giovedì 7 maggio 2009

Sette, morto che parla - 14

La cosa positiva di essere a capo di una squadra è che nessuno può azzittirti, neanche se pensa che tu stia delirando.

E l’ispettrice Riu lo pensava sicuramente.

Bassa, tarchiata e con corti capelli biondi, velista dilettante perpetuamente abbronzata e sportiva, la Riu mi faceva un po’ paura. Mentre esponevo la mia teoria mi guardava con l’aria di chi sta subendo delle torture psicologiche.

Il fatto è che la Riu mi aveva detestato fin dal primo giorno.

Sono troppo pallido, tormentato e stravagante per i suoi standard da cavernicola. E le ho ingenuamente confidato che detesto la barca a vela.

Gli altri miei valenti sudditi (definizione mia) mi ascoltavano con espressioni che variavano dall’educata cortesia, al perplesso scetticismo. L’unico che mi appoggiava senza riserve era Tudini, il che non era molto confortante.

«…ho telefonato a quella sorta di pseudo-patologo che hanno ad Aulla…» stavo dicendo.

«Non è un patologo, è un medico generico che si presta a…» puntualizzò Mainardi, pedante come suo solito.

«…E gli ho strappato un possibile momento del decesso per la nostra vittima numero 3,» continuai, senza badargli. «Potrebbe essere verso dicembre. Tudini, tu che hai guardato i fascicoli delle persone scomparse, ti risulta una ragazza vista l’ultima volta il 3 o il 4 dicembre?»

«Ma Ermanno!» esclamò lui, con aria sconvolta.

Sorrisi lentamente. Era meglio di Watson, in quanto ad espressioni stupefatte.

«Non so come fai a saperlo, ma una certa Katia Rosati è scomparsa proprio il 4!» dichiarò, sbigottito.

«Quattro dicembre. 4, 12. Ovvero 4 + 1 + 2 = 7.»

Questa volta non fu solo Tudini a guardarmi con gli occhi fuori dalle orbite.

Mi strinsi nelle spalle, minimizzando il mio genio. «A questo ragazzo piace il numero sette

Sette, morto che parla - 13

[Lei si mosse.

Iniziò col muovere una gamba, cercando di scrollarmi via. Poi la testa, divincolandosi come se non riuscisse a respirare.

Mi sollevai su un gomito ed osservai i suoi occhi aperti e furiosi.

Erano, me ne accorgevo solo in quel momento, blu.

La sua gola era squarciata da un capo all’altro, la sua pancia era aperta come quella di un pesce, i suoi seni, le sue cosce, le sue braccia erano segnati da numerosi tagli. Sotto di lei c’era una pozza di sangue di dimensioni più che rispettabili.

Avevo appena finito di, be’, puoi immaginare di far cosa.

Oltre a questo avevo appena finito di ucciderla.

Lei non poteva essere viva.

Eppure la era.

Sospirai. Armato di santa pazienza (e di un lungo coltello) le infilzai il cuore. Non che il muscolo si stesse muovendo. Non c’era la minima ombra di un battito.

Tuttavia io, coscienziosamente, la infilzai più volte. Zac, zac,zac.

Sbirciai la sua faccia, per vedere se c’era qualche segno di… be’, morte. Non ce n’era.

La mia preziosa vittima numero sette continuava a divincolarsi e a roteare gli occhi. La mia impressione era che fosse incazzata nera.

Sospirai di nuovo e mi arresi all’inevitabile. Le staccai dalla bocca il nastro adesivo.

Forse, a scuola, ti hanno fatto studiare i miti greci. Se è così avrai senza dubbio familiarità con quello di Pandora e del vaso che le fu affidato da Zeus. Dentro il vaso c’era tutto il male del mondo, e non doveva essere aperto.

Pandora, che era una curiosona, non appena Zeus le volta le spalle che cosa fa?

Ovvio: dà una sbirciatina, giusto per farsi un’idea.

Solo che tutto il male del mondo esce e si diffonde sulla terra. Mi piace pensare che un pezzo di quel male iniziale sia finito, chissà attraverso quali riciclaggi, anche dentro di me.

Ma sto divagando.

Quando staccai il nastro dalla bocca della mia vittima numero sette fu come aprire il vaso di Pandora, nel senso che non avevo mai sentito tutte insieme tante parolacce e oscenità. E, come avrai capito, non sono certo uno stinco di santo.

Seduto nel suo sangue a gambe incrociate, aspettai che il più fosse passato. Sfortunatamente quando le avevo tagliato la gola non ero arrivato fino alle corde vocali.

«Cristo, smettila!» sbottai, alla fine.

«Smettila tua sorella! Mi hai fottuta e sgozzata, e non hai avuto neanche il buon gusto di farlo in due momenti diversi!» ribatté lei.

Tutta la scena stava diventando surreale.

«Dovresti essere morta,» le feci notare, anche se non pensavo che ce ne fosse bisogno. Ma al momento mi sentivo stranamente insicuro. «Tutte le altre sono morte,» aggiunsi, quindi, a conferma della mia affermazione.

«Ah!» disse lei, come se mi avesse colto con le mani nella marmellata (invece erano, credo di averlo già detto, nel suo sangue). «Quindi non sono la prima!»

«Dovresti essere contenta. Con le altre ho fatto esperienza,» replicai. Sentivo che mi stava sfuggendo il punto.

A questo, in effetti, seguì un’altra scarica di improperi. Non avevo mai sentito nessuno insultare Nostro Signore con più entusiasmo.

«Vorrei che mi spiegassi perché non sei morta,» insistetti, quando anche questa crisi sembrò aver superato il suo culmine.

