sabato 9 gennaio 2010

Tutte le femmine di Sherlock Holmes


Per rimorchiare, Sherlock Holmes usava sempre lo stesso metodo, mi diventò chiaro pochi mesi dopo il nostro trasferimento al 221B di Baker Street. Sebbene prima di iniziare la nostra convivenza avessimo messo in chiaro quali erano i nostri principali difetti, Holmes aveva evidentemente tralasciato di nominare i suoi burrascosi rapporti con il gentil sesso. Come ho già avuto modo di riportare altrove, Holmes aveva orrore dell’amore e di qualsiasi altro sentimento, ritenendo che le emozioni l’avrebbero messo in una posizione falsa e avrebbero finito per inceppare la macchina mirabilmente oliata che era il suo cervello.
Delle altre parti del suo corpo non sembrava tenere conto, almeno quando si trattava di fare conversazioni sincere e a cuore aperto con un possibile coinquilino, ma, come arrivai presto a comprendere, non dovevano essere meno oliate della sua incredibile mente.
Nei resoconti che in questi anni ho fatto delle sue imprese ho sempre taciuto, per pudore e per evitare ulteriori accuse di sensazionalismo, delle altre imprese alle quali mi capitò di assistere.
Ricordo perfettamente che nell’autunno del 1894 ci fu l’affaire della signora Tillman – o forse sarebbe più corretto dire l’affaire con la signora Tillman – che ebbe come conclusione le spese per la riparazione di tutte le finestre del nostro appartamento.
Nel 1888, solo pochi mesi dopo il caso il cui resoconto ho dato alle stampe con titolo Uno studio in rosso, una signorina di buona famiglia, ora consorte di uno dei membri più in vista del Parlamento e il cui nome non farò per prudenza, aspettò Holmes sotto casa con una rivoltella in mano e fu solo grazie al mio pronto intervento che il più grande detective di tutti i tempi non andò a esercitare nel regno dei più.
Dalla sua stanza, oltre ai rumori che ho spesso descritto – la musica talvolta inascoltabile del suo violino, gli scoppi delle reazioni chimiche e lo sporadico colpo di pistola – ne provenivano altri che non ho mai avuto il coraggio di descrivere.
Era mia convinzione che la vita personale del mio amico non dovesse mettere in ombra le sue grandi doti professionali e anche ora non sono affatto sicuro che darò mai alle stampe questo resoconto. Diciamo che lo terrò in un cassetto e se Holmes dovesse ricadere nelle vecchie abitudini glielo farò baluginare davanti agli occhi.
Era il 1890, e io ero da poco felicemente sposato con mia moglie Mary. Col matrimonio credevo di essermi lasciato per sempre alle spalle le notti in bianco e le imboscate sotto casa, ma era chiaro che mi sbagliavo.
Ricordo che era un pomeriggio piovoso, io e mia moglie avevamo ricevuto la visita di una coppia di conoscenti. Il dottor Crescent apparteneva al mio stesso club e sua moglie, Hanna, era diventata una buona amica di mia moglie. Fu per questo, credo, che quella sera Hanna si fermò in salotto con Mary mentre Crescent tornava a casa e io andai nel mio studio a cercare di fare un po’ di ordine nello schedario dei pazienti.
Holmes arrivò verso le cinque e mezza, portandosi dietro l’aria umida dell’esterno.
“Watson, mi chiedevo se avesse voglia di accompagnarmi in una gita fuori città,” esordì, superati i convenevoli (che nel suo caso comprendevano sempre qualche commento sul mio peso esatto).
Sapevo che quando diceva “gita” non immaginava un tranquillo fine settimana di passeggiate salutari e di rigenerante vita agreste.
“Non vedo particolari problemi,” risposi, giacché avevo aperto da poco lo studio e non avrei avuto difficoltà a farmi sostituire da un collega per i miei pochi pazienti.
Holmes si fregò le mani, stranamente soddisfatto, e mi diede appuntamento per l’indomani mattina a Baker Street. “Si porti il necessario per un paio di giorni,” specificò. “Ah, Mary,” aggiunse, vedendo entrare mia moglie, “la trovo in splendida forma”.
Dietro di lei c’era anche Hanna, che mia moglie presentò a Holmes come “signora Crescent”.
“E non trova scomodo servirsi da Grant, visto che abita a Kensington?” le chiese Holmes, distrattamente, mentre raccoglieva il cappotto. Hanna Crescent diventò di una più intensa sfumatura di rosa e spalancò gli occhi. “Ma come fa a sapere…?” balbettò.
Io alzai mentalmente gli occhi al cielo.
“Oh, non ci faccia caso. Sapere le cose che gli altri non sanno è il mio mestiere. Watson le può spiegare il mio metodo deduttivo, se dovesse interessarle”. Scusandosi per l’intrusione Holmes se ne andò.
Ovviamente quella poveretta di Hanna non mi chiese alcuna delucidazione, cosa che mi sollevò molto. Il negozio che aveva nominato Holmes era una corsetteria piuttosto costosa di Bond Street e non dubito che Anna non volesse indagare oltre sul modo in cui il mio amico aveva dedotto che lei era loro cliente.
Come dicevo, quello era il tipico commento d’esordio di Holmes, quando una signora risvegliava il suo interesse.
Quel fine settimana fu uno dei nostri tipici fine settimana di indagini. Notti appostati nella brughiera, molta umidità e un furfante consegnato alla giustizia. Hanna sembrava non aver mai attraversato i pensieri del mio amico, in parte perché quando lavorava su un caso ne veniva completamente assorbito, in parte perché le signore con cui intratteneva rapporti difficilmente occupavano la sua mente per più di pochi istanti.
Al mio ritorno a Londra scoprii che la mia vita professionale era più frenetica di quanto avessi sperato, così tra visite ai pazienti e incombenze domestiche non ebbi modo di vedere Holmes fino al lunedì seguente.
Mia moglie, a dire il vero, mi aveva inavvertitamente messo in guardia. Sabato mi aveva detto, durante una normalissima conversazione a cena, che la sua amica Hanna era rimasta molto colpita dai metodi deduttivi del mio ex-coinquilino.
Al momento non diedi particolare importanza alla cosa, dato che raramente quelli che incontravano Holmes non ne restavano colpiti.
Lunedì pomeriggio, dopo aver visitato l’ultimo paziente della giornata mi resi conto di avere un po’ di tempo per fare una visita al vecchio appartamento di Baker Street. Tornavo sempre volentieri a trovare Holmes, in parte per la nostra amicizia di vecchia data, in parte perché la sua vita avventurosa, ora che me ne ero allontanato, mi mancava.
Sfortunatamente Holmes non era in una delle sue giornate migliori.
La signora Hudson mi accolse con un marcato cipiglio di disapprovazione, altra cosa che avrebbe dovuto mettermi sul chi vive, non fosse stato che il cipiglio di disapprovazione era parte integrante della signora Hudson come i suoi capelli legati stretti e i vestiti color pastello.
Holmes era languidamente sdraiato sul divano, con lo sguardo perso e la pipa posata in grembo.
“Ah, Watson,” disse, vedendomi entrare, “noto che gli affari cominciano a ingranare”.
Era inutile domandargli come lo sapesse. Mi avrebbe spiegato in tono annoiato e didattico la semplice catena di deduzioni che gli aveva permesso di stabilirlo a partire dal fango sulle mie scarpe, dal bottone sul mio panciotto o dalla piega dei miei baffi.
“Io invece noto che è tornato alle sue vecchie abitudini,” risposi, in tono vagamente aspro.
Non c’era niente che abbattesse Holmes più dell’inattività. La sua mente aveva bisogno di continui problemi sui quali applicarsi, altrimenti piombava in uno stato di torpore sognante che inevitabilmente lo portava all’uso di cocaina. Sebbene nell’ultimo periodo egli avesse dichiarato di aver chiuso per sempre con quella sostanza, il mio parere di medico era che, almeno nella circostanza odierna, avesse mentito.
“Mi annoio,” disse, infatti Holmes, per niente preoccupato di essere stato colto in fallo. “In questa città non c’è niente che risvegli il mio interesse. Sembra che tutti gli abitanti di Londra abbiano deciso improvvisamente di diventare cittadini rispettosi della legge o di commettere crimini così insulsi e banali da non meritare la mia attenzione.”
“Ma senz’altro…” iniziai a replicare. In quel momento la porta della stanza di Holmes si aprì e ne uscì Hanna.
Vedendomi, si bloccò per un attimo, come se dovesse resistere all’impulso di ritornare precipitosamente nella camera da cui era uscita. Holmes non voltò neanche la testa.
