa volta il duca non fu costretto a
mandare qualcuno a cercarle per mari e per monti, perché se ne occupò la
megera.
Se si fosse occupata solo di
quello, a Ferdinando Endrigo sarebbe andato benissimo.
Ma Matilde la megera aveva preso
a esercitare quella stessa solidarietà femminile di Bianca ecc.. un concetto di
cui il duca non capiva l’essenza né le ragioni.
Accadeva così che, sempre più spesso,
la megera si presentasse a castello durante le udienze per perorare la
posizione di qualcuno. Solitamente, una donna.
Iniziò con Orson il mugnaio, uomo
di ottima pasta e gran lavoratore a giudizio del duca, che si era premurato
personalmente di far bruciare il suo granaio un paio di volte, con
soddisfazione reciproca.
Un giorno, Orson si presentò alle
udienze del sabato con un braccio attorno al collo e la richiesta che sua
moglie fosse impiccata. Ferdinando Endrigo solidarizzava a priori con chiunque
gli rivolgesse richieste simili, ma spiegò al brav’uomo che, prima di far
impiccare qualcuno, gli serviva qualche dettaglio in più.
Orson spiegò che con sua moglie
Lina era sempre andato tutto bene. Gli aveva dato quattro figli che lavoravano
con lui al mulino e anche lei non era del tutto inutile quando si trattava di
aiutare i muli a spingere la ruota.
Poi, all’improvviso e senza
ragione, la sera prima Lina era impazzita e l’aveva spinto. Orson era caduto e
si era fatto male a un braccio. Orson riteneva che sua moglie l’avesse spinto
al preciso scopo di farlo cadere e così ora chiedeva che venisse impiccata,
perché una moglie non avrebbe dovuto permettersi di desiderare che il marito
cadesse.
Ferdinando Endrigo si considerava
un uomo accomodante, ma di certo il fatto che gli riferiva quel mugnaio era
grave e meritava di essere sanzionato.
Stava quindi per condannare Lina
all’impiccagione, quando nella sala delle udienze era entrata la megera.
Interrompendolo sul più bello, aveva sostenuto di conoscere dei fatti che
potevano influire sui pronunciamenti del duca.
Ferdinando Endrigo aveva
sospirato e le aveva concesso il permesso di parlare.
«Vostra signoria» aveva
cominciato Matilde la megera, in tono cerimonioso «dovresti sapere che Orson il
mugnaio ha l’abitudine di battere sua moglie tutte le sere».
Il duca si era stretto nelle
spalle. «E allora?» aveva chiesto. Se Orson aveva quest’abitudine, chi era lui
per trovargli qualcosa da dire?
«E allora, ieri sera Orson ha
battuto la moglie come sempre e la povera Lina, alzando le braccia per
ripararsi, l’ha scontrato involontariamente. Per questo Orson è caduto e si è
fatto male».
Ferdinando Endrigo si era
accarezzato il pizzo, pensieroso. «Sostieni, dunque, che la moglie di Orson non
desiderava che cadesse?» chiese.
«Be’, forse un pochino lo
desiderava, ma non è questo il punto. Orson la stava picchiando».
Il duca aveva scosso la testa.
«Non è mia abitudine immischiarmi negli affari coniugali degli altri» aveva
detto «ma se Orson la picchiava, di certo aveva i suoi motivi».
«Di certo li aveva. Ma se
qualcuno provasse a picchiare a te, vostra signoria, Dio non voglia... non
alzeresti almeno le braccia per proteggerti?».
A Ferdinando Endrigo non era mai
successo che qualcuno provasse a picchiarlo. La sola idea era inconcepibile.
Doveva tuttavia ammettere che era possibile che, se mai qualcuno ci avesse
provato, lo facesse. Era possibile, anche se, in realtà, era molto più
probabile che estraesse la spada e sgozzasse il vile che intendeva picchiarlo.