«E che cazzo ne so io!» rispose lei, sempre con gran garbo.

Mi passai entrambe le mani tra i capelli.

«Merda,» borbottai. Mi rialzai in piedi e ripetei, tanto per andare sul sicuro: «Merda.»

Ora, non so se hai mai provato a rimanere seduto per un po’ in un lago di sangue (se sì, mi piacerebbe scambiare con te alcune opinioni professionali), ma tende a diventare una faccenda alquanto sgradevole.

Il sangue si secca formando una sorta di sottile crosta. Là dove ci sono dei peli sembra trovare il suo habitat naturale.

Osservai con puntiglio le condizioni del mio corpo. L’unico punto in cui non ero coperto da una sottile crosta di sangue era il gomito sinistro, chissà perché.

Anche parte dei capelli erano miracolosamente sopravvissuti.

Il punto è che tanto mi piace il sangue fresco tanto non posso sopportare quello secco. Tirai fuori il tubo di gomma dall’armadio, lo collegai al rubinetto dell’acqua e iniziai a risciacquarmi coscienziosamente.

Nel frattempo la vittima numero sette non taceva un istante.

Per la maggioranza erano insulti rivolti a me, ma c’era anche qualche sporadica variazione nei confronti di Dio e del mondo.

Iniziavo ad avere una teoria per la sua non-morte. Probabilmente un elemento del genere non lo volevano neanche all’Inferno.

«Se la pianti di strillare ti do una sciacquata,» le comunicai. L’avrei fatto comunque, odio i cadaveri insanguinati, ma non mi sembrava il caso di dirglielo. E poi lei non era un cadavere in senso stretto.

La annaffiai con la canna dell’acqua. La gran parte del sangue scivolò via dal pavimento verso lo scolo in un angolo, tuttavia non c’era modo di pulire completamente senza rimuoverla dal pavimento.

Ero terribilmente seccato.

«Slegami le mani!» stava iniziando a pretendere, nel frattempo, lei.

«Fossi scemo,» replicai. «Non che tu possa andare chissà dove con la pancia aperta come quella di un pesce, vero? Se fossi in te eviterei di alzarmi.»

«Stronzo,» disse lei. Era stato amore a prima vista.

Mi strinsi nelle spalle e iniziai ad asciugarmi. «Dico per te. Non vorrai dovertene andare a zonzo con l’intestino in mano.»

La mia osservazione parve colpirla.

«Mi devi ricucire!» strillò.

Mi infilai i boxer e i jeans. «A dire il vero non devo fare proprio niente. Se ancora non l’hai capito, io non sono una brava persona

«Non puoi lasciarmi così!» protestò.

Le sorrisi largamente. Io non sono un tipo che sorride spesso, pertanto mi manca un po’ di pratica e i miei sorrisi non riescono mai del tutto bene. Assomigliano più che altro all’imitazione di un sorriso, se capisci cosa intendo.

«Perché no? Potrei tenerti qua e ritornare ogni volta che mi viene voglia. Non dovrei nemmeno più sbattermi a trovare una vittima nuova.»

Se ci pensi il mio ragionamento non faceva una grinza.

«E se entrassero degli animali?» disse lei. «E se mi… mangiucchiassero? Se mi mettessi ad urlare e mi trovasse qualcuno? E se…»

«E se ti imbavagliassi di nuovo?»

Mi accucciai accanto a lei e osservai le sue ferite. Erano pulite e asciutte, ma non sembravano in via di rimarginamento. Certo, avevo fatto proprio un bel lavoro, pensai, con orgoglio.

La accarezzai con una mano e lei ricominciò a protestare.

«Andrò a cercare ago e filo,» mi arresi. E la azzittii di nuovo con il nastro adesivo.]

mercoledì 6 maggio 2009

Sette, morto che parla - 12

Dicono che quando c’è un omicidio le possibilità di trovare l’assassino si assottigliano man mano che passa il tempo. Dicono anche che con gli omicidi seriali ogni volta che trovi un nuovo corpo il conto alla rovescia riparte.
Tutte cazzate.
Un omicidio lo risolvi quando capisci che cosa è successo e come, e queste sono cose che puoi capire anche a mesi di distanza.
Lascia che ti dica come la penso. In natura ci sono due tipi di problemi: i problemi da risolvere punto per punto e i problemi che si risolvono tutti insieme e all’improvviso con un colpo di genio. Un omicidio può appartenere ad entrambe le classi.
Puoi fare i compiti da bravo sbirro: interroghi i testimoni e cerchi gli indizi, passo dopo passo provi a risolvere l’enigma. Ma se questo non basta allora ti serve una soluzione del secondo tipo, una di quelle cose che ti fanno esclamare “Ah-a! Ho trovato!”.
Senza falsa modestia io sono uno specialista in questa branca, mentre nel primo caso tendo a fare inutilmente casino.
Questo era il motivo per cui, fin da quando avevamo trovato il primo cadavere, avevo lasciato Tudini e la mia squadra a fare i compiti e io avevo iniziato ad analizzare il problema da vari punti di vista differenti.
Alla fine, mentre osservavo un po’ di quegli inutili pezzi di carta che vanno sotto il nome di rapporti, avevo avuto un’idea folgorante.
Il fatto era che la prima ragazza uccisa, Francesca Fregoso, era scomparsa dalla sua casa la sera del cinque febbraio di due anni prima. Probabilmente era stata uccisa in giornata.
Il nostro secondo corpo, Valentina Mattei, aveva subito lo stesso trattamento un sei ottobre.
Avevo guardato le loro morti da tutti i punti di vista. Elementi in comune tra le vittime (i capelli neri – anche la nostra sconosciuta n.3 li aveva), modalità di uccisione, di sepoltura, coordinate geografiche, segni zodiacali, fasi lunari, vittorie dello Spezia, tipo di film trasmessi quella sera in televisione… posso essere un tipo piuttosto creativo e mi ero spinto fin dove ritenevo opportuno.
Poi avevo notato quella strana cosa.
Cinque febbraio: 5 + 2 = 7. E ancora, sei ottobre: 6 + 10 = 16, 1 + 6 = 7.
Stavo diventando demente?
Naturalmente NO. Era l’assassino a essere demente, su questo non c’erano dubbi.
E gli assassini dementi vanno a nozze con questo tipo di cazzate esoteriche.
Nel cervellino del mio uomo dovevano agitarsi incubi matematici.

