“Ti dico che è lui!”
“Nah, è troppo magro…”
Ermanno Sensi voltò lentamente lo sguardo verso la fonte dello strano scambio di battute. Era mattina fottutamente presto (le dieci), aveva avuto un tête à tête con il questore Salvemini che non era stato propriamente consensuale e ora stava cercando di riprendersi nel piccolo bar dietro la questura, che era freddo come una tomba e non aveva Red Bull. Sorseggiava la sua Burn, che gli era stata servita surrettiziamente in bicchiere, con gli occhiali da saldatore sugli occhi, e tutto quello che voleva era tornare nel suo letto.
“È quello del serial killer, sono sicura!” stava dicendo una delle due ragazzine all’altra, non esattamente sussurrando.
Sensi si prese un po’ di tempo per analizzare la situazione. Per prima cosa non erano proprio ‘ragazzine’. Potevano essere sulla ventina, anche se con le adolescenti, ormai, non si poteva mai dire; iniziavano a portare il Wonderbra a sette anni e da lì in poi era tutto un casino.
Una bionda e una mora, come le tizie di Striscia la Notizia, il loro fisico da velina non era impeccabile, ma l’abbigliamento era praticamente perfetto: stivali alti, pantaloncini minimali, giacchette decisamente inadatte alla stagione. Fuori stava per nevicare e anche dentro ci mancava molto poco.
“Scusi, lei non è quel poliziotto che ha arrestato il serial killer?” si decise a farsi avanti la bionda. Sembrava una Barbie compressa in un metro e mezzo di statura.
Sensi si sollevò gli occhiali sulla fronte.
“Già,” disse. Quella faccenda era finita su tutti i giornali, procurandogli grane a non finire, ma in fondo, non c’era motivo di non approfittarne, prima che la città si dimenticasse di lui.
“Oh, hai visto, scema? Avevo ragione!”
Sensi si limitò a sorridere fissamente, solo con la bocca. Si domandò oziosamente se anche i bagni di quel posto fossero così fottutamente freddi. Non che avesse una reale importanza: quelle due erano spezzine, e le spezzine avevano un talento speciale per promettertela e non dartela all’ultimissimo minuto.
“Guarda che mi puoi dare del tu,” disse Sensi, in tono da rimorchio standard.
Le due risero emisero delle risatine chiocce. “Sul giornale sembravi più grosso,” disse la mora, che sembrava una Tanya compressa in un metro e mezzo di statura.
“Non vuoi riformulare questa affermazione in modo da lasciar fuori la parola ‘grosso’? Non sono completamente padrone delle battute che potrei fare.”
Le due risero ancora. Di quel passo ci sarebbero voluti millenni a farsi dare un due di picche. Sensi si chiese oziosamente se inserire tra le loro risatine una frase casuale su un terzetto fosse prematuro.
“È solo che nei telefilm i poliziotti sono sempre…” iniziò la bionda “…vasti,” concluse, con un’altra risatina.
“Molto meglio. Con ‘vasti’ non me ne viene quasi nessuna. Non una che sia adeguatamente volgare, comunque. Pensavo… ho ancora, diciamo, una mezz’ora di pausa e…”
Il suo telefono, lasciato avventatamente acceso nella tasca del giubbotto, iniziò a vibrare e ad emettere una musichetta sincopata e inquietante.
“Che cos’è? Vasco Rossi?” chiese la mora.
Sensi la guardò con genuino orrore. Le rivolse un sorrisetto tirato e rispose. Forse era stato salvato, dopo tutto.
“Sì?”
“Ermanno, devi tornare subito, dove sei?” gli disse Tudini, in tono agitato.
“Se Salvemini vuole il bis sarà meglio che si metta comodo, perché tu non mi hai trovato.”
“No, Ermanno, abbiamo un caso di stupro.”
“Sapevo che Salvemini nascondeva qualcosa.”
“Non è stato-“
“Non ti preoccupare, Max, non dirò una parola ai giornalisti.”
“Ermanno!”
Sensi sbuffò. “Sto arrivando. Tanto, probabilmente, qua i bagni sono una ghiacciaia.” Richiuse il cellulare e lanciò un’occhiata penetrante alle due aspiranti veline.
“Dovremo rimandare quel terzetto,” le informò, rinforcando gli occhiali e lasciando un cinquino sul bancone.
“Eh?” disse la prima.
“Cooosa?” disse la seconda.
“Lo so, è un mondo ingiusto e crudele,” si accomiatò Sensi, salutandole da sopra la spalla.
Era sempre bello avere conferme dei propri pregiudizi.
martedì 2 giugno 2009
venerdì 29 maggio 2009
Pubblica utilità
Qua accanto è ora possibile scaricare il pdf anche di "Lo strano caso del pappagallo fantasma".
mercoledì 27 maggio 2009
Lo strano caso del pappagallo fantasma - 13
Erano passati una decina di giorni quando la quiete di Sensi fu disturbata da qualcuno che entrava nel suo ufficio. Per un attimo continuò a controllare che il download della discografia completa dei Sol Invictus stesse procedendo senza intoppi, poi alzò lo sguardo.
Come temeva, era l’ispettrice Riu, una massa solida di cipiglio, abbronzatura ed efficienza.
“Volevo solo dirle che il folle ha colpito ancora,” disse, piazzandosi sull’attenti vicino alla porta. “Nel caso che tornasse a lamentarsi.”
Sensi meditò brevemente sulla possibilità di dirle che Dagoberti, la volta precedente, non era venuto a lamentarsi, ma la scartò immediatamente.
“Ah sì?” disse, invece, in tono vago.
“Esatto, signore. Adesso ha nientemeno che un pappagallo. Una piccola bestia rumorosa che starnazza – o forse dovrei dire “parla” – tutto il giorno e vola defecando qua e là.”
Sensi soppresse diligentemente un sorriso. “Mi rendo conto,” disse.
“Lei non immagina quanto rumore riesca a produrre la sua piccola ugola.”
Sensi annuì con aria fatalista.
“Se continua così sarò costretta a sparargli,” concluse la Riu, risentita.
“Al pappagallo?”
L’altra sembrò turbata. “Al vicino,” specificò.
Fine.
Come temeva, era l’ispettrice Riu, una massa solida di cipiglio, abbronzatura ed efficienza.
“Volevo solo dirle che il folle ha colpito ancora,” disse, piazzandosi sull’attenti vicino alla porta. “Nel caso che tornasse a lamentarsi.”
Sensi meditò brevemente sulla possibilità di dirle che Dagoberti, la volta precedente, non era venuto a lamentarsi, ma la scartò immediatamente.
“Ah sì?” disse, invece, in tono vago.
“Esatto, signore. Adesso ha nientemeno che un pappagallo. Una piccola bestia rumorosa che starnazza – o forse dovrei dire “parla” – tutto il giorno e vola defecando qua e là.”
Sensi soppresse diligentemente un sorriso. “Mi rendo conto,” disse.
“Lei non immagina quanto rumore riesca a produrre la sua piccola ugola.”
Sensi annuì con aria fatalista.
“Se continua così sarò costretta a sparargli,” concluse la Riu, risentita.
“Al pappagallo?”
L’altra sembrò turbata. “Al vicino,” specificò.
Fine.
Lo strano caso del pappagallo fantasma - 12
Arrivò davanti allo studio del commercialista Ghedolfi solo verso le tre del pomeriggio, dopo aver eluso abilmente tutte le chiamate dalla questura.
Era uno studio iper-moderno e Sensi si chiese per qualche minuto se non fosse finito dentro una puntata di Star-Trek Voyager. Il bancone delle segretarie (plurale) era di vetro opaco con incastrate dentro delle cose, forse degli artefatti klingon.
L’immensa vetrata dava su… be’, in effetti dava su un palazzo vicino. Troppo vicino, secondo gli standard galattici. Dava l’impressione che l’astronave dello studio Ghedolfi si stesse per schiantare contro il pianeta terra nella sua espressione più materiale: panni stesi ad asciugare, tricicli sui balconi, persiane verdine un po’ scrostate. Comunque era chiaro che non era colpa di Ghedolfi se i vicini avevano il cattivo gusto di stendere sui fili del bucato quel che sembrava un enorme paio di mutande da donna.
Il commissario mostrò il proprio distintivo a una delle segretarie, una tipa che sarebbe stata meglio sul set di un film porno, secondo il modesto giudizio di Sensi.
“Il dottore la riceverà subito,” cinguettò lei.
“E per aver un appuntamento con lei come posso fare?” si informò Sensi. “Per motivi strettamente fiscali, s’intende.”
Riuscì a dirlo in tono così serio che la segretaria iniziò a spiegargli che lei si occupava solo della contabilità e che per la sua dichiarazione dei redditi doveva parlare col “dottore”. Aggiunse anche che, nel suo piccolo, stava cercando di laurearsi in diritto patrimoniale, cosa che spense immediatamente la libido del commissario.