“B-buongiorno, dottor Watson,” tartagliò, infine, lei. Stringeva la borsa così forte che le mani, prive di guanti, le erano diventate bianche.
“Buongiorno, Hanna,” risposi, in tono rassegnato, e scoccai un’occhiataccia a Holmes. Tanto sarebbe valso che guardassi un cubo di marmo. Holmes si sollevò lentamente su un gomito, allungò una mano verso la ciabatta persiana in cui teneva il tabacco e cominciò a ricaricare la pipa.
“E-ero venuta per un parere professionale,” disse del tutto inutilmente, Hanna, che sembrava bloccata sulla porta.
Le rivolsi un sorriso gentile. “Spero che abbia trovato una soluzione per il suo problema.”
A quel punto Hanna fece quello che facevano quasi tutte le signore che avevano a che fare con Holmes: diventò rossa di rabbia e si diresse a grandi passi verso le scale, esclamando: “Non esattamente, in effetti! Arrivederci, signor Holmes!”
E prima che uno di noi due potesse rispondere, aveva preso la porta ed era uscita.
Holmes finì di ricaricare la pipa, sfregò un fiammifero contro il lato del divano e accese.
“Ma insomma, Holmes!” sbottai, io, “non si vergogna? Una donna sposata!”
Holmes mi rivolse uno sguardo vuoto e distante. “Ah, già. Il dottor Crescent. Un oftalmologo, se non sbaglio. Un uomo assolutamente negato per il crimine, ritengo, e quindi per me privo di ogni interesse.”
Quando era in quelle condizioni parlargli era inutile, così me ne andai.
Quella sera chiesi a Mary, in tono assolutamente casuale, qualche informazione in più su Hanna. Come rivelava il suo aspetto, era una delicata gallese di una buona famiglia di esportatori. Si era sposata con il dottor Crescent qualche anno prima e pareva che il loro matrimonio, se pur non sorretto da un’ardente passione romantica, procedesse piuttosto bene.
Non c’era assolutamente niente che io potessi fare, quindi cercai di non pensare più alla questione e mi dedicai alle mie incombenze quotidiane.
Qualche una settimana più tardi andai a un concerto con Holmes e, dal modo in cui salutò la signorina Bierhoff nel suo palco - o forse sua madre, la signora Bierhoff, con Holmes non si poteva mai sapere - capii che Hanna era uscita dalla sua vita alla stessa velocità con cui vi era entrata.
Dato che, almeno che io sapessi, non c’erano stati aggressioni, lanci di oggetti o tentati linciaggi, supposi che la liaison fosse finita in modo tutto sommato indolore per entrambi.
Quello che accadde qualche giorno più tardi, quindi, mi colse del tutto impreparato.
Ero a casa di Holmes per un tè pomeridiano che si era rivelato, fino a quel momento, molto gradevole. Holmes mi aveva parlato della monografia sulle diverse polveri da sparo che stava scrivendo e io gli avevo raccontato del mio studio, che dopo un lungo periodo di rodaggio, stava finalmente decollando.
“Sta arrivando il nostro amico Lestrade,” disse, a un certo punto, Holmes. Visto che le tende erano aperte su una giornata invernale insolitamente mite, non mi chiesi come facesse a saperlo. Pochi istanti più tardi, comunque, la sua previsione si rivelò esatta, quando l’ispettore di Scotland Yard entrò nel salotto.
“Buongiorno, ispettore,” disse Holmes, di buon umore. “È sempre un piacere vederla. Gradisce un po’ di tè?”
Lestrade appoggiò il cappotto sullo schienale di una poltrona e si unì a noi per il rito pomeridiano, ma la sua espressione era tutt’altro che distesa.
“Sono venuto per sottoporle un caso che si sta rivelando un vero rompicapo,” disse, con aria aggrondata. Quando capitava che lui e i suoi uomini non riuscissero a risolvere un caso con le loro sole forze, Lestrade non era mai particolarmente felice di ammetterlo.
“Un vero rompicapo,” ripeté Holmes, deliziato.
“C’è una donna che è morta, apparentemente suicida, ma non riusciamo a trovare l’arma con cui si è tolta la vita.”
Holmes sembrò leggermente deluso. “Capisco,” disse. “Mi può raccontare come si sono svolti i fatti?”
“Il dottor Crescent, il marito della vittima…” iniziò Lestrade, ma io l’interruppi con un’esclamazione di sgomento.
Holmes e l’ispettore mi guardarono incuriositi.
“La vittima è dunque la signora Crescent?” chiesi, anche se conoscevo già la risposta.
“Sì,” rispose Lestrade, “la conosceva?”
Guardai Holmes, la cui espressione ignara, lo confesso, per un attimo mi fece venir voglia di strozzarlo. “È la moglie di un mio collega, il dottor Crescent, appunto. Hanna Crescent. Anche lei la conosceva, Holmes, se non sbaglio.”
A quel punto Holmes, di solito estremamente accurato nel ricordarsi i nomi di tutta la malavita londinese, fece il collegamento. Sembrò moderatamente colpito. “Ah, sì,” si limitò a dire.
Poi, forse rendendosi conto che le circostanze richiedevano un po’ di partecipazione in più, aggiunse: “Che sfortunata perdita.”
“Holmes!” esclamai io.
Lui mi osservò per un istante con aria pensierosa, prima di mormorare: “Tutto considerato, la mia valutazione iniziale sul dottor Crescent potrebbe anche essere stata inesatta.”
“Scusate, signori, ma io non ci capisco più niente!” sbottò Lestrade, innervosito. “Se permettete finirò di raccontarvi i fatti, poi potrete mettermi a parte delle vostre speculazioni.”
“Come stavo dicendo, ieri il signor Crescent è stato tutto il giorno fuori casa per lavoro, essendosi recato in visita da un paziente che vive fuori città, il signor Thorpe. È rincasato verso le otto e sua moglie, al contrario del solito, non è andata ad accoglierlo nell’ingresso. Sul momento non ci ha fatto caso. Si è tolto il cappotto e l’ha appeso su un sostegno accanto al camino, come fa tutte le sere. Il personale di servizio è a mezza giornata e quindi se n’era già andato. Crescent ha fatto un salto nel suo studio, che è all’interno dell’abitazione, e poi è andato a cercare la moglie. L’ha trovata riversa in camera da letto, in un mare di sangue, con i polsi recisi, e si è accorto immediatamente che era morta da alcune ore. Il personale di servizio lascia la casa verso le cinque del pomeriggio, quindi la morte dev’essere avvenuta in questo lasso di tempo. Il signor Crescent ha chiamato la polizia e al nostro arrivo l’abbiamo trovato in poltrona, in evidente stato di shock. Afferma di non aver toccato niente all’interno della stanza, ed è proprio questo il problema.”
“Nella stanza non c’erano coltelli o altri oggetti con cui la signora avrebbe potuto togliersi la vita,” disse Holmes.
“Esatto. Naturalmente abbiamo fermato il signor Crescent come sospettato, ma, se volete la mia opinione, dubito che quel poveraccio abbia qualcosa a che vedere con quanto è accaduto. Finché non abbiamo sollevato il problema dell’arma era certo che la moglie si fosse suicidata, anche se non riusciva a capirne il motivo.”
“Quindi, inizialmente, non pensava che si trattasse di un omicidio,” disse Holmes. “Interessante.”
“L’ho pensato anch’io,” confermò Lestrade. “Capita abbastanza spesso che i parenti delle vittime di suicidio alterino la scena in modo che si pensi a un delitto, ma questo non sembra il caso del signor Crescent.”
Io assistevo a questo scambio di opinioni con la mente oppressa da foschi presagi. Avevo pensato abbastanza spesso che la condotta di Holmes fosse irresponsabile, ma trovavo difficile credere che le conseguenze delle sue azioni potessero essere di queste proporzioni. Intanto che pensavo questo mi dicevo che i miei pensieri non erano quelli di un buon amico e che senz’altro i passati rapporti tra Holmes e Hanna non avevano niente a che vedere con quanto era accaduto.
“E il medico, naturalmente, ha confermato che la signora era morta prima dell’arrivo del marito,” stava commentando, intanto, Holmes.
“Proprio così. La poveretta era morta da almeno due ore quando siamo arrivati, ed era già fredda nonostante la casa fosse ben riscaldata, ha detto. Abbiamo preso in custodia tutti i coltelli della casa, ma come c’era da attendersi nessuno di questi mostra tracce di sangue.”
“Capisco,” disse Holmes, alzandosi di scatto. “Credo che sia meglio che andiamo a dare un’occhiata di persona.”