«Poniamo che sia come dici,
megera. Ma vedi bene che, a causa dell’eccessivo istinto di autoconservazione
di sua moglie, il buon Orson ha un braccio appeso al collo. Per un mugnaio
questo è un serio impiccio. Se sua moglie non l’avesse urtato, seppure
incidentalmente, Orson non avrebbe patito alcun malanno».
«Hai ragione, vostra signoria, ma
pensa questo: se Orson non avesse l’abitudine di battere sua moglie, Lina non
avrebbe mai alzato le braccia per proteggersi e nulla di questo sarebbe
accaduto».
«Come abbiamo già detto, Orson
avrà i suoi motivi per battere la moglie e non sta a noi impicciarci. Se ella
non gli desse motivi per essere battuta, lui non la batterebbe e nulla di tutto
questo sarebbe avvenuto» aveva ribattuto Ferdinando Endrigo, soddisfatto.
La megera aveva annuito. «Hai
ragione, vostra signoria. La colpa, dunque, è di entrambi. Grazie per aver
permesso a questa povera vecchia di parlare».
Ferdinando Endrigo non era uno
sciocco e si rendeva conto benissimo che quella “povera vecchia” l’aveva
beffato per la seconda volta.
E tuttavia, tutta la corte
l’aveva sentito seguire i suoi ragionamenti e darle, fino a un certo punto,
ragione.
Era stato costretto a stabilire
che la moglie di Lina venisse battuta per aver involontariamente ferito suo
marito, ma non la condannò all’impiccagione.
Dopo quella volta, Matilde la
megera era intervenuta ancora nelle udienze del duca. Forse ci aveva preso
gusto.
Nel frattempo, Bianca ecc. aveva
dato alla luce un’altra femminuccia, che venne chiamata con una sfilza di nomi
degna del suo rango.
All’udienza successiva in cui
Matilde la megera provò a far valere questo nuovo e astruso concetto di
solidarietà femminile, Ferdinando Endrigo, indispettito, decise che la donna
che quel giorno la vecchia aveva deciso di difendere fosse messa alla gogna per
una settimana.
Non era una pena particolarmente
severa, considerando che la donna era una ladra, ma il duca aveva deciso di
ignorare le proteste della megera, che sosteneva che la sua protetta aveva
rubato, sì, ma per non morire di fame.
Ferdinando Endrigo, ancora
irritato per la nascita della seconda erede femmina, la ignorò completamente.
Quella sera si rese conto che non
avrebbe dovuto farlo. O meglio, si rese conto che il problema con la megera era
ben più grave di quanto credesse.
Dato che Bianca ecc. aveva dato
alla luce un’altra bambina, il duca si vedeva costretto a continuare con il
fastidioso dovere riproduttivo che lo accompagnava da diverso tempo.
Come ogni sabato sera, si recò
nelle stanze della duchessa e salì sbrigativamente sul suo nuovo letto
imbottito di piume.
La duchessa, però, si alzò dal
letto e dichiarò che non avrebbe più giaciuto con lui.
Ferdinando Endrigo, piuttosto
perplesso, chiese perché.
La risposta, come in fondo si
aspettava, fu: «Per solidarietà femminile».
Finché la donna che il duca aveva
condannato fosse rimasta alla gogna, alla mercé, quindi, di chiunque passasse,
la duchessa Bianca ecc. non gli avrebbe permesso di entrare nel suo letto.
Ferdinando Endrigo aveva ricevuto
un’educazione rifinita. Non avrebbe mai battuto Bianca ecc. come la moglie di
un mugnaio e non era abbastanza risentito per prenderla con la forza. Si limitò
a una risata e se ne andò da Guendalina la levatrice, che non aveva tanti
grilli per la testa e che era sempre molto felice di vederlo.
All’udienza successiva, ascoltò
con attenzione la perorazione della vecchia strega. Questa volta si trattava di
una servitrice che aveva tentato di avvelenare il suo padrone. A sentire
Matilde la megera, la servitrice l’avrebbe sì fatto, ma solo perché era distratta
per via del suo stato interessante, dato che il suo padrone, insisti e insisti,
l’aveva ingravidata.