Il dottor Ghedolfi era un tizio basso e solido, sulla quarantina, con l’impavida abbronzatura invernale di chi fa sport all’aria aperta trascurando il proprio lavoro. Almeno, questo fu quello che pensò immediatamente Sensi, che era più che soddisfatto della propria carnagione cadaverica.
Lo introdusse nel suo ufficio con gentilezza impeccabile.
Se l’anticamera era in stile Guerre Stellari, l’interno era in stile Impero Napoleonico. Sulle pareti stuccate facevano bella mostra una serie di paesaggi a olio dalla tranquillità assopente, una parete era coperta da una libreria intarsiata di legno rossastro, che faceva pendant quasi casualmente con la massa immensa della scrivania, inquietantemente lucida. In giro c’erano varie carte, perfettamente impilate e raccolte in cartellette color avorio.
Sensi appoggiò comodamente il culo su una sedia gonfia che doveva avere circa un secolo più di lui, Ghedolfi si assise sull’oggetto monumentale che forse, in privato, chiamava “trono”.
“Mi dica, commissario…?”
“Ermanno Sensi, squadra mobile. Sa che cosa manca a questa stanza? Dei fiori. Dovrebbe davvero mettere qualche mazzo di, non so, gigli? Leggermente sfioriti sarebbero perfetti. Darebbero all’insieme quel quid in più di decadenza.” Fece un gesto con la mano. “Opinione personale, è ovvio.”
Ghedolfi aprì la bocca per rispondere qualcosa sul tema floreale, leggermente perplesso, ma Sensi lo prevenne con un altro gesto.
“Ma parliamo di pappagalli. In particolare dell’esemplare di Diopsittaca Nobilis, anche conosciuto come Ara Nobile, che lei ha inviato alla signorina Dagoberti.”
Il commercialista aveva aggrottato la fronte, ma fu la fine della frase che lo fece contrarre del tutto.
“Ah, sì,” disse, affettando noncuranza. “Spero che l’abbia gradito.”
“Lei andava spesso a farsi leggere le carte dalla Dagoberti?” replicò Sensi, senza rispondergli.
Ghedolfi parve leggermente imbarazzato. “Di quando in quando… ma perché ha usato il passato?”
“L’ultima volta, credo, il responso non è stato dei più fausti.”
Adesso Dagoberti aveva tutta l’aria di qualcuno sulle spine. “Non capisco dove vuole arrivare.”
Sensi gli rivolse un sorriso sottile e per niente rassicurante. “Niente, volevo solo dirle di persona che quello che ha fatto non è un reato.”
“Ma, scusi, che cosa…”
“Voglio dire: non è un reato regalare un animale vivo e starnazzante a un’agorafobica ossessivo-compulsiva. Assolutamente no.”
“Ah, e quindi…”
“Quindi nessuno la accuserà di aver fatto venire – volontariamente, tra l’altro – una crisi di nervi alla signorina, né di aver messo in allarme il cugino, né di aver fatto lavorare il sottoscritto per una giornata intera. Non è assolutamente perseguibile. Pensi, mi sono persino informato.”
Ghedolfi si era leggermente ritratto sulla sua imponente sedia che, notò Sensi in quel momento, aveva la peculiare caratteristica di farlo sembrare più piccolo e basso e di quanto fosse in realtà.
“Io non…”
“Lei non è una persona rispettabile? Sono perfettamente d’accordo, mi creda. Solo un sadico malato può architettare un piano del genere per punire la propria cartomante di una lettura infausta. Ma, come le dicevo, essere un sadico malato non è un reato.”
Sensi si alzò e si spolverò qualche granello di polvere dal giubbotto di pelle.
Guardò fisso il commercialista con i suoi piccoli occhi grigi e per un attimo l’uomo ebbe l’impressione che fossero diventati di un profondo color sangue. Ma era chiaro che era solo uno scherzo della luce, forse il riflesso di uno dei libri sugli scaffali.
“Vede, io non mi occupo di reati fiscali. Non saprei da che parte cominciare. Questo, per inciso, significa che il suo studio, d’ora in avanti, verrà tenuto d’occhio da qualcun altro, non da me. Ma la mia branca, la mia specializzazione, direi quasi, sono esattamente i sadici malati.”
Il commissario lo guardò ancora in silenzio per qualche secondo, poi sorrise di nuovo. “Quelli che commettono dei crimini perseguibili, va da sé. Lei è in una botte di ferro… per il momento. Le auguro un’ottima giornata.”
Sensi se ne andò, e dopo un attimo anche la sua ombra insolitamente scura si ritrasse dall’ufficio.
Ghedolfi guardò la porta socchiusa per un pezzo, prima di convincersi che il commissario era uscito dal suo studio in via definitiva.
Era uno studio iper-moderno e Sensi si chiese per qualche minuto se non fosse finito dentro una puntata di Star-Trek Voyager. Il bancone delle segretarie (plurale) era di vetro opaco con incastrate dentro delle cose, forse degli artefatti klingon.
L’immensa vetrata dava su… be’, in effetti dava su un palazzo vicino. Troppo vicino, secondo gli standard galattici. Dava l’impressione che l’astronave dello studio Ghedolfi si stesse per schiantare contro il pianeta terra nella sua espressione più materiale: panni stesi ad asciugare, tricicli sui balconi, persiane verdine un po’ scrostate. Comunque era chiaro che non era colpa di Ghedolfi se i vicini avevano il cattivo gusto di stendere sui fili del bucato quel che sembrava un enorme paio di mutande da donna.
Il commissario mostrò il proprio distintivo a una delle segretarie, una tipa che sarebbe stata meglio sul set di un film porno, secondo il modesto giudizio di Sensi.
“Il dottore la riceverà subito,” cinguettò lei.
“E per aver un appuntamento con lei come posso fare?” si informò Sensi. “Per motivi strettamente fiscali, s’intende.”
Riuscì a dirlo in tono così serio che la segretaria iniziò a spiegargli che lei si occupava solo della contabilità e che per la sua dichiarazione dei redditi doveva parlare col “dottore”. Aggiunse anche che, nel suo piccolo, stava cercando di laurearsi in diritto patrimoniale, cosa che spense immediatamente la libido del commissario.
Il dottor Ghedolfi era un tizio basso e solido, sulla quarantina, con l’impavida abbronzatura invernale di chi fa sport all’aria aperta trascurando il proprio lavoro. Almeno, questo fu quello che pensò immediatamente Sensi, che era più che soddisfatto della propria carnagione cadaverica.
Lo introdusse nel suo ufficio con gentilezza impeccabile.
Se l’anticamera era in stile Guerre Stellari, l’interno era in stile Impero Napoleonico. Sulle pareti stuccate facevano bella mostra una serie di paesaggi a olio dalla tranquillità assopente, una parete era coperta da una libreria intarsiata di legno rossastro, che faceva pendant quasi casualmente con la massa immensa della scrivania, inquietantemente lucida. In giro c’erano varie carte, perfettamente impilate e raccolte in cartellette color avorio.
Sensi appoggiò comodamente il culo su una sedia gonfia che doveva avere circa un secolo più di lui, Ghedolfi si assise sull’oggetto monumentale che forse, in privato, chiamava “trono”.
“Mi dica, commissario…?”
“Ermanno Sensi, squadra mobile. Sa che cosa manca a questa stanza? Dei fiori. Dovrebbe davvero mettere qualche mazzo di, non so, gigli? Leggermente sfioriti sarebbero perfetti. Darebbero all’insieme quel quid in più di decadenza.” Fece un gesto con la mano. “Opinione personale, è ovvio.”
Ghedolfi aprì la bocca per rispondere qualcosa sul tema floreale, leggermente perplesso, ma Sensi lo prevenne con un altro gesto.
“Ma parliamo di pappagalli. In particolare dell’esemplare di Diopsittaca Nobilis, anche conosciuto come Ara Nobile, che lei ha inviato alla signorina Dagoberti.”
Il commercialista aveva aggrottato la fronte, ma fu la fine della frase che lo fece contrarre del tutto.
“Ah, sì,” disse, affettando noncuranza. “Spero che l’abbia gradito.”
“Lei andava spesso a farsi leggere le carte dalla Dagoberti?” replicò Sensi, senza rispondergli.
Ghedolfi parve leggermente imbarazzato. “Di quando in quando… ma perché ha usato il passato?”
“L’ultima volta, credo, il responso non è stato dei più fausti.”
Adesso Dagoberti aveva tutta l’aria di qualcuno sulle spine. “Non capisco dove vuole arrivare.”
Sensi gli rivolse un sorriso sottile e per niente rassicurante. “Niente, volevo solo dirle di persona che quello che ha fatto non è un reato.”
“Ma, scusi, che cosa…”
“Voglio dire: non è un reato regalare un animale vivo e starnazzante a un’agorafobica ossessivo-compulsiva. Assolutamente no.”