Sette, morto che parla - 11

[Catturai Sara la mattina all’alba, mentre andava al lavoro.
Se appena era possibile adoravo farlo di giorno, con la luce. Avevo comprato, per questo scopo, una baracca prefabbricata nei boschi della Val di Vara.
Niente di eccezionale, ma molto utile.
Ci portai di corsa la mia nuova amica, di cui ancora non conoscevo il nome. Non contavo nemmeno di conoscerlo, se non i giorni successivi, se i giornali avessero riportato che una ragazza era scomparsa.
Arrivai con la macchina fin davanti alla baracca e la scaricai all’interno, sul pavimento di linoleum.
Non per dire, ma il linoleum è la scelta ideale, se hai dei fluidi da ramazzare. Molto igienico e non del tutto antiestetico.
Quindi, come dicevo, lasciai la ragazza a dibattersi sul pavimento e andai a parcheggiare l’auto più avanti sulla sterrata. Tornai corroborato da una allegra passeggiata di dieci minuti nell’aria frizzante dell’alba.
La mia nuova amica aveva provato a nascondersi sotto al tavolo, una mossa che tentano quasi tutte.
La tirai fuori dal suo nascondiglio e iniziai a tagliare attentamente via i suoi vestiti. Inutile dire che, pur legata e imbavagliata con il nastro adesivo, lei provò attivamente a opporsi.
Adoro quando lo fanno.
Eliminai tutti i vestiti e li piegai ordinatamente in un angolo. Poi mi tolsi anche tutti i miei, impilandoli in un angolo diverso. Si cresce e si impara, e detesto dover buttare via roba semi-nuova solo perché è macchiata di sangue, nell’improbabile possibilità che un giorno possa costituire una prova incriminante.
Mi misi al lavoro con i miei coltelli e devo dire che io e Sara passammo una soddisfacente ora, prima che mi sentissi abbastanza carico da arrivare fino in fondo.
Non vorrei scendere nel personale, ma la cosa che preferisco è farlo quando tutti e due siamo completamente coperti di sangue.
Anche quella volta feci così, terminando l’opera con un preciso squarcio nella gola.
Spossato, giacqui sopra di lei, beandomi del calore viscido e sensuale che mi avvolgeva.
Era la mia vittima numero sette, ed era stata… perfetta.
Poi successe qualcosa.]

martedì 5 maggio 2009

Sette, morto che parla - 10

La verità è che non me ne frega niente di capire come funziona la testa di certi individui. Sono un poliziotto, non uno strizzacervelli. Non mi importa un accidenti dei loro traumi infantili o dei loro sentimenti.
Però, per qualche motivo a me ignoto, capisco abbastanza bene le loro pulsioni.
Mentre tornavamo verso Spezia esposi a Tudini le mie sensazioni. La strada correva sinuosa tra i boschi (anche troppo sinuosa, visto che iniziavo ad avere il mal d’auto), tuffandosi entusiasta verso la valle e il mare.
Visto che c’era un caldo sole primaverile avevo abbassato l’aletta di fronte al mio sedile, ma non ne stavo traendo un gran giovamento. Mi ero nascosto dietro ad un paio gigante di occhiali da aviatore.
«Sicuramente c’è violenza sessuale anche questa volta,» predissi. «Sai, quando la zona pelvica diventa uno schifo putrefatto più scuro del resto significa che in quella zona c’erano delle ferite, il che mi fa pensare…»
«Ermanno!»
«Che cosa?» chiesi, stupito dalla veemenza del suo richiamo.
«È vomitevole!»
«A-ah!» sventolai un dito davanti al nasone di Tudini. «Non si parla così di una povera ragazza violata e seviziata, Max. Sei un insensibile, e per punizione andrai a spulciare in tutti i fascicoli delle persone scomparse!»
Il mio vice sospirò, rassegnato.
«Dunque, come dicevo, sicuramente lui l’ha legata, azzittita, tagliuzzata, stuprata e le ha aperto la pancia come a una trota. Questo mi rassicura sul fatto che è proprio un killer seriale, non un volgare imitatore. Se non stiamo attenti qua ci ritroviamo con Lucarelli e Picozzi che dormono davanti alla questura.»
«Che cosa? Sono senzatetto?» chiese, innocente, Tudini.
«È per questo che sei il mio preferito, Max. Hai il potere di risollevarmi l’umore meglio del Prozac. A proposito hai mica visto il mio flacone in giro?»
«Sopra la tua scrivania,» rispose Tudini. Come ti dicevo, è del tutto insensibile al mio sarcasmo.
«Be’, in ogni caso voglio il silenzio stampa, dillo anche a quel babbeo di Bozza,» continuai, con uno dei miei celebri cambi d’argomento improvvisi.
La strada tortuosa si era trasformata in dritta superstrada, che procedeva tra i bassi monti con confortante prevedibilità.
Visto che lo stereo della macchina di Tudini non avrebbe dispensato niente di neanche lontanamente simile ai Bauhaus e che io detesto la maggioranza delle stazioni radio, ce ne rimanemmo in confortevole silenzio per una decina di minuti.
«Se vuoi il mio parere, ce ne sono altre,» dissi alla fine, tanto per risollevarci il morale.