Gli accertamenti a casa dei Crescent non portarono sostanziali novità. La loro era una rispettabile casetta a due piani in zona Kensington, non dissimile da quella che dividevo io stesso con mia moglie. Il personale di servizio era composto da una cameriera e da suo marito, entrambi di una certa età.
Holmes si aggirò per la camera da letto e poi per l’intera casa con frustrazione crescente. Esaminò le macchie di sangue e affermò sarcastico che i poliziotti che erano intervenuti sulla scena del delitto si erano mossi con l’abituale grazia, il che significava che avevano cancellato ogni traccia utile.
Quando ormai pensavo che avesse finito le sue indagini, però, Holmes si chinò di scatto verso un punto poco distante dalle macchie di sangue sulla moquette.
“Ah!” si limitò a dire.
Poi estrasse una pinzetta da una tasca del suo grande cappotto e si allungò per afferrare qualcosa con essa. Si rialzò e mi mostrò la sua scoperta.
“Non è strano che sotto il piede di quel mobile ci fosse questo?” disse.
Si trattava di un frammento di carta e, obbiettivamente, non mi sembrava così strano che l’avesse trovato sotto al piede di un mobile. Probabilmente era stato usato come spessore. Lo dissi a Holmes.
“Una teoria interessante, Watson,” rispose lui, “se non fosse che questo mobile non traballa e che questo frammento di carta è stato strappato da un foglio più grande. O forse sarebbe più corretto dire che è stato il foglio cui apparteneva questo frammento a essere strappato via.”
Sinceramente la sua riflessione mi sembrava un sofismo bello e buono, una tattica per non pensare alla morte prematura di una donna che aveva conosciuto bene.
Non glielo dissi, ma la perplessità mi si doveva leggere in faccia, perché Holmes si limitò a intascare l’oggetto e ad aggiungere: “Bene. Bene. Credo che sia il caso di scambiare due parole con il medico legale.”
Arrivammo allo Yard che era ormai buio e il dottor Miles ci ricevette solo in virtù del fatto che faceva parte del mio stesso club. La sua accoglienza, tuttavia, non fu calorosa.
“Ah, signor Holmes. Ho sentito parlare di lei,” disse, in tono freddo, senza accennare a chiederci di sederci.
“Davvero? Per lei, quindi, non sarà una sorpresa apprendere che mi piacerebbe rivolgerle alcune domande sulla morte della signora Crescent.”
Lo sguardo di Miles si fece, se possibile, ancora più freddo.
“In fede mia, lei ha una bella faccia tosta,” disse. Poi rivolse al mio amico un sorriso patentemente falso. “Temo che il signor Crescent – che, casualmente, è un mio buon conoscente – mi abbia intimato di non darle informazioni di nessun tipo, né, tanto meno, di lasciarle esaminare il corpo.”
Normalmente Holmes non avrebbe preso un’affermazione simile con buon garbo, ma in quel caso si limitò a osservare il medico per qualche istante, prima di annuire seccamente e lasciare il suo ufficio.
Mentre una carrozza di strada ci riportava ognuno a casa sua, provai a fargli qualche discreta domanda, ma Holmes si era chiuso a riccio e si limitò a ignorarmi e a grugnire in modo infastidito.
Al mio rientro, come ci si può immaginare, trovai Mary sconvolta.
Non so chi le avesse detto della morte di Hanna, ma sicuramente ci sono voci che corrono più velocemente del telegrafo, perché quando arrivai sapeva già tutto.
“Che cosa orribile,” singhiozzò, tamponandosi gli occhi con un fazzoletto. “Una donna così giovane…”
Provai a rincuorarla con qualche commento di circostanza, ma la sua disperazione sembrava oltre ogni conforto. La sua amicizia con Hanna, ne ero certo, non era così profonda da giustificare una simile reazione, anche tenendo conto del carattere sensibile di mia moglie. Le chiesi se ci fosse qualcosa di cui mi volesse parlare.
Finalmente, dopo aver versato tutte le sue lacrime, Mary sembrò prendere la decisione di aprirsi con me.
“Mi rendo conto che è brutto parlare così di una persona morta…” iniziò.
La rassicurai dicendo che era importante fare tutto il possibile per assicurare il suo assassino alla giustizia.
“Oh, non riguarda questo… non strettamente, almeno,” disse lei. “Vedi, temo che Hanna fosse un’adultera.”
La guardai in silenzio, non esattamente stupito. Era chiaro che un’eventualità così comune non aveva mai sfiorato la mente dell’innocente Mary.
“Mi aveva confidato,” continuò lei, “di aver… insomma, intrattenuto rapporti con un uomo. Una persona meschina, a mio avviso, dato che l’aveva sedotta e poi non si era più fatto vivo. Naturalmente era tutto sbagliato fin dall’inizio, ma Hanna era disperata.”
Anche questo non mi era propriamente nuovo, ma non dissi niente.
“Provai a dirle che sicuramente quest’uomo si era reso conto che quello che avevano fatto era sbagliato e che per questo aveva deciso di non cercarla più. Ma, se devo essere sincera, non credo che la vera ragione fosse quella.”
“No, probabilmente no,” concordai.
Mary ricominciò a piangere. “Il fatto è, John, che Hanna era veramente disperata e mi disse che, se lui non fosse tornato… si sarebbe tolta la vita.”
Potete immaginare il mio orrore… e il mio dilemma.
Sapevo che avrei dovuto immediatamente informare Holmes della cosa, ma nello stesso tempo ero restio a metterlo a parte di quel che Hanna aveva detto, ecco – del fatto che Hanna, probabilmente, stava parlando di lui, quando aveva detto quelle cose a mia moglie.
Dormii malissimo, angustiato da mille pensieri.
All’alba mi vestii e sgusciai via di casa con la scusa di una visita mattutina a un paziente.
Il paziente, in realtà, era Holmes.
Quando arrivai a Baker Street, però, non potei parlargli subito di quel che, dopo mille ripensamenti, mi ero deciso a rivelargli.
Nel nostro salottino c’era Lestrade, e aveva un’aria decisamente cupa.
Holmes gli stava dicendo, nel suo solito tono impaziente, che la casa dei Crescent doveva essere perquisita da capo, lasciando chiaramente intendere che la prima volta non era stato fatto con scrupolo.
Sincero come suo solito, ammise che, in un primo momento, non aveva pensato alla soluzione più ovvia, anche se la verità era stata proprio di fronte ai suoi occhi.
“Insomma, se crede che le cose non siano state fatte nel modo corretto, venga con me a casa Crescent e si accomodi pure!” sbottò, alla fine, Lestrade.
Fu esattamente quello che facemmo.
Seguimmo nuovamente l’ispettore a casa del mio collega e Holmes la mise letteralmente sotto sopra.
“Dove può averlo nascosto?” lo sentii mormorare.
E poi: “Potrebbe averlo mangiato?”
Alla fine Holmes ammise che quello che cercava non si trovava in casa.
“Dobbiamo vedere immediatamente gli effetti personali del signor Crescent,” affermò. “Sperando che fosse tra gli oggetti che gli hanno ritirato in carcere.”
Né io né Lestrade avevamo idea di che cosa stesse parlando, ma l’ispettore decise di assecondarlo per l’ennesima volta.
Arrivammo allo Yard poco prima di mezzogiorno, ma a nessuno venne in mente di fermarsi a mangiare. Holmes seguì impazientemente l’ispettore al deposito degli oggetti dei detenuti, dove aspettò ancora più impazientemente che un addetto affatto solerte recuperasse la scatola con gli effetti personali del dottor Crescent.
Alla fine la scatola fu appoggiata davanti a Holmes.
“Un scontrino della lavanderia… irrilevante,” iniziò velocemente una cernita, lui. “Tre scellini e otto penny… un biglietto ferroviario – che tra l’altro conferma i suoi spostamenti… un orologio da tasca fermo che… ah, ecco!”
Holmes aprì con uno scatto l’orologio da tasca di Crescent, che fece una certa resistenza. Dentro, incastrato contro il meccanismo, c’era un foglio di carta ripiegato più volte.
“Eccolo qua,” disse Holmes, ma non era esultante come ci si sarebbe potuti aspettare.
“Be’, che cosa aspetta, lo apra!” lo incitò Lestrade.
Holmes ci guardò per un attimo e potrei giurare che, per un breve istante, il suo sguardo espresse senso di colpa allo stato puro. Poi, con ogni cautela, spiegò il foglio.
“Come immaginavo,” disse, dopo averlo osservato. “Non è stata uccisa, è stato suicidio.”
Disse le ultime parole con la gravità di una condanna a morte.
Posò il foglio sul ripiano e uscì dalla stanza senza aggiungere altro.
Sul foglio c’era scritto, in una grafia femminile disordinata:

Senza di lui non posso più vivere. Pongo fine alle mie sofferenze, chiedendo perdono a Dio e ai miei cari.
Hanna Crescent

“Come diavolo è finito dentro l’orologio?” sbottò Le strade, dopo aver letto il biglietto.
Scossi la testa. “Probabilmente il signor Crescent l’ha nascosto lì, dopo averlo preso da terra. Ma un angolo si era incastrato sotto un mobile, ed è così che Holmes ha saputo della sua esistenza.”
Non rimasi per ascoltare Lestrade che inveiva contro la maledetta abitudine di Holmes di condurre le indagini per conto suo.
Pur non avvicinandomi nemmeno all’acume del mio amico, capivo che dietro quel biglietto c’era più di quanto apparisse a prima vista.
Seguite il mio ragionamento: se il dottor Crescent sapeva della relazione di sua moglie con Holmes era probabile che avesse sottratto il biglietto con l’intento di far pensare a un omicidio. E quando, alla fine, avesse rivelato l’identità dell’amante della moglie era chiaro su chi si sarebbero appuntati i sospetti.
Forse non era un piano brillante, e forse non avrebbe funzionato, ma era chiaro che Crescent aveva provato a vendicarsi del torto subito.
Come ho già detto, non era la prima volta che a Holmes succedeva qualcosa del genere.
Arrivai a Baker Street subito dopo l’una e trovai Holmes – come c’era da aspettarsi – di umore melanconico.
“Che accidenti di situazione,” ammise, spontaneamente.
Non avrei voluto dirgli niente, ma anche nella sua condizione di prostrazione emotiva, era difficile nascondergli qualcosa. Semplicemente lui mi lanciò un’occhiata penetrante e mi disse di sputare il rospo. Gli raccontai quello che mi aveva confidato mia moglie.
Holmes ascoltò il mio racconto in silenzio, poi, sempre in silenzio, prese il violino e si chiuse in camera sua. Subito dopo iniziai a udire una di quelle romanze zigane e melanconiche che erano tipiche dei suoi momenti di sconforto.
Aspettai fino alle cinque del pomeriggio, preoccupato per il suo stato mentale.
Holmes poteva essere incredibilmente superficiale, ma non era un uomo che scuotesse le spalle di fronte alle disgrazie. E, anche se non l’aveva detto, sapevo che era profondamente colpito e dispiaciuto. Avevo provato a fargli notare che, sebbene si fosse comportato in modo leggero, per usare un eufemismo, la salute mentale di Hanna doveva già essere decisamente disturbata, perché si spingesse ad uccidersi.
Holmes aveva annuito in silenzio e, come ho detto, si era chiuso in camera sua a suonare il violino.
Credo che sarei rimasto lì, a vigilare su di lui, fino a notte fonda o anche più tardi, se alle cinque non fosse arrivato un ospite.
La signora Hudson annunciò che c’era una cliente e io pensai che un nuovo caso avrebbe distolto Holmes dai suoi tristi pensieri.
Bussai alla sua porta per annunciargli la visita.
“La mandi via, Watson!” gracchiò Holmes – e giurerei che la sua voce fosse rotta.
“Ma come, Sherlock,” disse una voce femminile, alle mie spalle, “nemmeno la mia morte ti ha convinto a ricevermi?”
La porta si aprì di scatto, mentre mi voltavo verso la voce, completamente stupito.
Là, sulla soglia, c’era una Hanna Crescent in perfetta salute, con i capelli raccolti ordinatamente in un cappellino alla moda e un vestito color malva.
“C-come…?” tartagliai io.
Lei emise una risata cristallina. “Oh, temo che le notizie sulla mia morte fossero leggermente esagerate.”
Mi voltai verso Holmes, che era rimasto immobile sulla soglia della sua camera. Aveva un’espressione che potrei soltanto definire “attonita”. Al mio contrario, però, si riprese velocemente e, appoggiando il violino sulla mensola del camino, andò a sedersi in poltrona e iniziò a caricarsi una pipa con tutta calma.
“Mi sembri in ottima forma,” commentò, alla fine, in tono blando.
Hanna rise di nuovo. “Non c’è niente come uno scherzo ben architettato per ritrovare il buon umore.”
“Davvero,” disse Holmes. Si accese la pipa e tirò una boccata. “Ho solo una domanda…”
“Solo una?” sbottai io. “Per quanto mi riguarda ne ho ben più di una! Mia moglie è stata molto triste per la sua perdita, Hanna.”
Continuavo a guardarla e confesso che se fosse venuto fuori che quella che avevo davanti era una sosia della nostra amica di famiglia, non mi sarei stupito più di tanto.
“Ah, ma è molto semplice, Watson. Un trucchetto ben congegnato, davvero. La nostra Hanna, qua, ha pensato bene di fingere la sua morte con la complicità di suo marito.”
“Ma-ma… e il dottor Miles?”
Holmes inarcò le sopracciglia. “Se il dottor Miles è socio del suo stesso club, ne consegue che sia socio anche dello stesso club del dottor Crescent, non è vero? Credo che siano in ottimi rapporti, visto che la falsificazione di un rapporto non sarà trovata… umoristica, a Scotland Yard. Oltre al fatto, ovviamente, che fingere che sia stato commesso un reato è reato a sua volta.”
Hanna si strinse vezzosamente nelle spalle. “Oh, Miles è un vecchio amico di famiglia. E qual’era l’unica domanda, Sherlock?”
Holmes diede un altro tiro alla pipa.
“Mi stavo soltanto chiedendo,” disse, alla fine, “se l’idea di incastrarmi per il tuo omicidio fosse farina del tuo sacco.”
Sulla fronte di Hanna si disegnò una piccola ruga. “Temo che sia stata un’idea di Mark.”
“Non sono mai stato presentato al dottor Crescent, ma immagino che Mark sia lui.”
“Credo che se tu fossi finito in prigione per qualche giorno non gli sarebbe dispiaciuto:”
“Un’ottima idea, in ogni caso. Ha aggiunto… sale, a tutta la faccenda,” affermò Holmes. “Certo, c’era qualche piccola imperfezione. La mancanza dell’arma del suicidio, per dirne una. Ma l’abituale incompetenza dello Yard ha supplito egregiamente a questi piccoli errori di pianificazione. E immagino che la tua impersonificazione di un cadavere sia stata molto convincente,” concluse, leggermente sarcastico e, alzandosi, andò ad aprire la porta per la sua ospite.
Lei fece un sorrisino compiaciuto, si aggiustò il cappello e fece per uscire.
“Solo una cosa,” disse Holmes. Si chinò verso di lei e le sussurrò qualcosa all’orecchio.
L’espressione compiaciuta scomparve dalla faccia di Hanna, per lasciare posto a un vago cipiglio.
“Una valutazione errata,” disse, un po’ bruscamente, e uscì.
Holmes richiuse dolcemente la porta dietro di lei.
“Un’altra importante lezione sul genere femminile,” commentò Holmes, filosofico, riferendosi all’altra donna l’aveva messo nel sacco.
Forse Hanna Crescent aveva modificato una volta per tutte le sue idee sul genere femminile, visto che in seguito a questa vicenda Holmes iniziò ad adottare un comportamento molto più prudente nei confronti del gentil sesso.
Le abitudini di Holmes mutarono drasticamente e se continuò a tenere in esercizio le sue doti non-intellettuali lo fece con mirabile prudenza e discrezione, perché io non ne seppi più niente.
Mia moglie decise di interrompere qualsiasi rapporto con i signori Crescent e devo dire che la cosa mi procurò un certo sollievo.
Il caso della presunta morte di Hanna Crescent, da allora, resta nei miei archivi, sotto forma di accurate note, e se un giorno verrà pubblicata significherà che Holmes è ricaduto nelle vecchie abitudini.
In quanto a quell’ultima frase che sussurrò a Hanna in quello che sarebbe stato il loro ultimo incontro, per vari mesi mi chiesi quale fosse stata.
Solo qualche anno dopo fu Holmes stesso a risolvere l’enigma quando, all’interno di una conversazione su tutt’altro argomento, commentò: “Come chiesi una volta a una signora che avevo conosciuto: perché tradire un uomo che è disposto a fare qualsiasi cosa per te?”.