“Ah, e quindi…”
“Quindi nessuno la accuserà di aver fatto venire – volontariamente, tra l’altro – una crisi di nervi alla signorina, né di aver messo in allarme il cugino, né di aver fatto lavorare il sottoscritto per una giornata intera. Non è assolutamente perseguibile. Pensi, mi sono persino informato.”
Ghedolfi si era leggermente ritratto sulla sua imponente sedia che, notò Sensi in quel momento, aveva la peculiare caratteristica di farlo sembrare più piccolo e basso e di quanto fosse in realtà.
“Io non…”
“Lei non è una persona rispettabile? Sono perfettamente d’accordo, mi creda. Solo un sadico malato può architettare un piano del genere per punire la propria cartomante di una lettura infausta. Ma, come le dicevo, essere un sadico malato non è un reato.”
Sensi si alzò e si spolverò qualche granello di polvere dal giubbotto di pelle.
Guardò fisso il commercialista con i suoi piccoli occhi grigi e per un attimo l’uomo ebbe l’impressione che fossero diventati di un profondo color sangue. Ma era chiaro che era solo uno scherzo della luce, forse il riflesso di uno dei libri sugli scaffali.
“Vede, io non mi occupo di reati fiscali. Non saprei da che parte cominciare. Questo, per inciso, significa che il suo studio, d’ora in avanti, verrà tenuto d’occhio da qualcun altro, non da me. Ma la mia branca, la mia specializzazione, direi quasi, sono esattamente i sadici malati.”
Il commissario lo guardò ancora in silenzio per qualche secondo, poi sorrise di nuovo. “Quelli che commettono dei crimini perseguibili, va da sé. Lei è in una botte di ferro… per il momento. Le auguro un’ottima giornata.”
Sensi se ne andò, e dopo un attimo anche la sua ombra insolitamente scura si ritrasse dall’ufficio.
Ghedolfi guardò la porta socchiusa per un pezzo, prima di convincersi che il commissario era uscito dal suo studio in via definitiva.
Lo strano caso del pappagallo fantasma - 11
L’aperitivo al Backstage era andato abbastanza liscio. Sensi e Carmel erano arrivati un po’ tardi e il bar iniziava a svuotarsi, ma nel complesso il fatto di doversi sbrigare con i drink andava a vantaggio dei piani del commissario per il resto della serata.
Il Backstage era un posto minuscolo su piazza del Bastione, a due passi dal sottotetto di Sensi. Era così minuscolo, in effetti, che quasi tutti i tavoli erano fuori, sulla piazza. Era stato fatto un tentativo di riscaldarli, ma in questi casi non si raggiunge mai il pieno successo. Sensi aveva convinto senza troppi sforzi Carmel a ingurgitare una certa quantità di alcolici, per “tenersi calda”.
Carmel gli aveva fatto presente che il suo piano non era proprio il massimo dell’originalità.
Sensi le aveva promesso che sarebbe stato originale più tardi.
Fu esattamente a causa di questa originalità che il commissario non riuscì a svegliarsi prima delle undici. Aveva la faccia incastrata contro una tetta di Carmel, quindi andava tutto per il meglio.
Stava giusto iniziando a mordicchiare tutto quello che aveva davanti alla bocca, quando si ricordò di quali erano stati i suoi piani per la mattinata.
Accantonò il pensiero senza sforzo e si dedicò anima e corpo al mordicchiamento.
Lavorare, in fondo, non era mai stato il suo forte.
Il Backstage era un posto minuscolo su piazza del Bastione, a due passi dal sottotetto di Sensi. Era così minuscolo, in effetti, che quasi tutti i tavoli erano fuori, sulla piazza. Era stato fatto un tentativo di riscaldarli, ma in questi casi non si raggiunge mai il pieno successo. Sensi aveva convinto senza troppi sforzi Carmel a ingurgitare una certa quantità di alcolici, per “tenersi calda”.
Carmel gli aveva fatto presente che il suo piano non era proprio il massimo dell’originalità.
Sensi le aveva promesso che sarebbe stato originale più tardi.
Fu esattamente a causa di questa originalità che il commissario non riuscì a svegliarsi prima delle undici. Aveva la faccia incastrata contro una tetta di Carmel, quindi andava tutto per il meglio.
Stava giusto iniziando a mordicchiare tutto quello che aveva davanti alla bocca, quando si ricordò di quali erano stati i suoi piani per la mattinata.
Accantonò il pensiero senza sforzo e si dedicò anima e corpo al mordicchiamento.
Lavorare, in fondo, non era mai stato il suo forte.
martedì 26 maggio 2009
Pubblica utilità
Qua accanto ho inserito anche il pdf del racconto "Carriera veloce", inizialmente uscito per la Writers Death Race, nella sua versione non-tagliata. Non vi aspettate chissà che cosa in più, ma per rientrare nelle regole della gara avevo dovuto tagliare un pezzetto della storia. Ora è di nuovo intera.
Lo strano caso del pappagallo fantasma - 10
Agostina Dagoberti, si scoprì, dormiva come un sasso sul divano della sua omeopata, abbracciando il suo pappagallo impagliato. La sua omeopata, tra l’altro, non era particolarmente contenta della cosa.
Sensi, Onofrio Dagoberti e una Carmel incuriosita e divertita gli erano piombati a casa a loro volta dopo una veloce telefonata del commissario.
La dottoressa Gelsi, tra l’altro, non era particolarmente contenta neanche di questo.
Il commissario, a prima vista, gli sembrò un ometto insignificante, finché non le venne spiegato che, in effetti, il commissario era quello che assomigliava a un giovanotto goth. Di lui si potevano dire molte cose, ma non che fosse insignificante.
“Allora, quando è arrivata Agostina?” chiese il poliziotto gotico, senza tanti preamboli.
“Verso mezzogiorno,” rispose la dottoressa Gelsi. “Ora la porterete via?”
“Questo dovrebbe chiederlo a suo cugino, veramente. Io avrei una serata da continuare.”
“Ma come mai dorme così profondamente?” interloquì Dagoberti.
Sensi fece un piccolo sorriso fetente. “La dottoressa l’ha drogata con i fiori di Bach.”
“Con l’Ansiolin, veramente. Era fuori di sé.”
Dagoberti sembrava sempre più smarrito. “Ma, insomma, qualcuno può spiegarmi che cosa le è successo?”
Sensi sospirò. Detestava dare spiegazioni, lo faceva sentire come il detective di un romanzo vittoriano.
“Questa mattina un corriere espresso ha consegnato un volatile vivo a sua cugina. Lei ha accettato la consegna, immagino stupita, ma poi il pappagallo deve aver cominciato a svolazzare qua e là. Agostina si è spaventata così tanto che, cercando di catturalo, gli ha rotto le ali. A quel punto le dev’essere venuto un attacco di panico, motivo per cui si è andata a chiudere nel suo armadio anti-panico, insieme al pennuto. In stato di shock è uscita e ha rimesso a posto gli eventuali danni creati dalla bestia – dopotutto uno non smette di essere ossessivo-compulsivo solo perché ha spezzato le ali a un pappagallo. Ma era così sconvolta che ha dimenticato il mazzo delle carte – e di chiamarla.”
Dagoberti era estasiato. “Incredibile, ma come ha fatto…?”
“Devo ancora finire,” lo interruppe Sensi, piccato. Ecco perché non gli piaceva dare spiegazioni. Non c’era nessuno che apprezzasse veramente la cosa.
“Dopo di che è uscita di casa – ancora sottosopra – e ha sceso le scalette fino a piazza Saint Bon. Sul momento non avevo fatto caso al fatto che i Vicci sono sopra la stazione e piazza Brin subito sotto. In macchina ci vogliono almeno venti minuti, ma a piedi molto meno. In fondo, siamo a Spezia, tendo sempre a dimenticarmelo. Comunque, Agostina è andata in chiesa…”
“Questo è un po’ strano. Mia cugina non è molto praticante.”
“Sua cugina non pratica molto neanche il mondo esterno, ma quando hai appena barbaramente mutilato un povero volatile, chiaramente, inizi a fare delle cose un po’ strane. Un po’ più strane del solito, intendo.”
“Barbaramente mutilato, insomma, commissario…” protestò Dagoberti.
“Vuole sentire la fine oppure no?”
“Prego.”
“Quindi, Agostina va in chiesa, entra nel confessionale e inizia ad aspettare che qualcuno, tipo un prete, si faccia vivo. Ma Don Mauro ha i suoi cazzi per la testa e non arriva nessuno. Stasera, quando gli ho parlato di pappagalli ha fatto una faccia che diceva chiaramente che pensava che avessi bevuto o che fossi un pazzoide. Dunque. Il prete dà forfait, ma ad Agostina viene in mente di chiamare la sua omeopata. Il resto può raccontarglielo la dottoressa, credo.”