«Ah, e quindi aspettare un figlio
può procurare di queste distrazioni?» si limitò a sorridere, dopo aver
ascoltato la megera.
«Hai ragione, vostra signoria»
rispose la vecchia. «È proprio così».
Ferdinando Endrigo si scompisciò
dalle risate e ordinò che il vecchio mercante che aveva rischiato di finire
avvelenato fosse costretto a riconoscere la sua prole illegittima.
Quella sera stessa la duchessa
Bianca ecc., di sua spontanea iniziativa, si recò nelle stanze del duca. Lui,
in compagnia dei suoi cani e di una brocca di vino speziato, stava leggendo
davanti al camino acceso.
«Quindi, come mai venite a farmi
visita, moglie mia?» chiese, in tono di finta cortesia.
Bianca ecc. sollevò il proprio
nasino delizioso e disse: «Giacché quella poveretta non è più alla gogna e
quest’oggi avete deciso in favore di quell’altra poveretta, ho deciso di venire
a concedermi a voi».
Ferdinando Endrigo, mostrandosi
interessato più al ragionamento dell’altra che alla sua offerta, bevve un altro
sorso di vino e inarcò un sopracciglio. «Dunque vi pare che obbligare quel
mercante a riconoscere la sua prole illegittima sia stata una decisione giusta
ed equa?».
La duchessa non era abituata a
essere consultata in simili questioni, ma sapeva che la sua amica Matilde quel
pomeriggio, ancora una volta, aveva vinto, quindi annuì con decisione.
«Sapete, mi fa molto piacere che
voi approviate il mio verdetto, perché ho molto riflettuto sulla cosa,
ultimamente» disse il duca.
La mente splendidamente virtuosa
della duchessa fu attraversata da un pensiero.
«Ah, sì?» si limitò a chiedere.
«Sì» confermò il duca. «Vedete,
la vostra amica mi ha convertito alla solidarietà femminile. Ora sono convinto
che, in un mondo perfetto, i padroni non debbano approfittarsi delle proprie
servitrici e che, se lo fanno, devono essere consapevoli che ne pagheranno il
prezzo».
La ruga che si stava formando
sulla fronte candida e liscia dell’altra si accentuò. «Ehm» disse.
Ferdinando Endrigo sorrise. «Ma
forse è un concetto troppo teorico, per voi. Lasciate che vi faccia un esempio.
Poniamo che ci sia una sposa che sa di non essere molto amata da suo marito».
«Che cosa orribile» mormorò
Bianca ecc., che iniziava a trovare il discorso dell’altro fin troppo
realistico.
«Già, davvero. Ma poniamo che ci
sia. Questa sposa ha una buona amica, una comune erborista, una vecchia pazza e
una seccatura, ma non una strega. Non può essere una strega, capite, perché se
la fosse avrebbe dovuto finire su un rogo tempo prima, e la sposa con lei».
Bianca ecc, che ora era bianca
anche in viso, si sedette pesantemente su uno sgabello.
«Forse dovrei aggiungere che la
sposa è molto ricca. Suo marito non ha alcun interesse a eliminarla, almeno
finché non ha un erede maschio a cui tramandare il suo patrimonio. Ma la sposa
ha solo figlie femmine e così suo marito deve adattarsi a lasciare in vita
entrambe, la moglie e la str- ehm, la comune erborista».
«Che storia orribile» balbettò la
duchessa.
Ferdinando Endrigo sorrise
ancora. «Avete ragione, ho un’immaginazione macabra. E poi non stavamo parlando
di questo. Stavamo parlando del mondo perfetto in cui i padroni avventati sono
costretti a riconoscere i propri figli bastardi. Sono davvero felice che
approviate quest’idea. È un nobile segno di solidarietà femminile, da parte
vostra».
Detto questo, Ferdinando Endrigo
mise da parte la brocca di vino speziato, allontanò i cani e accondiscese
cortesemente a che la duchessa gli si concedesse.
Qualche tempo dopo, Bianca ecc.
restò nuovamente incinta. Come sempre, pestò i piedini a più non posso perché
in fondo era una duchessa.