FINE

giovedì 24 dicembre 2009

Black Christmas

Era il 22 dicembre. Sensi era preoccupato, angustiato e infelice. “Infelice” era il suo standard, ma “angustiato” e “preoccupato” erano due novità natalizie. O meglio, erano il suo standard natalizio.

Sedeva, depresso, alla sua scrivania, quando entrò Mainardi. Erano le quattro del pomeriggio, il cielo, fuori, da qualche parte dietro le tende, era già così scuro che le tende in realtà erano inutili.

“Capo?” disse l’ispettore, in tono guardingo. Mainardi era un poliziotto assolutamente mediocre, ma c’era almeno una cosa in cui eccelleva: capiva sempre quand’era il caso di stare alla larga dal commissario. Visto che il commissario era Sensi, quest’eventualità era tutt’altro che rara, quindi non si poteva dire che Mainardi non avesse modo di esercitarsi.

“Sì?” rispose Sensi, infatti, senza alzare lo sguardo dallo schermo del computer.

“Un suicidio,” riportò Mainardi, telegrafico.

“Un altro?”

“Periodo natalizio, sai com’è.”

Sensi sbuffò, sempre senza sollevare gli occhi dal monitor. “Potrei iscrivermi anch’io al club. Sarebbe sempre meglio di infilare chiavi di ricerca a caso su e-Bay sperando di imbattermi in qualcosa di adatto.”

Quindi, ragionò Mainardi, la disperazione odierna del capo era di tipo natalizio.

“Ci sono anche un paio di liti domestiche,” cercò di risollevargli l’umore. “E una donna ha teso un agguato sulle scale al marito, colpendolo con un abete.”

Sensi sollevò brevemente lo sguardo. “Abete? No, ne avrà già comprato uno,” concluse.

“Se posso permettermi… per chi è il regalo?”

Sensi si alzò e si infilò la sdrucita giacca di pelle nera. Visto che fuori c’erano sì e no tre gradi uscire con solo quella addosso a Mainardi sembrava un ottimo modo per mettere fine alle proprie sofferenze.

“No, non puoi,” rispose Sensi e raccolse dalla scrivania le chiavi della macchina. Mainardi colse una distinguibile traccia di ostinazione nella depressione dell’altro, segno che il commissario era deciso a risolvere da solo i propri problemi.

Lo vide dirigersi verso l’ascensore con aria distratta, imperturbato dal suicidio e dalle liti domestiche.