La dottoressa Gelsi amava le spiegazioni ancora meno di Sensi, e non cercò di nasconderlo.
“Be’, è arrivata qua in uno stato prossimo all’isteria. Ho cercato di calmarla, ma lei sembrava convinta di aver commesso non so quale delitto – be’, adesso lo so, comunque. Alla fine le ho sparato una dose massiccia di Ansiolin e l’ho messa a dormire. In effetti pensavo che intendesse che aveva ucciso il pappagallo che aveva con sé, solo che visto che quello era impagliato non l’ho preso per un ottimo segno di salute mentale.”
Sensi si guardò intorno per il soggiorno arioso dell’omeopata. “Be’, credo che adesso dovremmo svegliarla, che ne dice? Ho ancora una domanda da farle, e comunque Dagoberti non se la può portare a casa in braccio.”
“Aspetti,” interruppe Dagoberti, “anch’io ho ancora una domanda da farle. Il verso che faceva il pappagallo vivo, quell’aiuto-aiuto che mi ha quasi fatto venire un colpo… perché?”
Il commissario inclinò la testa da un lato. “Scusi, vuole che io le spieghi perché un animaletto col cervello grande come una nocciolina gridava proprio quella parola? Le sembro un ornitologo?”
“Ma si sarà fatto un’idea,” insistette Dagoberti.
L’altro si grattò il mento. “Be’, se vuole la mia opinione… credo che quella sia stata la prima parola che ha imparato da sua cugina.”
[continua]
Sensi, Onofrio Dagoberti e una Carmel incuriosita e divertita gli erano piombati a casa a loro volta dopo una veloce telefonata del commissario.
La dottoressa Gelsi, tra l’altro, non era particolarmente contenta neanche di questo.
Il commissario, a prima vista, gli sembrò un ometto insignificante, finché non le venne spiegato che, in effetti, il commissario era quello che assomigliava a un giovanotto goth. Di lui si potevano dire molte cose, ma non che fosse insignificante.
“Allora, quando è arrivata Agostina?” chiese il poliziotto gotico, senza tanti preamboli.
“Verso mezzogiorno,” rispose la dottoressa Gelsi. “Ora la porterete via?”
“Questo dovrebbe chiederlo a suo cugino, veramente. Io avrei una serata da continuare.”
“Ma come mai dorme così profondamente?” interloquì Dagoberti.
Sensi fece un piccolo sorriso fetente. “La dottoressa l’ha drogata con i fiori di Bach.”
“Con l’Ansiolin, veramente. Era fuori di sé.”
Dagoberti sembrava sempre più smarrito. “Ma, insomma, qualcuno può spiegarmi che cosa le è successo?”
Sensi sospirò. Detestava dare spiegazioni, lo faceva sentire come il detective di un romanzo vittoriano.
“Questa mattina un corriere espresso ha consegnato un volatile vivo a sua cugina. Lei ha accettato la consegna, immagino stupita, ma poi il pappagallo deve aver cominciato a svolazzare qua e là. Agostina si è spaventata così tanto che, cercando di catturalo, gli ha rotto le ali. A quel punto le dev’essere venuto un attacco di panico, motivo per cui si è andata a chiudere nel suo armadio anti-panico, insieme al pennuto. In stato di shock è uscita e ha rimesso a posto gli eventuali danni creati dalla bestia – dopotutto uno non smette di essere ossessivo-compulsivo solo perché ha spezzato le ali a un pappagallo. Ma era così sconvolta che ha dimenticato il mazzo delle carte – e di chiamarla.”
Dagoberti era estasiato. “Incredibile, ma come ha fatto…?”
“Devo ancora finire,” lo interruppe Sensi, piccato. Ecco perché non gli piaceva dare spiegazioni. Non c’era nessuno che apprezzasse veramente la cosa.
“Dopo di che è uscita di casa – ancora sottosopra – e ha sceso le scalette fino a piazza Saint Bon. Sul momento non avevo fatto caso al fatto che i Vicci sono sopra la stazione e piazza Brin subito sotto. In macchina ci vogliono almeno venti minuti, ma a piedi molto meno. In fondo, siamo a Spezia, tendo sempre a dimenticarmelo. Comunque, Agostina è andata in chiesa…”
“Questo è un po’ strano. Mia cugina non è molto praticante.”
“Sua cugina non pratica molto neanche il mondo esterno, ma quando hai appena barbaramente mutilato un povero volatile, chiaramente, inizi a fare delle cose un po’ strane. Un po’ più strane del solito, intendo.”
“Barbaramente mutilato, insomma, commissario…” protestò Dagoberti.
“Vuole sentire la fine oppure no?”
“Prego.”
“Quindi, Agostina va in chiesa, entra nel confessionale e inizia ad aspettare che qualcuno, tipo un prete, si faccia vivo. Ma Don Mauro ha i suoi cazzi per la testa e non arriva nessuno. Stasera, quando gli ho parlato di pappagalli ha fatto una faccia che diceva chiaramente che pensava che avessi bevuto o che fossi un pazzoide. Dunque. Il prete dà forfait, ma ad Agostina viene in mente di chiamare la sua omeopata. Il resto può raccontarglielo la dottoressa, credo.”
La dottoressa Gelsi amava le spiegazioni ancora meno di Sensi, e non cercò di nasconderlo.
“Be’, è arrivata qua in uno stato prossimo all’isteria. Ho cercato di calmarla, ma lei sembrava convinta di aver commesso non so quale delitto – be’, adesso lo so, comunque. Alla fine le ho sparato una dose massiccia di Ansiolin e l’ho messa a dormire. In effetti pensavo che intendesse che aveva ucciso il pappagallo che aveva con sé, solo che visto che quello era impagliato non l’ho preso per un ottimo segno di salute mentale.”
Sensi si guardò intorno per il soggiorno arioso dell’omeopata. “Be’, credo che adesso dovremmo svegliarla, che ne dice? Ho ancora una domanda da farle, e comunque Dagoberti non se la può portare a casa in braccio.”
“Aspetti,” interruppe Dagoberti, “anch’io ho ancora una domanda da farle. Il verso che faceva il pappagallo vivo, quell’aiuto-aiuto che mi ha quasi fatto venire un colpo… perché?”
Il commissario inclinò la testa da un lato. “Scusi, vuole che io le spieghi perché un animaletto col cervello grande come una nocciolina gridava proprio quella parola? Le sembro un ornitologo?”
“Ma si sarà fatto un’idea,” insistette Dagoberti.
L’altro si grattò il mento. “Be’, se vuole la mia opinione… credo che quella sia stata la prima parola che ha imparato da sua cugina.”
[continua]
Lo strano caso del pappagallo fantasma - 9
Sensi tornò al Bar Brin di umore piuttosto irritabile. Dagoberti stava chiacchierando amabilmente con Carmel e il locale si era riempito della solita fauna del luogo.
“Le avevo suggerito di chiamare all’ospedale per sentire se loro sapessero qualcosa di Agostina, lo ha fatto?” chiese, saltando i convenevoli.
Dagoberti annuì. “Sì, non risultava. E neanche, ecco… a psichiatria.”
“Già. Avrebbe per caso il numero dell’omeopata di sua cugina?”
Dagoberti si grattò il ciuffo di capelli. “Forse ho il suo biglietto da visita nel portafogli, glielo prendo?”
“No, me lo comunichi a distanza col pensiero,” fu la secca replica dell’altro.
Dagoberti si affrettò a recuperare il cartoncino, seminando banconote, spiccioli e altri biglietti da visita su tutto il tavolo.
“Eccolo qua,” annunciò, alla fine. Sensi gli strappò il biglietto dalle mani.
“Le avevo suggerito di chiamare all’ospedale per sentire se loro sapessero qualcosa di Agostina, lo ha fatto?” chiese, saltando i convenevoli.
Dagoberti annuì. “Sì, non risultava. E neanche, ecco… a psichiatria.”
“Già. Avrebbe per caso il numero dell’omeopata di sua cugina?”
Dagoberti si grattò il ciuffo di capelli. “Forse ho il suo biglietto da visita nel portafogli, glielo prendo?”
“No, me lo comunichi a distanza col pensiero,” fu la secca replica dell’altro.
Dagoberti si affrettò a recuperare il cartoncino, seminando banconote, spiccioli e altri biglietti da visita su tutto il tavolo.
“Eccolo qua,” annunciò, alla fine. Sensi gli strappò il biglietto dalle mani.
lunedì 25 maggio 2009
Lo strano caso del pappagallo fantasma - 8
Aveva avuto un improvviso barlume di genio e aveva pensato di mettere il cellulare di Agostina in un sacchetto di plastica, invece di infilarselo semplicemente in tasca. Certo, un sacchetto per le prova sarebbe stato meglio, ma Sensi non se ne andava in giro con le tasche piene di sacchetti per le prove.
Forse ne aveva qualcuno in macchina, e se era così avrebbe trasferito il cellulare più tardi..