Sette, morto che parla - 9

[Questa è la storia della mia vita: io sono diverso dagli altri e gli altri lo sanno. Se gli chiedi qual’è la differenza tra noi non ti sanno rispondere, eppure sanno che c’è.
Non sbagliano. Come dicevo c’è qualcosa dentro di me.
Questo qualcosa era cresciuto più o meno in silenzio per tutte le superiori. Non poteva attendere oltre.
Ho ucciso la mia prima vittima poco prima dei vent’anni.
Una ragazza dai capelli neri.
Belle gambe bianche e tornite.
Ho fatto le cose per bene. Ti ho già detto che sono una persona ordinata.
L’ho seguita per una settimana. Ho visto dove viveva, chi frequentava, che posti bazzicava. L’ho caricata in macchina un sabato sera, mentre tornava a casa. Non mi ha visto nessuno.
Era il momento giusto. Avevo pianificato tutto.
Il nastro adesivo nel cassetto del cruscotto. Il coltello con cui minacciarla. Le frasi da dire. Tutto.
Mi sono fermato in una zona poco trafficata per farla accomodare nel mio bagagliaio. Ero quasi sopraffatto dall’emozione.
L’ho portata ben fuori dalla città, su per i colli. Se conosci un minimo la geografia di queste parti sai che lì è pieno di luoghi adattissimi. Ho parcheggiato la macchina in uno spiazzo dove nessuno ci avrebbe fatto caso e ho portato la mia nuova amica tra le frasche.
Sai come vanno certe cose.
Qualche ora dopo nel bagagliaio avevo un cadavere ancora tiepido, ordinatamente avvolto in vari sacchi per la spazzatura nera.
Ero stanco, spompato, ma ero anche al settimo cielo.
Purtroppo avevo tutta la parte davanti della camicia zuppa di sangue.
Quello era un contrattempo a cui non avevo pensato.
Devo ammettere che quella prima volta la fortuna del principiante mi fu d’aiuto. Mi tolsi la camicia e guidai praticamente a casaccio finché non avvistai una fonte lungo la strada. Consisteva fondamentalmente in un pezzo di tubo di gomma che sporgeva da un muro.
L’acqua era freddissima, ma l’aria calda d’agosto bastò a contrastarla. Lavai la camicia. Non rimase neanche una piccola macchiolina di sangue, dato che l’acqua fredda è fantastica per l’emoglobina.
Ordinato e preciso come al solito andai a disfarmi dell’involucro forato della mia amata.
Ora, ascolta, non so che cosa pensi di me, ma non sono uno stupido.
Avevo letto tutta quella roba che c’era nei gialli e via discorrendo. Sapevo che cos’è la scientifica, che cos’è un test del dna, che cosa significa che un uomo può essere secretore oppure no, in quanti milioni di posti si possono appiccicare le tue impronte digitali, i tuoi peli, i tuoi capelli o le fibre del tappetino della tua macchina.
Riguardo a tutte queste seccature, avevo la soluzione ideale: bastava che nessuno trovasse i rimasugli della mia girlfriend, non ti pare?
Non nel senso di non trovarli per due, quattro, sei mesi o un anno. No. Non li doveva trovare nessuno, in eterno.
L’ideale sarebbe stato cacciare il corpo giù per il camino di un vulcano. (Adoro l’idea del vulcano, si può dire che sia un po’ il mio sogno nel cassetto.)
Purtroppo, come avrai notato, da queste parti non ci sono molti vulcani.
C’è un sacco di mare, certo, però il mare non è una buona idea. Ho letto da qualche parte che i cadaveri si gonfiano, riaffiorano nei punti più impensabili e nei momenti meno opportuni.
Non era il caso.
Dopo attente riflessioni, quindi, avevo deciso di seppellire la mia defunta amica nei boschi.
Per scavare una buca profonda due metri (ovverosia il minimo indispensabile) ci vogliono tre ore di lavoro di vanga. È importante preservare tutte le zolle erbose, in modo da poterle poi riapplicare senza che la fossa sia visibile a prima vista.
È faticoso, ma quando sei ancora invaso dall’adrenalina quasi non te ne accorgi.
Come avrai già intuito, ho maturato una discreta esperienza. Devo ammettere, in effetti, che Sara doveva essere la settima. In un certo senso lo è stata.
Sara era una ragazza carina dai capelli neri e viola. La faccenda del viola per me era una novità, ed ero su di giri anche per questo. Principalmente, però, era la faccenda del sette a farmi sentire come se stessi per esplodere.
Ero sicuro che il sette mi riservasse grandi cose, e non sarei rimasto deluso]