Quando Sensi aveva deciso di inoltrarsi nella calca pre-nataliza, sapeva benissimo che si stava infliggendo la peggiore delle punizioni. Le strade erano costipate di veicoli, macchine pieni di bambini urlanti o single nevrotici, station-wagon che vagavano qua e là come le palline di un flipper, senza una destinazione precisa, camioncini delle consegne con autisti ben oltre la crisi di nervi e trentenni sprezzanti del freddo che, con i loro motorini, cercavano di infilarsi tra le macchine, coperti da sopra-indumenti di goretex.

Non pioveva, il che, per Spezia, era praticamente un miracolo. Naturalmente, avrebbe piovuto la notte di capodanno.

Sensi, imbozzolato nel suo wrangler con riscaldamento al massimo, iniziò la ricerca del parcheggio dai posti più improbabili, sapendo perfettamente che i posti probabili erano già stati occupati ore prima. Era possibile che ci fossero dei compratori natalizi che campeggiavano ai giardini dal 19, per essere sicuri riuscire a procurarsi tutti i regali della loro lista.

Dopo aver verificato che il parcheggio più vicino al centro era quello sotterraneo della questura dal quale era partito un’ora e mezza prima, il commissario rimise la macchina al suo posto e uscì a piedi.

Fuori la temperatura era calata di un paio di gradi e adesso era prossima allo zero. Sensi si strinse meglio attorno al collo la kefiah tinta di nero. Se avesse stretto un altro po’ i regali di Natale non sarebbero più stati una priorità.

Si avviò a passo di marcia verso il centro, camminando deciso in mezzo alla pista ciclabile che fiancheggiava viale Italia e arrivava fino ai giardini. Dopo meno di un minuto fu quasi investito da un ciclista intirizzito, che gli scampanellò furiosamente. Il ciclista, notò Sensi, aveva due o tre buste-regalo appese ai manici della bici.

Dopo meno di un quarto d’ora era in piazza Verdi, dimostrazione che il clima rigido migliorava le performance atletiche anche dei sedentari più irriducibili.

La piazza scintillava di luminarie natalizie di dubbio gusto. La gente si accalcava alle vetrine dei negozi come se oltre i vetri avessero regalato cocaina. Una bambina molto piccola gridava “Vojo quelo!” così forte che Sensi fu tentato di comprarglielo lui, qualsiasi cosa fosse.

Ma non si doveva distrarre.

Dopo tutto, aveva una missione.

La missione, ovviamente, era il regalo per Carmel, la sua barista del cuore o, quanto meno, se non proprio del cuore, almeno di un’altra sua parte altrettanto vitale.

Aveva già sbrigato la formalità dei regali alla sua squadra nel solito modo. Tudini era il più facile. Bastava entrare in un negozio di cravatte e chiedere al commesso la cravatta meno originale che aveva nel negozio, quella con l’accostamento di colori più scialbo, quella che avrebbe rifilato a un prete cieco. Sensi se ne era procurata una il 18 e l’aveva messa in un cassetto della sua scrivania, ben sapendo che Tudini non avrebbe mai osato aprire uno dei suoi cassetti.

Anche Mainardi era un gioco da ragazzi. Se accoppiavi video-games e calcio in un modo qualsiasi, il risultato, per Mainardi, era sempre soddisfacente. Bisognava solo fare attenzione a non comprarne uno che aveva già, ma Sensi aveva scoperto da tempo qual’era il suo rivenditore di fiducia, quello dove comprava tutti i suoi videogame, e da lì in poi non era più stato un problema.

Con la Riu era diverso, ovviamente. Con la Riu era sempre diverso.

Innanzitutto, Sensi le avrebbe volentieri regalato un chilo di tritolo con la miccia innescata. L’ispettrice condivideva questo sentimento e infatti, da anni, ogni Natale regalava al commissario un paio di calzini neri. Solo un paio di calzini neri.

Sensi, che non era un gotico osservante fino alla biancheria intima, ringraziava e fingeva di trovare i calzini neri un regalo originale e confacente.

Di solito ricambiava con la stessa malignità, con regali accettabili, ma sottilmente insultanti. Quell’anno era sicuro di essersi superato: le aveva regalato uno spazzolino da denti elettrico.

Comunque, fondamentalmente il suo problema principale rimaneva… che cosa regalare a Carmel?

Risalì lentamente la stretta via del Torretto, ora illuminata ad oc per dare l’impressione che le mura di pietra e la tortuosità della strada fossero fasulle, ricreate per i turisti degli anni 2000. Man mano che si avvicinava a piazza del Bastione il numero di pedoni per metro quadrato aumentava.

In piazza Sant’Agostino si infilò nel primo negozio di intimo che vide.

Sensi non era un assiduo frequentatore di quel genere di negozi, ma era piuttosto sicuro che durante il resto dell’anno si riuscisse a entrare senza dover spintonare signore in vari stadi della menopausa e signori dall’aria confusa e leggermente eccitata. Ma effettivamente, visto che Sensi le mutande e i calzini le comprava dove capitava, di solito dai cinesi, non era in grado di giudicare.

Si guardò un po’ attorno e si rese velocemente conto che da solo non poteva farcela. Si diresse verso la più vicina commessa, rassegnato, e si mise in coda dietro la cinquantacinquenne che si stava comprando un body di pizzo cercando di dare a intendere che era per un’amica della sua stessa taglia. Sensi osservò la cinquantacinquenne con occhio critico e decise che sarebbe stata meglio con un body di raso o qualcosa del genere, ma visto che nessuno aveva chiesto il suo parere se ne rimase in silenzio.

Quando ebbe finito con la signora la commessa di rivolse a lui. Aveva la faccia di un cavallo.

“Posso aiutarla?” iniziò, con un sorriso standard.

“No, deve. Avrei bisogno di un completino, un… mutande-reggiseno, giusto?”

La commessa sorrise di nuovo, ma questa volta sul serio. “Se non lo sa lei.”

Sensi fece un gesto vago nell’aria. “L’idea generale è quella. Come fare?”

“Per prima cosa, quanti anni ha questa signora?”

Sensi la guardò in silenzio per qualche secondo. Fece un paio di calcoli mentali.

“Circa trenta,” disse alla fine.

“Immagino che se le chiedessi la sua taglia la metterei in difficoltà.”

“No, perché? Ho la quarantaquattro.”

“Della signora,” specificò la commessa, nascondendo sufficientemente bene lo sguardo che diceva: smidollato.

Sensi sorrise. Fece un passo indietro. Osservò la commessa. “Ha le tette un po’ più grosse delle sue, ma il sedere più o meno della stessa taglia”. La commessa gli lanciò un’occhiataccia. “Cerchi di capire, sono disperato,” ammise prontamente Sensi. I patetici sfigati risvegliano il senso materno sopito in ogni donna (Riu a parte), era una cosa che aveva capito da un pezzo.

La commessa sospirò. “Be’, almeno ha un idea del colore?”

Questa volta il commissario era preparato e non si fece cogliere alla sprovvista. “Il colore di cosa?” domandò.

“Del completo.”

“Ah. Non nero. Sa com’è, quello vestito di nero sono io.”

La commessa lo scansionò da capo a piedi, poi girò sui tacchi e andò a frugare in una cassettiera, passò accanto a un espositore e infine raccolse qualche gruccia qua e là.

“Che ne dice di questo?”

Era un completo bianco, di pizzo, con mutandine minuscole e coppe imbottite.

“Cielo,” disse Sensi.