Dopo pensò che una foto di questa famosa Agostina gli sarebbe proprio venuta comoda, a quel punto. Era la seconda pensata intelligente della giornata e iniziò a sentirsi uno sbirro di prima categoria.
Telefonò a Dagoberti e gli chiese di raggiungerlo con una foto di sua cugina. Per andare sul sicuro gli disse anche che non l’aveva trovata e che, per quel che ne sapeva, non era morta.
Certo, il caso cominciava a essere un po’ strano, lo doveva ammettere.
Quando Dagoberti arrivò gli spiegò per sommi capi che avevano rintracciato il cellulare e che adesso gli serviva la foto. Quando Dagoberti provò ad avere notizie più precise Sensi chiese a Carmel di prenderlo in custodia e improvvisamente Dagoberti smise di lamentarsi.
Sensi tornò trotterellando verso la chiesa, sentendosi piuttosto confidente che Carmel non sarebbe stata presa da un’improvvisa passione per l’altro.
Questa volta invece di entrare direttamente iniziò a costeggiare l’edificio. La porta che cercava, quella degli appartamenti del parroco, ovviamente era sull’ultimo lato che controllò.
Citofonò, spiegò chi era a una voce femminile, poi lo rispiegò a una voce maschile, infine gli dissero che poteva parlare con Don Mauro.
Se per vedere un parroco di periferia serviva tutta quella trafila chissà per vedere il Papa.
Sensi si arrampicò lungo delle scale strette, erte e male illuminate. L’odore di chiesa, in fondo gradevole, qua era sostituito da quello che sembrava odore di cavoli e salsiccia. Sensi odiava i cavoli. E poi, come diavolo faceva quella gente a cenare alle sei e mezza di sera?
Mentre faceva questi pensieri arrivò in cima alle scale. Il suo sottotetto era al quinto piano senza ascensore, quindi avrebbe dovuto essere allenato. Ciò nonostante, aveva il fiatone quando bussò all’ennesima porta.
Questa si aprì con una velocità che il commissario giudicò sospetta, proprio come se qualcuno fosse in attesa subito dietro.
Era una donna piccola e scialba, che Sensi classificò come suora solo alla seconda occhiata. Non aveva il vestito nero, il sogolo e tutte quelle altre cose suoresche, ma, in effetti, nessuna donna sana di mente si sarebbe mai vestita come lei.
Disincastrò il portafogli dall’aderente tasca posteriore dei propri pantaloni e le mostrò il distintivo.
“Commissario Sensi,” ansimò.
La quasi-certamente-suora gli lanciò un’occhiata lunga e sospettosa. Sensi ci era abituato, ma che una con un’informe gonna blu a metà polpaccio con sotto un paio di scarpe larghe e piatte trovasse da ridire sul suo abbigliamento era una novità. Comunque, dato che doveva darsi un tono, si aggiustò il bomber di pelle nera e la sottostante felpa dei Christian Death, che non metteva quasi mai ma che quella mattina gli era sembrata perfetta.
“Mi segua,” disse la quasi-certamente-suora, che così dimostrò di saper anche parlare oltre che saper guardare con disapprovazione. Lo condusse fino a un'altra porta, questa con dei pannelli di vetro, alla quale bussò.
“Don Mauro,” disse, in tono melenso, “c’è qua il commissario.”
Anche in questo caso la porta si aprì con una velocità sospetta, come se Don Mauro fosse stato proprio a portata di maniglia quando la quasi-certamente-suora aveva bussato.
Don Mauro, almeno, era certamente un prete.
Non solo indossava la lunga veste nera dagli infiniti bottoni, le scarpe nere che ormai portavano solo i preti e i camerieri più sfortunati, e il rosario-cintura o come si chiamava, ma aveva anche il tipico sorriso da prete.
Anche Don Mauro gli diede un’occhiata bella approfondita, che Sensi ricambiò senza una parola.
“Il commissario?” chiese, alla fine, Don Mauro, senza smettere di sorridere.
Sensi sollevò di nuovo il suo distintivo. “C’è scritto anche lì sopra.”
“Naturalmente. Il suo aspetto mi aveva tratto in inganno. Ma l’abito non fa il monaco, non è vero? Venga, si accomodi.”
“Bah,” rispose Sensi, seguendolo quietamente, “in realtà l’abito fa il monaco. Ad esempio, io ho un tesserino ufficiale che prova che sono il commissario capo della squadra mobile di questa città, mentre lei, per quanto ne so, potrebbe essere anche un passante travestito da parroco. Ma diamo per scontato che a nessuno di buon senso verrebbe voglia di travestirsi da parroco e continuiamo: lei conosce una certa Agostina Dagoberti, paragnosta?”
Don Mauro, che mentre Sensi parlava non aveva mai perso il sorriso, sbatté lentamente le palpebre pesanti. L’aveva preceduto in una stanza piuttosto angusta, umida e fredda che doveva essere il suo studio. Prima di rispondere si andò a sedere dietro una larga e vetusta scrivania di noce scuro, coperta di scartoffie e quaderni di scuola.
“Mi può ripetere il nome?” chiese.
Sensi lo fece. “Non mi dice niente,” disse, allora, Don Mauro.
“E questa donna?” disse Sensi, tirando fuori la fotografia di Agostina.
Il prete la guardò attentamente, o meglio, fece mostra di guardarla attentamente. “No, mi dispiace.”
“Capisco.”
Sensi, che era rimasto in piedi fino a quel momento, pensò che fosse arrivato il momento giusto per sedersi. Si accomodò sulla sedia di fronte alla scrivania e allungò le gambe davanti a sé, sul pavimento.
Alzò lo sguardo e sorrise (il suo sorriso era molto meno rassicurante di quello del prete).
“Quindi non ha idea di come il cellulare di una persona scomparsa sia finito dentro il suo confessionale,” disse, in tono tranquillo ma non interrogativo.
Il sorriso di Don Mauro diede forfait. “Cosa?”
“Sarebbe a dire ‘no’, immagino.”
“Sarebbe a dire che non ho capito.”
Sensi si voltò improvvisamente verso la porta. “Sorella non-so-cosa? Può entrare, se vuole.”
Da dietro la porta non provenne alcun rumore, ma in effetti non ce n’era bisogno: l’ombra della suora si stagliava contro i pannelli di vetro.
“Anzi, credo che dovrebbe proprio,” aggiunse Sensi.
“Venga avanti, per favore, sorella Rachele,” disse Don Mauro, con voce rassegnata.
Alla fine la porta si aprì e la suora in borghese si fece avanti. “Venivo a chiedere se gradivate del tè,” disse.
“Che bella idea,” si illuminò Sensi. “Avete per caso anche della Red Bull?”
Suor Rachele gli rivolse uno sguardo eloquentemente vacuo.
“Come non detto. Ha mai sentito il nome Agostina Dagoberti?”
La suora scosse la testa.
“E ha mai visto questa donna?”
Anche suor Rachele diede l’impressione di osservarla con attenzione, prima di scuotere nuovamente la testa.
“C’era un cellulare abbandonato dentro un confessionale, l’ha notato?”
“Un cellulare? Santo cielo.” Be’, almeno ora Sensi sapeva che c’era qualcosa che poteva scuoterla, a parte la sua felpa dei Christian Death.
Proprio in quel momento fu il cellulare di Sensi che iniziò a squillare. Il fatto che la musica suonasse allegramente inquietante probabilmente non lo riabilitò agli occhi dei due ecclesiastici, che sollevarono le sopracciglia praticamente in sincrono.
“Velocemente, Mainardi,” rispose Sensi, vedendo il numero sul display. Già gli riusciva difficile fare una cosa per volta.
“Sono stato fin’ora dal veterinario, capo,” iniziò l’ispettore. “Dice che il pappagallo è un Diopsittaca Nobilis, piuttosto giovane, e che qualcuno gli ha spezzato le ali, probabilmente a mani nude, forse involontariamente cercando di prenderlo.”
“Eccellente. Che ne è del volatile?”
“L’ho affidato al veterinario, capo. Aveva bisogno di cure.”
“Molto bene. A domani.”
Sensi richiuse il cellulare e tornò a guardare Don Mauro, che aveva smesso definitivamente di sorridere.
“Ora, se lei avesse visto la donna della fotografia che le ho mostrato, diciamo, in confessione…” iniziò.
“Signor commissario…” Era un pezzo che nessuno lo chiamava così, ma Sensi non commentò. “…Non solo la confessione è segreta, ma c’è anche una grata tra il sacerdote e chi si confessa. Non potrei risponderle neanche se volessi.”
Sensi evitò di far notare che uno doveva essere ipovedente per non riuscire a vedere una faccia attraverso una grata e continuò per la sua strada. “Ok, mettiamola così, allora: per caso questa mattina è venuta a confessarsi una persona che aveva qualcosa a che vedere con un volatile? Con un pappagallo, nello specifico?”