Pretese ogni genere di cose
stravaganti: una nuova dama di compagnia, un arazzo di soggetto religioso, dei
piatti sempre diversi a base di patate... ma non chiese nessuna bacca che non
crescesse a Valle Brumosa, né che la sua amica megera la assistesse in alcun
modo, se non tenendole un po’ di compagnia.
Questa volta diede alla luce un
bel maschietto, a cui fu dato un nome ben misero: Giovanni.
Giovanni E Basta, come fu presto
soprannominato da tutti, era un bambino dagli occhi ridenti, dai capelli neri e
con un naso proprio uguale a quello del padre. Nonostante la circostanza
sfortunata di avere il naso proprio uguale a quello del duca, Giovanni E Basta
era anche l’erede a lungo agognato da Ferdinando Endrigo che, quando tornò
dalla battuta di caccia che l’aveva impegnato per quasi tutta la settimana, fu
moderatamente soddisfatto di sapere che aveva avuto un figlio.
Poi se ne andò da Guendalina la
levatrice e dalla torma di mocciosi che manteneva da anni, nonostante alcuni
avessero il naso proprio come il suo e alcuni no, dato che lì stava molto
meglio.
In quanto alla megera, continuò a
presentarsi alle udienze del duca e a tenere viva quella nuova, incomprensibile
moda della solidarietà femminile.
Una sera, dopo che il duca aveva
condannato un uxoricida all’impiccagione, lei e Ferdinando Endrigo si
ritrovarono a camminare insieme lungo la strada per il villaggio.
Ferdinando Endrigo stava andando
a trovare Guendalina la levatrice e Matilda la megera voleva rientrare presto,
perché quella sera doveva... ehm, oliare il proprio strumento per le pulizie
domestiche.
«Vostra signoria» disse la
vecchia, mentre gli camminava accanto a una velocità insospettabile, «la tua
sentenza di questa sera mi è proprio piaciuta. Ah! Quel manigoldo se lo
meritava!».
Ferdinando Endrigo, con le mani
in tasca, sorrise appena. «Sono felice che tu sia d’accordo» commentò,
sornione. «Mi sei stata di grande aiuto, con tutte le informazioni che mi hai
dato».
La vecchia, annuì, accettando il
complimento con semplicità. «In un mondo perfetto» disse «nessuna moglie viene
uccisa da suo marito».
Il duca rise. «Quando vivremo in
un mondo perfetto fammelo sapere. Nel frattempo...» aggiunse, tornando serio,
«...io continuerò a fare il mio mestiere e tu il tuo. Io non vengo a dirti come
farlo e tu non vieni a dirlo a me».
Sorrise anche la vecchia. Quella
era una delle tipiche frasi del duca, che, come alla fine aveva capito, non era
uno sciocco, neanche un po’.
In un certo senso, anzi, era
arrivata ad ammirare la sua capacità di dire una cosa intendendone una del
tutto opposta.
Lui le aveva detto eccome come
fare il suo lavoro. Gliel’aveva detto forte e chiaro quando aveva minacciato di
mettere al rogo lei e la sua protetta e di riconoscere i suoi bastardi.
Ma bisognava ammettere che
accettava di buon grado che lei gli dicesse come fare il suo, ogni volta che la
ascoltava a un’udienza.
E forse questo era un principio
che superava anche quello, pure validissimo, della solidarietà femminile. Sì,
pensò la vecchia, mentre camminava a una velocità insospettabile accanto al
duca, forse il nuovo concetto da introdurre, insolito e incomprensibile, almeno
per quei tempi, era quello della solidarietà umana.
«Sì, vostra signoria» disse,
perciò. «Hai proprio ragione».
[Racconto comparso originariamente nell'antologia What Women Don't Want, scaricabile gratuitamente qua, maggio 2013 - illustrazione di Armando Rossi]
[Racconto comparso originariamente nell'antologia What Women Don't Want, scaricabile gratuitamente qua, maggio 2013 - illustrazione di Armando Rossi]
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