“Le piace?” chiese la commessa, speranzosa. Sensi inclinò la testa da un lato e provò a immaginare Carmel con quello addosso. Obbiettivamente era difficile trovare un capo d’abbigliamento che Carmel non fosse in grado di valorizzare, anche se Sensi trovava che valorizzasse meglio la maggior parte dei capi togliendoseli.

“Se no abbiamo questo. Molto elegante, molto semplice.”

Sensi osservò il completino di raso color panna.

“È sicuramente semplice,” ammise.

“Ok, lei non è un tipo semplice, dovevo capirlo subito. Resti fermo lì.”

“Perché non sono un tipo semplice?” le gridò dietro Sensi, mentre lei scompariva tra gli scaffali.

Tornò con una grossa scatola. “Perché lei non vuole un completino, lei vuole questo!” rispose la commessa, trionfale. Dentro la scatola c’era una cosa. All’occhio profano del commissario somigliava a una via di mezzo tra un bustino ortopedico e una camicia di contenimento, ma osservando meglio si notavano dei dettagli che quasi sicuramente non c’erano né nei busti ortopedici né nelle camicie di contenimento.

“Sarebbe una guepiere,” provò a indovinare.

“Esatto. È questo che vuole, glielo leggo in faccia. Da quant’è che, insomma, è fidanzato con questa signora?”

“Un po’,” si tenne sul vago lui, che non ricordava con esattezza quand’era stata la prima volta in cui era riuscito a portarsi a letto Carmel. Dietro di lui una signora cinquantenne lo guardò malissimo.

“Forse aggiungere anche queste sarebbe troppo esotico?” chiese la commessa, posando un secondo oggetto sopra al primo. Sembravano solo degli slip molto, molto piccoli.

“Be’, volendo…” iniziò Sensi. “No, aspetti… oh, no. Carmel mi ammazzerebbe. Credo che quello spacco davanti non verrebbe interpretato in chiave ludica.” Il suo cellulare emetteva da un po’ la sua lugubre musichetta, solo che tra la confusione del negozio e la guepiere, Sensi non ci aveva fatto caso. “Scusi un attimo,” disse, rispondendo. “Sì?”

“Capo, hanno ucciso Babbo Natale,” andò velocemente al punto Mainardi.

“Mi sembra un’ottima notizia. Contatta subito la polizia finlandese e passagli il caso.”

La commessa, intanto, stava chiaramente per servire la cliente successiva. Sensi le fece cenno che la guepiere andava bene e lei iniziò a rimetterla nella scatola.

“Non quel Babbo Natale, capo. Un Babbo Natale. Polacco, in effetti.”

“Ti sei per caso informato presso il consolato polacco…” iniziò una manovra disperata Sensi.

“L’ispettrice Riu, dice…”

“Che sto per arrivare, lo so. In effetti non saprei bene come, però, sono a piedi.”

La commessa, intanto, lo precedeva verso la cassa, batteva velocemente uno scontrino, gli mostrava un prezzo mostruoso sul display e gli chiedeva se pagava in contanti o con una carta. Sensi tirò fuori il bancomat.

“Il corpo è ancora in loco, in via Colombo più o meno all’altezza delle poste.”

“Ok, arrivo.”

Sensi chiuse la telefonata e guardò la commessa. “Le farà piacere sapere che quello del mio conto corrente non è stato l’unico decesso stasera.”

Lei si limitò a sorridergli dolcemente, con viso cavallino.

***

Il morto era vestito da Babbo Natale, questo si vedeva subito. Il sangue che gli era uscito da una larga ferita su una tempia era di una tonalità appena più scura di quella del travestimento.

Sensi, con in mano il sacchetto della costosissima guepiere, cercò di abbracciarsi per vedere se riusciva a non morire surgelato nei dieci minuti successivi.

Il dottor Sforza, il medico legale, aveva addosso un piumino tre o quattro volte più grande di lui, che doveva tenerlo ben al caldo. Era color crema. Se solo i gotici avessero iniziato a indossare piumini color crema, Sensi avrebbe scelto quello.

“Mi faccia indovinare… corpo contundente,” disse.

“Già. Morto da non più di un’ora. Ma data la zona centrale, credo che l’abbiano visto quasi subito.”

“Altre importanti considerazioni medico-legali da aggiungere?”

“Lei è nella prima fase dell’ipotermia.”

“Forse anche nella seconda, così a braccio. Se possiamo smontare la baracca e trasferirci, diciamo, in quel pub là, credo che le indagini ne trarranno giovamento.”

Il medico fece spallucce – o qualcosa del genere, non era molto facile capirlo sotto il piumino. La Riu grugnì. Anche lei, notò Sensi, era perfettamente coperta.

Gli cadde sul naso un fiocco di neve.

“Fantastico,” borbottò.

“Capo, nevica!” esclamò Mainardi.

In quel momento, per fortuna, la berlina grigia di Tudini accostò al marciapiede. Lo scimmiesco vice di Sensi scese dalla macchina con calma, aprì un ombrello a scacchi marroni e diede un’occhiata al cadavere e ai presenti.

“Ermanno, forse dovresti andare a casa. Sei quasi dello stesso colore del morto.”

L’ispettore capo Tudini mancava completamente del senso dell’umorismo, quindi se diceva che Sensi era quasi dello stesso colore del morto doveva trattarsi di un dato oggettivo.

“Probabilmente è stato investito da una macchina, lo sapete, sì?”

“Era la mia prima ipotesi,” spiegò la Riu. “È davvero di un colore impressionate.”

“Inizio a crederci. Inoltre non mi sento più le dita.”

Mainardi allungò il collo verso il pacco che stringeva il commissario. “Ti si sta anche bagnando quello,” disse. “Sembra un regalo,” aggiunse, non avendo il coraggio di domandare direttamente se era lo stesso regalo sul quale aveva già ficcanasato qualche ora prima.

“Non mi dire che l’hai capito solo dalla carta colorata,” rispose l’altro, acido. Poi pensò che in fondo era quasi Natale e che poteva anche provare a fare uno sforzo di civiltà, come diceva sempre il Presidente della Repubblica. “È il regalo per Carmel. Mi hanno dissanguato.”

“Da Tucci vendono cose interessanti,” commentò la Riu, osservando il nome del negozio sul sacchetto. Sembrava che il Babbo Natale morto per terra fosse passato in secondo piano. “Non le avrà mica comprato un completo intimo, vero?” aggiunse.

Sensi fece la sua migliore faccia indignata. “Chi? Io?”

“È così banale…” sospirò la Riu.

“Le ho comprato un pigiama,” dichiarò Sensi, orgoglioso. La faccia della Riu espresse chiaramente il suo punto di vista sul pigiama.

“Se posso permettermi…”

“Mie indicazioni contrarie non l’hanno mai dissuasa.”

“…dovrebbe regalarle qualcosa di più, come dire, impegnativo. Vi frequentate da un sacco di tempo…”

Sensi aprì la bocca per protestare, ma Mainardi lo precedette: “Le donne e gli anelli!”

L’espressione di Sensi passò dallo stupore all’orrore. Era vero che una volta aveva quasi, ecco, più o meno, diciamo indirettamente, chiesto a Carmel di… ma stava scherzando, era stato chiarissimo per tutti e due.

“Anelli? E chi ha parlato di anelli? Io intendevo una borsa,” spiegò la Riu. “Una costosa borsa di marca. Ecco cosa.”

Sensi la guardò in silenzio per un minuto buono.