L’espressione del prete fu tutta un programma, ma poi disse: “Non le posso rispondere, mi dispiace.”
Una parte di Sensi gli suggeriva di prendere semplicemente quel grasso bacherozzo per il collo e appenderlo al muro, ma naturalmente non lo fece.
Invece si alzò in piedi e gli rivolse un sottile sorriso. “Mi ha già risposto,” disse, prima di andarsene.
Solo più tardi Don Mauro si rese conto che sulla sua scrivania ora c’era una sorta di grosso tatuaggio, simile alla sagoma di una figura umana che gettasse la sua ombra sul legno. Solo che la sagoma non era esattamente umana e non si trattava di un tatuaggio, ma di una sorta di marchio a fuoco. E sulla natura del soggetto Don Mazzi non aveva alcun dubbio.
Forse ne aveva qualcuno in macchina, e se era così avrebbe trasferito il cellulare più tardi..
Dopo pensò che una foto di questa famosa Agostina gli sarebbe proprio venuta comoda, a quel punto. Era la seconda pensata intelligente della giornata e iniziò a sentirsi uno sbirro di prima categoria.
Telefonò a Dagoberti e gli chiese di raggiungerlo con una foto di sua cugina. Per andare sul sicuro gli disse anche che non l’aveva trovata e che, per quel che ne sapeva, non era morta.
Certo, il caso cominciava a essere un po’ strano, lo doveva ammettere.
Quando Dagoberti arrivò gli spiegò per sommi capi che avevano rintracciato il cellulare e che adesso gli serviva la foto. Quando Dagoberti provò ad avere notizie più precise Sensi chiese a Carmel di prenderlo in custodia e improvvisamente Dagoberti smise di lamentarsi.
Sensi tornò trotterellando verso la chiesa, sentendosi piuttosto confidente che Carmel non sarebbe stata presa da un’improvvisa passione per l’altro.
Questa volta invece di entrare direttamente iniziò a costeggiare l’edificio. La porta che cercava, quella degli appartamenti del parroco, ovviamente era sull’ultimo lato che controllò.
Citofonò, spiegò chi era a una voce femminile, poi lo rispiegò a una voce maschile, infine gli dissero che poteva parlare con Don Mauro.
Se per vedere un parroco di periferia serviva tutta quella trafila chissà per vedere il Papa.
Sensi si arrampicò lungo delle scale strette, erte e male illuminate. L’odore di chiesa, in fondo gradevole, qua era sostituito da quello che sembrava odore di cavoli e salsiccia. Sensi odiava i cavoli. E poi, come diavolo faceva quella gente a cenare alle sei e mezza di sera?
Mentre faceva questi pensieri arrivò in cima alle scale. Il suo sottotetto era al quinto piano senza ascensore, quindi avrebbe dovuto essere allenato. Ciò nonostante, aveva il fiatone quando bussò all’ennesima porta.
Questa si aprì con una velocità che il commissario giudicò sospetta, proprio come se qualcuno fosse in attesa subito dietro.
Era una donna piccola e scialba, che Sensi classificò come suora solo alla seconda occhiata. Non aveva il vestito nero, il sogolo e tutte quelle altre cose suoresche, ma, in effetti, nessuna donna sana di mente si sarebbe mai vestita come lei.
Disincastrò il portafogli dall’aderente tasca posteriore dei propri pantaloni e le mostrò il distintivo.
“Commissario Sensi,” ansimò.
La quasi-certamente-suora gli lanciò un’occhiata lunga e sospettosa. Sensi ci era abituato, ma che una con un’informe gonna blu a metà polpaccio con sotto un paio di scarpe larghe e piatte trovasse da ridire sul suo abbigliamento era una novità. Comunque, dato che doveva darsi un tono, si aggiustò il bomber di pelle nera e la sottostante felpa dei Christian Death, che non metteva quasi mai ma che quella mattina gli era sembrata perfetta.
“Mi segua,” disse la quasi-certamente-suora, che così dimostrò di saper anche parlare oltre che saper guardare con disapprovazione. Lo condusse fino a un'altra porta, questa con dei pannelli di vetro, alla quale bussò.
“Don Mauro,” disse, in tono melenso, “c’è qua il commissario.”
Anche in questo caso la porta si aprì con una velocità sospetta, come se Don Mauro fosse stato proprio a portata di maniglia quando la quasi-certamente-suora aveva bussato.
Don Mauro, almeno, era certamente un prete.
Non solo indossava la lunga veste nera dagli infiniti bottoni, le scarpe nere che ormai portavano solo i preti e i camerieri più sfortunati, e il rosario-cintura o come si chiamava, ma aveva anche il tipico sorriso da prete.
Anche Don Mauro gli diede un’occhiata bella approfondita, che Sensi ricambiò senza una parola.
“Il commissario?” chiese, alla fine, Don Mauro, senza smettere di sorridere.
Sensi sollevò di nuovo il suo distintivo. “C’è scritto anche lì sopra.”
“Naturalmente. Il suo aspetto mi aveva tratto in inganno. Ma l’abito non fa il monaco, non è vero? Venga, si accomodi.”
“Bah,” rispose Sensi, seguendolo quietamente, “in realtà l’abito fa il monaco. Ad esempio, io ho un tesserino ufficiale che prova che sono il commissario capo della squadra mobile di questa città, mentre lei, per quanto ne so, potrebbe essere anche un passante travestito da parroco. Ma diamo per scontato che a nessuno di buon senso verrebbe voglia di travestirsi da parroco e continuiamo: lei conosce una certa Agostina Dagoberti, paragnosta?”
Don Mauro, che mentre Sensi parlava non aveva mai perso il sorriso, sbatté lentamente le palpebre pesanti. L’aveva preceduto in una stanza piuttosto angusta, umida e fredda che doveva essere il suo studio. Prima di rispondere si andò a sedere dietro una larga e vetusta scrivania di noce scuro, coperta di scartoffie e quaderni di scuola.
“Mi può ripetere il nome?” chiese.
Sensi lo fece. “Non mi dice niente,” disse, allora, Don Mauro.
“E questa donna?” disse Sensi, tirando fuori la fotografia di Agostina.
Il prete la guardò attentamente, o meglio, fece mostra di guardarla attentamente. “No, mi dispiace.”
“Capisco.”
Sensi, che era rimasto in piedi fino a quel momento, pensò che fosse arrivato il momento giusto per sedersi. Si accomodò sulla sedia di fronte alla scrivania e allungò le gambe davanti a sé, sul pavimento.
Alzò lo sguardo e sorrise (il suo sorriso era molto meno rassicurante di quello del prete).
“Quindi non ha idea di come il cellulare di una persona scomparsa sia finito dentro il suo confessionale,” disse, in tono tranquillo ma non interrogativo.
Il sorriso di Don Mauro diede forfait. “Cosa?”
“Sarebbe a dire ‘no’, immagino.”
“Sarebbe a dire che non ho capito.”
Sensi si voltò improvvisamente verso la porta. “Sorella non-so-cosa? Può entrare, se vuole.”
Da dietro la porta non provenne alcun rumore, ma in effetti non ce n’era bisogno: l’ombra della suora si stagliava contro i pannelli di vetro.
“Anzi, credo che dovrebbe proprio,” aggiunse Sensi.
“Venga avanti, per favore, sorella Rachele,” disse Don Mauro, con voce rassegnata.
Alla fine la porta si aprì e la suora in borghese si fece avanti. “Venivo a chiedere se gradivate del tè,” disse.
“Che bella idea,” si illuminò Sensi. “Avete per caso anche della Red Bull?”
Suor Rachele gli rivolse uno sguardo eloquentemente vacuo.
“Come non detto. Ha mai sentito il nome Agostina Dagoberti?”
La suora scosse la testa.
“E ha mai visto questa donna?”
Anche suor Rachele diede l’impressione di osservarla con attenzione, prima di scuotere nuovamente la testa.
“C’era un cellulare abbandonato dentro un confessionale, l’ha notato?”
“Un cellulare? Santo cielo.” Be’, almeno ora Sensi sapeva che c’era qualcosa che poteva scuoterla, a parte la sua felpa dei Christian Death.
Proprio in quel momento fu il cellulare di Sensi che iniziò a squillare. Il fatto che la musica suonasse allegramente inquietante probabilmente non lo riabilitò agli occhi dei due ecclesiastici, che sollevarono le sopracciglia praticamente in sincrono.
“Velocemente, Mainardi,” rispose Sensi, vedendo il numero sul display. Già gli riusciva difficile fare una cosa per volta.
“Sono stato fin’ora dal veterinario, capo,” iniziò l’ispettore. “Dice che il pappagallo è un Diopsittaca Nobilis, piuttosto giovane, e che qualcuno gli ha spezzato le ali, probabilmente a mani nude, forse involontariamente cercando di prenderlo.”
“Eccellente. Che ne è del volatile?”