Sette, morto che parla - 8

Quando gli tesi la mano Mario Bozza la strinse con aria scettica.
Sono abituato a questa prima reazione. La gente nei piccoli posti tende ad essere di vedute ristrette. Se vedono un tizio vestito di nero, con i capelli neri lunghi e arruffati, magro e pallido e – specialmente, a quanto pare – con indosso jeans aderenti neri e anfibi a metà polpaccio, per qualche motivo non collegano immediatamente la sua immagine a quella di un commissario di polizia.
Sono un incompreso.
Nessuno di loro pensa che se sono stato promosso così in fretta è perché o sono fottutamente bravo o sono fottutamente raccomandato, entrambe condizioni di cui avere la giusta considerazione.
Tanto perché tu lo sappia: non sono raccomandato, ho solo passato qualche anno a farmi fottere il cervello da infiltrato.
Lasciai Bozza a grattarsi il cucuzzolo semi-calvo e mi avviai allegramente in mezzo alla verdura. Forse avrai capito che non amo eccessivamente il cosiddetto verde.
In effetti mi trovo molto più a mio agio in un ambiente chiuso e possibilmente in penombra. Anche il sole e il mare non sono il mio forte. Per quanto riguarda il primo, a Spezia per otto mesi all’anno non c’è problema: è considerata la città più piovosa d’Italia.
Il secondo… be’, con il tempo sto cercando di abituarmi.
Mi avviai su per una sorta di sentiero. La mia brillante intelligenza mi permise di dedurre che era stato scavato dai piedoni di tutti gli sbirri che avevano fatto avanti e indietro dalla strada all’ultimo ricovero della ragazza squarciata.
Aggiunsi i miei piedoni ai loro.
Tudini mi trotterellò dietro come un cane da pastore grosso e fedele.
«Che alberi sono questi?» volli sapere.
«Castagni, Ermanno. Vedi le foglie frastagliate?»
«Io vedo solo roba umida e marcescente, Max. Da solo non saprei dire che si tratta di foglie.» Proseguii lungo la pista, con il mio vice alle calcagna. «Però so che erano castagni anche l’ultima volta, mentre quella precedente erano cerri e qualcos’altro che ora non mi viene in mente. Per questo ho un ispettore capo a mia disposizione.»
Mi chiusi in un silenzio scontroso, ovvero il mio standard, e raggiunsi il principale luogo di interesse turistico di quelle parti: una grossa buca circondata dal nastro bianco e rosso.
Due ebeti sbirri del luogo mi guardarono in cagnesco e io per tutta risposta passai sotto al nastro limitandomi a rivolgergli un colpo di sopracciglia.
«È il commissario Ermanno Sensi, squadra mobile della Spezia,» li informò Tudini, al mio posto.
È consapevole del fatto che posso diventare irritabile.
Mi accucciai accanto alla fossa e diedi un’occhiata giù.
Sul fondo c’era un involto di plastica nera che qualche genio aveva tagliato completamente nel senso della lunghezza e dentro al sacco c’era il corpo di una ragazza.
Be’, detta così sembra una cosa quasi gradevole, una cosa come un’altra. Il fatto era che il lezzo di decomposizione si sentiva a distanza di qualche chilometro e la ragazza era color marrone scuro con vaghe nuances brune. La cosa a cui somigliava di più era una prugna andata a male.
Quella che un tempo doveva essere stata la sua cavità addominale ora somigliava ad una spelonca nera, da cui facevano capolino le costole.
Sulla bocca c’era ancora un lembo di nastro adesivo argentato da elettricista.
Mi rialzai in piedi e mi spolverai le ginocchia.
«Il medico ha detto qualcosa di illuminate tipo sì, è morta, oppure ha fatto un vero e proprio discorso?» chiesi, a nessuno in particolare.
«Ha confermato il decesso,» disse uno dei giovanotti in divisa che mi avevano guardato male.
Mi tirai indietro i capelli e mi appoggiai le mani sui fianchi.
«Voglio l’ora del decesso precisa al giorno, non mi interessa che cosa devono fare per scoprirla. Esami particolari, datazione al carbonio 14, riti voodoo… qualunque cazzata la moderna tecnologia ci metta a disposizione.» Sospirai. «Anche se, naturalmente, capire chi era la nostra fragrante amichetta ci potrebbe aiutare un pochino.»
E a quel punto feci quello per cui sono odiato dagli uomini della scientifica di tutta Italia. Saltai nella fossa e iniziai a incasinare la verginità della scena facendo i rilievi per mio conto.
Temo di non essere una persona molto paziente.

Sette, morto che parla - 7

[Carlotta, contrariamente ai miei timori, non disse niente dell’accaduto.
Da quel giorno in poi, in classe, iniziò a evitare il mio sguardo e sono certo che non rimanemmo più soli neanche un minuto fino alla fine dell’anno.
Non sono molto bravo a capire cosa frulla nella testa della gente, ma penso che si vergognasse.
Era un po’ come se ci fosse stata con me, non trovi?
Io, d’altronde, avevo nutrito per la prima volta la cosa.
Non l’anemico sostituto costituito dai gatti o dai cani. No, quello era vero nutrimento, per lei. Il terrore improvviso, la carne squarciata, l’estasi dei sensi… tutto quanto, l’intera faccenda, il servizio completo.
Alla fine dell’anno andai alle superiori. Liceo scientifico.
I miei non credevano particolarmente nel valore dell’istruzione e forse avrebbero preferito un professionale, tuttavia i miei insegnanti delle medie insistettero che ero portato per la matematica e così finii al Pacinotti.
Me la cavai senza infamia e senza lode, uscendo con cinquantadue.
La verità è che avevo altro per la testa.
Adolescenza, sussulti ormonali, pulsioni sempre più difficili da tenere sotto controllo.
Riuscii a rimanermene buono per gran parte di quel periodo, ma dentro di me qualcosa stava maturando. Era come se la cosa, l’entità, fino a quel momento se ne fosse stata in un bozzolo e ora fosse pronta a uscire.
Facevo sogni pieni di sangue, da cui mi svegliavo con le lenzuola impiastricciate.
Avevo iniziato a interessarmi della vita degli animali, delle loro abitudini di accoppiamento, del modo in cui uccidevano.
I miei compagni di scuola immaginavano che cosa avrebbero potuto fare con le ragazze. E anch’io.
Devo ammettere che la nostra idea di divertimento era alquanto distante.
Per fortuna non venni indotto in tentazione. Ora so che all’epoca non sarei stato pronto. Le ragazze non si interessavano a me. Ero troppo silenzioso, troppo tranquillo. Per loro ero uno sfigato all’ultimo stadio, o semplicemente una non-persona, qualcuno che nemmeno esisteva.
Malgrado questo, non temere, mai nessun bullo se l’è presa con me.
I ragazzi preferivano starmi alla larga.
Ammetto che durante le superiori organizzai qualche scherzo non proprio simpatico ai loro danni, ma queste sono piccolezze. Non ci furono mai feriti gravi e gli insegnanti non si accorsero mai che ero stato io.
Io ero il ragazzo magro e pallido in seconda fila, quello “dispari”, che era rimasto nel banco da solo. Per qualche motivo non ti stupisci, vero?]