“L’ho affidato al veterinario, capo. Aveva bisogno di cure.”
“Molto bene. A domani.”
Sensi richiuse il cellulare e tornò a guardare Don Mauro, che aveva smesso definitivamente di sorridere.
“Ora, se lei avesse visto la donna della fotografia che le ho mostrato, diciamo, in confessione…” iniziò.
“Signor commissario…” Era un pezzo che nessuno lo chiamava così, ma Sensi non commentò. “…Non solo la confessione è segreta, ma c’è anche una grata tra il sacerdote e chi si confessa. Non potrei risponderle neanche se volessi.”
Sensi evitò di far notare che uno doveva essere ipovedente per non riuscire a vedere una faccia attraverso una grata e continuò per la sua strada. “Ok, mettiamola così, allora: per caso questa mattina è venuta a confessarsi una persona che aveva qualcosa a che vedere con un volatile? Con un pappagallo, nello specifico?”
L’espressione del prete fu tutta un programma, ma poi disse: “Non le posso rispondere, mi dispiace.”
Una parte di Sensi gli suggeriva di prendere semplicemente quel grasso bacherozzo per il collo e appenderlo al muro, ma naturalmente non lo fece.
Invece si alzò in piedi e gli rivolse un sottile sorriso. “Mi ha già risposto,” disse, prima di andarsene.
Solo più tardi Don Mauro si rese conto che sulla sua scrivania ora c’era una sorta di grosso tatuaggio, simile alla sagoma di una figura umana che gettasse la sua ombra sul legno. Solo che la sagoma non era esattamente umana e non si trattava di un tatuaggio, ma di una sorta di marchio a fuoco. E sulla natura del soggetto Don Mazzi non aveva alcun dubbio.
Lo strano caso del pappagallo fantasma - 7
Il telefono continuava a suonare a vuoto. Il commissario Sensi, tallonato da una Carmel che ondeggiava sugli alti tacchi dei suoi stivali, aveva percorso tutti i portici che circondavano piazza Brin sui quattro lati, senza mai sentire niente. Il quartiere Umbertino era uno dei pochi esempi di urbanistica spezzina sensata e ordinata. Si estendeva sotto alla massicciata della stazione in larghi isolati regolari fino alle mura dell’arsenale militare. Sensi sperava di non doverlo frugare da cima a fondo. Aveva vagato per la piazza in lungo e in largo, ignorando gli spacciatori che portavano avanti il loro commercio dalle panchine. Aveva infilato il naso in tutti i negozi, chiedendo se sentivano un telefono che squillava, guadagnandosi una serie di occhiate perplesse.
“Forse ha la suoneria disattivata,” commentò, alla fine. Poi fu colto da un pensiero. “Forse è per questo che non risponde. Forse è dovuta uscire per un’emergenza e si è portata dietro il suo pappagallo impagliato per farsi coraggio.”
Ora era Carmel che lo guardava perplessa.
“Ah, lascia stare. È molto più probabile che quei deficienti abbiano sbagliato a localizzarlo.”
“Stiamo cercando un cellulare, giusto?” ribatté lei.
“Già.”
“E perché non abbiamo guardato nell’iglesia?”
A Sensi servì qualche secondo per capire che “l’iglesia” era la chiesa. In effetti ce n’era una su un lato della piazza, brutta e grande, con la facciata ricoperta di cemento bugnato grigio.
“Già,” ripeté. “Perché non ci abbiamo guardato?”
La chiesa di Nostra Signora della Salute aveva un portone di ferro aperto e, più all’interno, delle porte laterali chiuse da delle tende.
Sensi sembrò esitare un attimo prima di entrare.
Se fuori l’aria era frizzante, dentro era praticamente gelida. Il pavimento di marmo e le navate erano illuminate fiocamente e c’era il caratteristico odore di incenso e acqua santa, mescolato a qualcosa di più terreno, che poteva essere detersivo.
Sensi si guardò intorno con aria circospetta, mentre Carmel si faceva devotamente il segno della croce. Non c’era nessuno.
Sensi ripeté l’ultima chiamata con il suo cellulare.
All’inizio non si sentì niente.
Poi, lentamente, iniziò a percepire qualcosa. Era come uno strano ronzio, il rumore di qualcosa che vibrava contro il legno.
Si guardò attorno, cercando di localizzarlo.
“Lo senti?” mormorò.
“Cosa?” fece Carmel.
Sensi scosse la testa. La sua ombra, sul pavimento di marmo, assomigliava a quella di un uomo che ride sguaiatamente, tenendosi la pancia. Anche se forse “uomo” non era la definizione più adatta. Carmel avanzò verso una delle navate.
Sensi andò dall’altra parte, verso un confessionale.
Il suono veniva da là, ora ne era sicuro. Spostò con una certa cautela la tenda, sperando che dentro non ci fosse un prete mezzo sordo che avrebbe insistito per confessarlo. In quel caso la faccenda avrebbe potuto protrarsi a lungo.
L’interno era vuoto. Sull’inginocchiatoio di legno, però, c’era un cellulare argentato, che vibrava forsennatamente. Sensi lo raccolse e vide il proprio numero di telefono sul display.
“Trovato,” disse. Carmel, dall’altro lato della chiesa, si voltò dalla sua parte.
“Forse ha la suoneria disattivata,” commentò, alla fine. Poi fu colto da un pensiero. “Forse è per questo che non risponde. Forse è dovuta uscire per un’emergenza e si è portata dietro il suo pappagallo impagliato per farsi coraggio.”
Ora era Carmel che lo guardava perplessa.
“Ah, lascia stare. È molto più probabile che quei deficienti abbiano sbagliato a localizzarlo.”
“Stiamo cercando un cellulare, giusto?” ribatté lei.
“Già.”
“E perché non abbiamo guardato nell’iglesia?”
A Sensi servì qualche secondo per capire che “l’iglesia” era la chiesa. In effetti ce n’era una su un lato della piazza, brutta e grande, con la facciata ricoperta di cemento bugnato grigio.
“Già,” ripeté. “Perché non ci abbiamo guardato?”
La chiesa di Nostra Signora della Salute aveva un portone di ferro aperto e, più all’interno, delle porte laterali chiuse da delle tende.
Sensi sembrò esitare un attimo prima di entrare.
Se fuori l’aria era frizzante, dentro era praticamente gelida. Il pavimento di marmo e le navate erano illuminate fiocamente e c’era il caratteristico odore di incenso e acqua santa, mescolato a qualcosa di più terreno, che poteva essere detersivo.
Sensi si guardò intorno con aria circospetta, mentre Carmel si faceva devotamente il segno della croce. Non c’era nessuno.
Sensi ripeté l’ultima chiamata con il suo cellulare.
All’inizio non si sentì niente.
Poi, lentamente, iniziò a percepire qualcosa. Era come uno strano ronzio, il rumore di qualcosa che vibrava contro il legno.
Si guardò attorno, cercando di localizzarlo.
“Lo senti?” mormorò.
“Cosa?” fece Carmel.
Sensi scosse la testa. La sua ombra, sul pavimento di marmo, assomigliava a quella di un uomo che ride sguaiatamente, tenendosi la pancia. Anche se forse “uomo” non era la definizione più adatta. Carmel avanzò verso una delle navate.
Sensi andò dall’altra parte, verso un confessionale.
Il suono veniva da là, ora ne era sicuro. Spostò con una certa cautela la tenda, sperando che dentro non ci fosse un prete mezzo sordo che avrebbe insistito per confessarlo. In quel caso la faccenda avrebbe potuto protrarsi a lungo.
L’interno era vuoto. Sull’inginocchiatoio di legno, però, c’era un cellulare argentato, che vibrava forsennatamente. Sensi lo raccolse e vide il proprio numero di telefono sul display.
“Trovato,” disse. Carmel, dall’altro lato della chiesa, si voltò dalla sua parte.
domenica 24 maggio 2009
Lo strano caso del pappagallo fantasma - 6
Sensi non era il tipo da lasciarsi convincere che in una vicenda ci fosse qualcosa di strano solo per un pappagallo con le ali spezzate trovato sul luogo di una scomparsa. Non gli veniva in mente neanche una spiegazione ragionevole per tutti gli avvenimenti, ma gliene venivano in mente decine del tutto irragionevoli.
Comunque, tanto perché non si dicesse che non faceva il suo lavoro scrupolosamente (che poi era l’assoluta verità) verso le quattro del pomeriggio chiamò l’ispettore capo Tudini per chiedergli se fosse possibile rintracciare un certo numero di cellulare.
Tudini rispose che se la scheda era ancora all’interno dell’apparecchio era possibilissimo.
“Allora fallo, ok? Poi telefonami.”
Archiviata la questione cellulare, Sensi tornò a fare quello che stava facendo, ovvero cercare di convincere Carmel, la barista del suo cuore, a diventare la barista di un’altra parte del suo corpo.
Carmel e suo fratello avevano in gestione un bar in piazza Brin, un ritrovo di anziani signori, spacciatori marocchini, vocianti dominicani e innocui senegalesi, condito dalla spruzzatina occasionale di qualsiasi altra nazionalità presente nel quartiere.
Oltre a questo, Carmel, ma non suo fratello, aveva lunghe gambe e un seno prosperoso, una bocca morbida e sensuale e una magnifica pelle color cannella.
In quel momento stava stappando una Ceres davanti al commissario e si stava sedendo con lui a uno dei tavolini dell’interno, che quel pomeriggio era semi-deserto.
“Potresti chiedere a Santos di sostituirti,” stava suggerendo in modo non molto sottile il commissario.
“No che non potrei,” replicò Carmel, senza pietà.
“Allora potremmo vederci questa sera,” rilanciò lui.
Carmel sollevò le perfette sopracciglia scure con espressione pensierosa. “Depende,” disse.
“E da che cosa?”
“Depende se me porti a cena in un bel posto, è claro.”
Sensi sorrise. “Casa mia è un posto superbo, a mio avviso, ma potrei anche offrirti una cena alla Toja degli Aranci.”
“Troppo empegnativo,” obiettò Carmel.
“Un aperitivo al Backstage?”
“Mh. Può andare.”
Sensi bevve un sorso di birra direttamente dalla bottiglia per non far vedere che sorrideva e le fece l’occhiolino. Carmel si mise a ridere.
“Vorrei solo sapere endove ti ho pescato!”
“Oh, non essere cinica,” rispose lui, mentre il suo cellulare iniziava ad emettere un’inquietante musichetta sincopata. “Sai benissimo che non c’è nessuno che ti adori più di me. In realtà credo che tu abbia fatto un ottimo affare.”
On candystripe legs, the spiderman comes, softly through the shadow…
“Non contarce troppo, su esto affare!”
Sensi si decise a rispondere. “Tudini, spero che tu ti renda conto che sei di grandissimo disturbo.”
“Ma, Ermanno, me l’hai detto tu di chiamare quando avevamo rintracciato quel cellulare.”
Sensi aggrottò la fronte. Non aveva la minima idea che ci volesse così poco, altrimenti l’avrebbe chiesto per il giorno successivo.
“Ok. Dove sarebbe, quindi?”
“In piazza Brin.”
Sensi rimase in silenzio per qualche istante. “Non avete rintracciato il mio numero, vero?”
“No, capo,” rispose Tudini, che aveva almeno il buon gusto di non offendersi per un’insinuazione di quel tipo. Non sarebbe stato esattamente il primo sciocco errore della sua carriera.
“Ok allora. Ci vediamo domani,” concluse Sensi, e riattaccò. “Curioso.”
Si alzò in piedi e lanciò un’occhiata maliziosa a Carmel: “Avresti voglia di una piccola caccia al tesoro?”
Comunque, tanto perché non si dicesse che non faceva il suo lavoro scrupolosamente (che poi era l’assoluta verità) verso le quattro del pomeriggio chiamò l’ispettore capo Tudini per chiedergli se fosse possibile rintracciare un certo numero di cellulare.
Tudini rispose che se la scheda era ancora all’interno dell’apparecchio era possibilissimo.
“Allora fallo, ok? Poi telefonami.”
Archiviata la questione cellulare, Sensi tornò a fare quello che stava facendo, ovvero cercare di convincere Carmel, la barista del suo cuore, a diventare la barista di un’altra parte del suo corpo.
Carmel e suo fratello avevano in gestione un bar in piazza Brin, un ritrovo di anziani signori, spacciatori marocchini, vocianti dominicani e innocui senegalesi, condito dalla spruzzatina occasionale di qualsiasi altra nazionalità presente nel quartiere.
Oltre a questo, Carmel, ma non suo fratello, aveva lunghe gambe e un seno prosperoso, una bocca morbida e sensuale e una magnifica pelle color cannella.
In quel momento stava stappando una Ceres davanti al commissario e si stava sedendo con lui a uno dei tavolini dell’interno, che quel pomeriggio era semi-deserto.
“Potresti chiedere a Santos di sostituirti,” stava suggerendo in modo non molto sottile il commissario.
“No che non potrei,” replicò Carmel, senza pietà.
“Allora potremmo vederci questa sera,” rilanciò lui.
Carmel sollevò le perfette sopracciglia scure con espressione pensierosa. “Depende,” disse.
“E da che cosa?”
“Depende se me porti a cena in un bel posto, è claro.”
Sensi sorrise. “Casa mia è un posto superbo, a mio avviso, ma potrei anche offrirti una cena alla Toja degli Aranci.”
“Troppo empegnativo,” obiettò Carmel.
“Un aperitivo al Backstage?”
“Mh. Può andare.”
Sensi bevve un sorso di birra direttamente dalla bottiglia per non far vedere che sorrideva e le fece l’occhiolino. Carmel si mise a ridere.
“Vorrei solo sapere endove ti ho pescato!”
“Oh, non essere cinica,” rispose lui, mentre il suo cellulare iniziava ad emettere un’inquietante musichetta sincopata. “Sai benissimo che non c’è nessuno che ti adori più di me. In realtà credo che tu abbia fatto un ottimo affare.”
On candystripe legs, the spiderman comes, softly through the shadow…
“Non contarce troppo, su esto affare!”
Sensi si decise a rispondere. “Tudini, spero che tu ti renda conto che sei di grandissimo disturbo.”
“Ma, Ermanno, me l’hai detto tu di chiamare quando avevamo rintracciato quel cellulare.”
Sensi aggrottò la fronte. Non aveva la minima idea che ci volesse così poco, altrimenti l’avrebbe chiesto per il giorno successivo.
“Ok. Dove sarebbe, quindi?”
“In piazza Brin.”
Sensi rimase in silenzio per qualche istante. “Non avete rintracciato il mio numero, vero?”
“No, capo,” rispose Tudini, che aveva almeno il buon gusto di non offendersi per un’insinuazione di quel tipo. Non sarebbe stato esattamente il primo sciocco errore della sua carriera.
“Ok allora. Ci vediamo domani,” concluse Sensi, e riattaccò. “Curioso.”
Si alzò in piedi e lanciò un’occhiata maliziosa a Carmel: “Avresti voglia di una piccola caccia al tesoro?”
sabato 23 maggio 2009
Fuori programma - 3

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 5
Il commissario era rientrato in questura con un pappagallo verde e rosso appollaiato su un dito.
“Il commissario Darkettoni ha trovato un nuovo amichetto,” commentò la Riu, che stava uscendo per mangiare. Mainardi si limitò a fissare Sensi con aria allucinata.
Immediatamente dopo il commissario lo chiamò.
“Mainardi?” disse, in tono distratto. “Si prenda cura di questo volatile. Lo porti da un veterinario e scopra che cosa gli hanno fatto alle ali. Poi veda di scoprire come si archiviano gli indizi ancora vivi.”
Le sopracciglia bionde di Mainardi si aggrottarono.
“Il pappagallo sarebbe un indizio, capo?”
“Non lo so. Ho sempre dei problemi a capire che cosa è un indizio e che cosa non lo è. Ma non lo potevo lasciare nell’armadio anti-panico di Agostina, non le pare?”
Mainardi annuì docilmente, anche se non aveva capito niente.
“Bene, mi faccia sapere,” concluse Sensi e fece dietro-front come se arrivare in questura, lasciare un pappagallo ed andarsene di nuovo fosse la cosa più naturale del mondo.
Mainardi, a cui il volatile aveva già piantato soddisfatto gli artigli nella mano, rimase lì a guardare la sua schiena in veloce allontanamento, completamente senza parole.
“Il commissario Darkettoni ha trovato un nuovo amichetto,” commentò la Riu, che stava uscendo per mangiare. Mainardi si limitò a fissare Sensi con aria allucinata.
Immediatamente dopo il commissario lo chiamò.
“Mainardi?” disse, in tono distratto. “Si prenda cura di questo volatile. Lo porti da un veterinario e scopra che cosa gli hanno fatto alle ali. Poi veda di scoprire come si archiviano gli indizi ancora vivi.”
Le sopracciglia bionde di Mainardi si aggrottarono.
“Il pappagallo sarebbe un indizio, capo?”
“Non lo so. Ho sempre dei problemi a capire che cosa è un indizio e che cosa non lo è. Ma non lo potevo lasciare nell’armadio anti-panico di Agostina, non le pare?”
Mainardi annuì docilmente, anche se non aveva capito niente.
“Bene, mi faccia sapere,” concluse Sensi e fece dietro-front come se arrivare in questura, lasciare un pappagallo ed andarsene di nuovo fosse la cosa più naturale del mondo.
Mainardi, a cui il volatile aveva già piantato soddisfatto gli artigli nella mano, rimase lì a guardare la sua schiena in veloce allontanamento, completamente senza parole.
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