lunedì 4 maggio 2009

Sette, morto che parla - 6

Arrivai in questura verso le undici e un quarto. Immagino che ti stia rodendo dalla curiosità di sapere come avevo fatto a essere così veloce.
Be’, non è un segreto.
Basta non lavarsi e infilare i vestiti del giorno prima, mutande e calzini a parte.
La questura è un grosso edificio semi-nuovo, un cubo di vetro a specchio piazzato su un viale alberato. Di fronte abbiamo un parco dove di giorno giocano i bambini, si trastullano i nostri rari pedofili e passeggiano i nostri numerosi anziani signori. La Spezia è composta al novanta percento di vecchi, me ne sono accorto non appena trasferito. Dal mio punto di vista è un fattore piuttosto positivo (di vecchietti criminali non ce ne sono molti), tuttavia può causare qualche problema al momento di trovare una partner sessualmente disponibile.
Le spezzine, tra l’altro, sono famose per non darla.
Insomma di fronte alla questura c’è questo parco recintato. Per fortuna il mio ufficio dà sugli squallidi edifici sul retro. Ho un pessimo rapporto con la natura.
Vi entrai, come dicevo, intorno alle undici e un quarto. Tudini mi stava aspettando, aggirandosi nel il corridoio con aria tormentata.
«Ermanno!» mi corse incontro, non appena mi vide apparire.
Frenai ogni eccesso di zelo spingendogli una mano davanti al naso.
«Dopo una Red Bull,» ordinai, e scomparvi nel mio antro.
Credo di aver omesso che avevo un orrendo mal di testa. La sera prima avevo bevuto il giusto, ma avevo fumato troppo e avevo impegnato una quota troppo consistente delle mie immense risorse cerebrali tentando di portarmi a letto una tizia. Avevo scoperto che era spezzina solo dopo quasi due ore di frasi brillanti e disgustoso servilismo, e avevo gettato la spugna senza insistere oltre.
Mi ero da tempo reso conto che le spezzine, il sabato sera, si spingono fino a Forte dei Marmi apposta per non dartela. Il locale, un orrore pseudo-gotico grande come il buco del culo di una gallina, oltre tutto aveva iniziato a riempirsi quando avevo già perso ogni speranza, quindi immagina il divertimento.
Tudini entrò nel mio ufficio con una lattina di Red Bull già stappata, servizievole, e la appoggiò sulla scrivania, nell’unico angolo casualmente sgombro dalle carte.
Ne bevvi un paio di sorsi e mi lasciai cadere nella mia sedia, indicando a Max quella che poteva usare lui.
Considera che il mio vice assomiglia al famoso anello di congiunzione tra l’uomo e la scimmia e capirai che di prima mattina non era una visione molto gradevole, tuttavia la tollerai con stoicismo.
«Hanno trovato un’altra ragazza con la pancia aperta,» dissi.
«Sì,» confermò Tudini, «sopra Aulla.»
«Eccezionale. Il nostro amichetto si spinge sempre più a nord. Se abbiamo culo tra un po’ saranno problemi dei parmigiani.»
Tudini, come forse ti ho già detto, non sa mai come replicare al mio humor. Rimase in silenzio.
«Era nuda e insacchettata,» continuai, quindi.
«Già. Bozza ha chiamato i RIS di Parma.»
«Ma che bella cosa. Proprio come alla tv, eh?” Mi strofinai gli occhi. «Suppongo che dovremmo andare a dare un’occhiata.»
Max parve sollevato.
Come se mi volessi perdere quel caso.

Sette, morto che parla - 5

[Dopo quella faccenda di Bua ho iniziato a sospettare di essere un pochino diverso dagli altri.
Sono sempre stato un bambino molto silenzioso. Da piccolo non piangevo, non ho mai dato fastidi ai miei genitori. (A parte quella volta in cui mi scoprirono mentre davo fuoco a un rotolo di carta igienica, al bagno delle elementari. Ma non potevo certo prevedere che la maestra sarebbe entrata nel bagno dei maschi, no?)
Anche adesso non parlo molto. Non ho molti amici, anzi, potremmo dire che non ne ho neanche uno, se escludiamo Sara, e lei la considererei più la mia fidanzata.
Vorrei spiegarti come ci siamo conosciuti. È una storia un po’ lunga, spero che avrai pazienza con me.
In un certo senso Sara è stata un regalo della cosa.
A quattordici anni ho provato a fare delle cose con gli esseri umani. C’era una mia compagna di classe che mi piaceva molto.
Aveva i capelli neri, e io amo i capelli neri. Anche Sara li ha.
Questa mia compagna si chiamava Carlotta. Se devo essere sincero non mi calcolava affatto. Nessuno mi calcolava un granché, a quei tempi. (Sì, neanche ora, ed è una vera fortuna.)
Carlotta abitava nelle case popolari dall’altra parte del quartiere. Lo sapevo perché l’avevo seguita, un paio di volte.
La cosa dentro di me aveva fretta, ma io ero stato bravo e avevo aspettato.
Ho aspettato ed ho aspettato, finché non è arrivato il momento giusto. Il momento perfetto. Ideale.
Quando il momento è arrivato – la cosa dentro di me urlava di fare presto – ho offerto a Carlotta una sigaretta e le ho proposto di andarcela a fumare in un posto meno pubblico della strada.
Carlotta voleva la sigaretta e non voleva che qualcuno la vedesse che fumava.
Io me ne sono sempre sbattuto di queste cose.
L’ho portata nel mio posto, potevi dubitarne?
Ora non pensare che il mio posto fosse un luogo sgradevole. Certo, era un angolo di cortile, nascosto da un muretto semi-diroccato. Certo, ci crescevano delle erbacce. Ma io sono sempre stato un tipo ordinato, e avevo tolto tutta la spazzatura e tutte le ossa degli animali.
Ci siamo seduti dietro al muretto e ci siamo accesi due delle mie sigarette.
Vedevo che Carlotta non sapeva cosa dirmi, e penso che sospettasse il mio interesse romantico nei suoi confronti, solo che non sapeva che era la cosa a essersi infatuata, non io.
Ha provato a imbastire una conversazione, ma come ti dicevo io non sono un grande chiacchierone. Quando eravamo a metà sigaretta ho buttato via la mia e l’ho bloccata per terra. Sono magro, ma più forte di quel che crederesti. Le ho intrappolato i polsi con una mano e con l’altra ho tirato fuori il coltello.
Era un bell’oggetto, da me regolarmente manutenzionato, un serramanico di sette centimetri (un caso?) la cui lama avevo affilato a dovere.
Carlotta lanciò un grido, uno solo, strozzato. Le sollevai la gonna e le feci un taglio sulla coscia. Oh, il suo sguardo terrorizzato…
Ero così su di giri che me ne venni nelle braghe, e così me la lasciai scappare. Carlotta corse via tenendosi goffamente una mano tra le cosce. Vidi sul cemento crepato alcune gocce del suo sangue.
Ancora adesso, se ripenso a quel momento, mi sento invadere dal calore.]

Fuori programma



Il gentile omaggio di Luca Bonisoli.

venerdì 1 maggio 2009

Sette, morto che parla - 4

C’è qualcosa di mastodontico in un’inchiesta che si mette in moto. Il primo agente che arriva sul posto, si guarda intorno con aria bovina e contatta la sala operativa chiedendo che cosa cavolo deve fare.
Arrivano altri agenti, altrettanto incerti sul proprio ruolo. Macchine bianche e blu si fermano tutto attorno al luogo in questione, di solito parcheggiando in divieto con grande noncuranza.
Poi arrivano i primi graduati. Un pm viene informato dei fatti. Il questore viene disturbato al ristorante (il questore è sempre al ristorante).
Alla fine, quando ormai è stato fatto tutto il danno possibile, quando tutti gli indizi importanti sono stati ignorati o distrutti, tutti i testimoni messi sul chi va là e l’indagine è ben avviata sulla strada della disfatta più totale, qualcuno si rende conto che non è stata chiamata l’unica persona per cui l’intera faccenda non sia proprio una novità.
Quella persona, in quel caso, ero io.
Mario Bozza, a capo del commissariato di Aulla, decise, colpito da un raro guizzo d’intelligenza, di chiamare la squadra mobile di Spezia per chiedere se il corpo di una ragazza seppellito nel bosco ci dicesse qualcosa.
A rispondere alla telefonata fu Massimiliano Tudini, ispettore capo e di fatto mio vice.
Il quale, pur essendo consapevole che tutta la mia irritazione si sarebbe rovesciata su di lui, pensò bene di telefonarmi a sua volta.
Erano ormai le dieci e cinquantasei del mattino, ed io stavo dormendo beatamente a pancia in su.
Quando finalmente il trillo penetrò nel mio subconscio, allungai la mano verso il comodino e presi il cordless. Poi, senza aprire gli occhi, lo portai sotto alle coperte con me.
Risposi senza dire una parola.
«Ermanno?» Tono dubbioso, accento calabrese, vago panico.
Emisi un grugnito affermativo.
«Ermanno, qua c’è un problema.»
«Hanno segnalato che la mia casa va a fuoco?» chiesi, il sarcasmo appannato dalla mia voce strascicata.
«Hem, no.»
«Oh, grazie, mi hai tolto un pensiero. Sicché posso rimettermi a dormire, eh?»
Tudini non sa mai come reagire al mio aggressivo sense of humor. Tentennò. «Hem, no, capo. Penso più che dovresti venire qua. Hanno trovato un’altra ragazza nel bosco.»
«Nuda?» volli sapere.
Un altro istante di silenzio. «Hem, sì.»
«Portatela pure nel mio ufficio, sarò lì in un istante.»
A questo punto Tudini era totalmente nel pallone e la mia vendetta consumata.
«Capo, è morta,» si sentì in dovere di specificare.
Sospirai. «Allora è meglio se la tieni nel tuo, di ufficio. Arrivo.»

Sette, morto che parla - 3

[Quando ero piccolo la cosa era piccola anche lei. Aveva piccoli desideri.
A volte le bastava vedere qualcosa che prendeva fuoco. Oh, le fiamme… che fenomeno incredibile, vero? Potrei guardare le fiamme per ore e ore. Quelle loro linguette dalla punta blu, che guizzano e accarezzano.
A volte voleva qualcosa di un pochino più sostanzioso. I gatti, ad esempio, le piacevano un mondo. Un bel gatto macilento e spelacchiato, di quelli che abbondano nei cortili vicino a Piazza Brin. Basta offrirgli un biscotto per farli avvicinare.
A otto anni ho scoperto che, se inchiodi un gatto per terra, d’inverno, e gli apri la pancia, dal suo intestino si alza una nuvola di vapore. Devi essere molto veloce, però, altrimenti non riesci a vederla.
Mi sono interrogato a lungo su quella nuvoletta di vapore. Ho persino accarezzato l’idea che potesse essere l’anima del gatto e questo mi ha aperto interessanti domande.
I gatti hanno un’anima? (Il parroco sosteneva di no, ma io ne sapevo, forse, più di lui.)
L’anima può abbandonare il nostro corpo quando siamo ancora vivi? (Di nuovo, il parroco sosteneva di no, ma il gatto era ancora vivo quando quella nuvoletta usciva, pertanto non vedo altra soluzione).
Quando sono cresciuto ho capito che doveva essere semplicemente il calore degli organi interni a contatto con l’aria fredda, ma mentirei se ti dicessi che l’idea dell’anima mi ha abbandonato del tutto.
Quando avevo undici anni ho trovato un cane randagio.
L’ho chiamato Bua, e per lui è stato un nome profetico. Avevo un mio posto privato in un cortile, capisci? Un posto dove andavo solo io. Oh, Bua è stato il mio dolce segreto per una settimana!
Ho imparato tanto da lui, se ci penso quasi mi commuovo. Cose su di lui, cose su di me, cose sulla cosa.
Dimenticavo, Bua era una cagna. Riesci a immaginare come la cosa mi abbia aperto altri mondi?]

Sette, morto che parla - 2

Ero certo che lui non potesse farci niente, ma questo non cambiava il fatto che quello che combinava era disgustoso.
Quella era la terza vittima che ritrovavamo ed io iniziavo ad essere piuttosto sulle spine.
Tutto era cominciato, dovrei dire, con un raccoglitore di funghi.
Non ho mai capito l’impulso di certa gente a svegliarsi ad orari antelucani, mettersi in macchina e, armata di bastone e cesto di vimini, scorrazzare all’alba per boschi umidi e inospitali.
Sarà che per me è impensabile scendere dal letto prima delle undici e mezza, ma lo trovo un segno di instabilità mentale.
Questa gente compie strani e barbari rituali. Hanno credenze ben oltre il limite della superstizione sui posti migliori dove cercare, uno spiccatissimo senso territoriale, la paranoia strisciante che qualsiasi altro essere umano nei dintorni voglia depredarli dei loro porcini e la convinzione che portare il raccolto all’ufficio d’igiene per farlo esaminare da un esperto sia segno di debolezza, forse di omosessualità latente.
Una cosa però bisogna ammettere. Per quanto la gente civile vivrebbe senza dubbio meglio alleggerita dalla loro presenza, i cercatori di funghi hanno una vista eccezionale. Nemmeno Sherlock Holmes riuscirebbe a cogliere con altrettanta perizia i mutamenti in un terreno, i piccoli segni di scavo, le minime irregolarità nella crescita del muschio.
Questo cercatore di funghi, tale Lelio Ammaniti, aveva notato qualcosa di insolito intorno alle cinque del mattino del 14 Aprile, mentre setacciava il sottobosco di una delle sue zone favorite, in stagione non ancora del tutto favorevole, subito dopo Aulla, sulla strada per Fivizzano.
Ammaniti, che procede naso a terra per non farsi sfuggire il più piccolo segno fungino, a un tratto si accorge di essere sopra ad uno scavo vecchio qualche mese. Uno penserebbe che per dire una cosa del genere serva un esperto di qualche tipo, magari un archeologo, ma di fatto l’Ammaniti è perfettamente in grado di fare una perizia completa del terreno nell’arco di mezzo sguardo.
Inoltre proprio nel mezzo dello scavo, c’è un enorme e lussureggiante esemplare di Boletus Aedilis. Ammaniti si impossessa del fungo e poi guarda meglio lo scavo con la sua super-vista da raccoglitore. Nota che è largo circa un metro e lungo circa due, bello preciso e rettangolare.
Ora, naturalmente Ammaniti guarda CSI come tutti gli altri.
Tira fuori il cellulare e chiama la polizia.

Sette, morto che parla - 1

[Alcuni numeri sono diversi dagli altri, gli antichi lo sapevano.

Hai letto tutta quella roba del Codice Da Vinci? Quello non si è mica inventato niente, altro che. Gli egiziani lo sapevano, i medievali lo sapevano anche loro. Non c’è un cazzo da fare: il tre, il sette, il ventitre hanno qualcosa di speciale.

Hai mai sentito parlare dei numeri primi? Ecco, quella è solo la punta dell’iceberg, credimi. Il quattro, il sei… senti come sono armonici? Pari, quieti, in equilibrio con il cosmo.

Alcuni numeri, invece, sono insoddisfatti. Alcuni numeri – non vorrei sembrarti melodrammatico –  sono cattivi.

È come se fossero in equilibrio tra questo mondo e l’altro. E l’altro mondo non è un posto gradevole, a me puoi credere, non è un posto dove vorresti passare il cazzo di week-end. Alcuni numeri, in alcuni momenti, sono come porte. Non sono porte per entrare, ma porte da cui possono uscire cose.

Io sono nato il 7 Luglio 1978. Il 7 del 7. E l’anno, 1978, guarda: 1 + 9 = 10, 10 + 7 = 17, 17 + 8 = 25, 2 + 5 = 7. Hai visto? Pazzesco, no?

Era uno di quei momenti e dentro di me è entrata una cosa.

Non posso farci niente.]