“Vado a casa,” annunciò.

Se fosse rimasto all’aperto ancora per qualche minuto si sarebbe trasformato nell’unico pupazzo di neve magro della storia.

***

Frugò nell’armadio fino a trovare un cappotto pesante. Certo, sembrava il cappotto di un ussaro – tranne che per il fatto che era nero, ovviamente – ma sarebbe servito a non farlo assiderare.

Lasciò il costoso e inutile regalo per Carmel sul divano e chiamò in questura per farsi venire a prendere da una volante.

Questo babbo natale morto non ci voleva proprio. Aveva cose molto più delicate di cui occuparsi, tipo il regalo di Carmel.

Nel corso degli anni Sensi aveva provato un po’ tutto, a volte anche con notevole sforzo immaginativo.

L’anno precedente pensava di aver trovato un’idea pressoché perfetta, ma le cose non avevano funzionato molto bene, per usare un eufemismo.

Il Natale precedente, in effetti, era stato un disastro: qualcuno aveva bussato alla sua porta mentre aspettava Carmel, e ci era mancato poco che Sensi aprisse alla signora Vittori con solo un nastro rosso legato attorno al collo. La signora Vittori aveva iniziato a lamentarsi del rumore della musica – niente di nuovo in questo – e Sensi, da dietro la porta, aveva cercato disperatamente di convincerla ad andarsene, sempre con addosso solo un nastro rosso attorno al collo. Poi era arrivata Carmel e Sensi aveva insistito che la Vittori se ne andasse, ma lei aveva iniziato a lamentarsi anche con Carmel, che, intanto, continuava a chiedergli perché non potesse aprire la porta. Quando alla fine quell’orrida donna se n’era andata, Sensi era stato così depresso che da regalo di Natale personificato arzillo si era ormai trasformato in un regale di Natale personificato floscio.

Carmel aveva alzato un sopracciglio con aria scettica e Sensi si era limitato a borbottare che il mondo era un luogo peggiore di quanto immaginasse.

Quest’anno non si sarebbe messo nessun nastro attorno al collo, poco ma sicuro. Non era neanche dignitoso, cosa alla quale, obbiettivamente, avrebbe già dovuto pensare l’anno precedente.

Il problema, chiaramente, era che un completo intimo non era un regalo “ideale”, era un regalo “banale”.

La volante che lo doveva prelevare finalmente arrivò e Sensi accantonò momentaneamente il problema. La nevicata era aumentata d’intensità e le strade si erano relativamente svuotate. Relativamente, perché, se è il 22 dicembre e devi ancora comprare quindici regali non c’è nevicata che tenga – questo, probabilmente, era quello che pensavano i pedoni residui, che avevano tutti un’aria angosciata e non certo per la neve.

Negli uffici della squadra mobile, Tudini cercava di aprire un fascicolo sul babbo natale morto. Di solito di queste formalità si occupava la Giusti, ma ora la Giusti era in vacanza e l’unico che avesse una mente adatta per quel genere di incombenza era Tudini.

Intanto la Riu compendiava i punti salienti del caso.

“Gregor Smutien, nato a Varsavia 38 anni fa, passaporto polacco, carta d’identità italiana. Per il momento questo è tutto quello che sappiamo di lui, a parte il fatto che è morto.”

Sensi si sedette sulla scrivania vuota della Giusti. “Come mai era vestito da idiota?” chiese, iniziando a sfilarsi il cappotto da ussaro.

“Questo è strano, capo,” intervenne Mainardi. “Strano quasi quanto la tua giacca. Pare che non fosse sul libro paga di nessuna delle compagnie che forniscono Babbi. Che poi, a Spezia, sarebbero solo due. Devo ancora informarmi con i privati e le compagnie fuori dalla provincia.”

“Che razza di compagnia si occupa di fornire Babbi?”

“Organizzatori di eventi. Hanno delle liste di persone a cui attingere per ogni genere di impersonificazione: Babbi Natale, Befane, Streghe di Halloween, personaggi per le feste a tema, clown…”

“Ok, credo di aver capito. Quindi il nostro Gregor non era un Babbo ufficialmente assunto. Questo mi fa venire in mente due possibilità: o si era travestito da Babbo perché la barba gli copriva molto comodamente la faccia…”

“Come nel caso di un rapinatore,” interloquì la Riu.

“…o era un povero sfigato che stava andando a casa travestito da stronzo per far divertire gli amichetti del figlio. Chi è andato ad avvertire la famiglia?”

Tudini, che stava prendendo laboriosamente nota della riunione sul computer della Giusti, alzò la testa. “L’agente Rosaio. Dovrebbe essere qua a momenti. Immagino che la neve non aiuti la viabilità.”

A Spezia, pensò Sensi, c’era ben poco che aiutasse la viabilità, a cominciare da un piano urbanistico che si basava su dei viali ci circonvallazione in una città a forma di elle. “In effetti non sarebbe il primo rapinatore a coprirsi la faccia con un travestimento. Dopo la rapina i ladri si danno alla fuga, ma uno viene investito da una macchina, o viene colpito alla testa con una chiave inglese da uno dei complici, o scivola sull’asfalto bagnato, quella che volete voi. Personalmente, la terza è la mia preferita. L’asfalto bagnato è un problema dei vigili urbani. Comunque… ci sono stati furti di una certa entità, oggi?”

Tudini ticchettò sul computer, con tutta la velocità che gli consentiva la sua digitazione bi-dito.

“Niente di grosso, Ermanno.”

“Potrebbero aver litigato prima del colpo,” commentò la Riu.

Le porte dell’ascensore si aprirono e comparve un agente in divisa dall’aria nera e dal cappello sporco di neve. “Signore…” disse, rivolto a Tudini, “sono andato a controllare l’indirizzo che mi ha segnalato, signore…”

“C’erano un branco di bambini che si chiedevano dove fosse papà-natale?” disse Sensi.

L’agente lo fulminò con lo sguardo. Probabilmente il cappotto da ussaro appoggiato accanto a lui non aumentava la sua credibilità. “Non c’era proprio nessuno, signore. L’indirizzo che mi ha dato l’ispettore non esiste.”

***

Nevicava. A Spezia non nevicava mai, eppure stava nevicando. Grossi fiocchi bianchi e bagnati si spiaccicavano sul parabrezza della jeep di Sensi. Le strade erano scivolose e sporche di bianco. Se continuava in quel modo, l’indomani mattina la città sarebbe stata paralizzata.

Non ci voleva molto a paralizzare Spezia.

Sensi guidava lentamente lungo viale Amendola, osservando distrattamente i platani innevati e spogli. Un paio di trans si guardavano attorno con aria abbattuta, osservando la complessiva carenza di auto per strada, che contenessero possibili clienti o meno.

Sensi svoltò per via Garibaldi e girò verso il quartiere umbertino. Piazza Brin era deserta, con la fontana che spruzzava acqua in mezzo alla neve. Sotto i lampioni i coni di luce illuminavano la moltitudine splendente dei fiocchi. Sensi fece il giro attorno all’isolato del bar e accostò in doppia fila in via Gramsci, sotto il portone di Carmel.

L’aveva chiamato quando stava per tornare a casa e passarla a prendere per lui non era certo un problema. Non sarebbe stato certo un problema neanche se lei fosse stata su Alpha Centauri, probabilmente.

Lei scese dopo qualche minuto, avvolta in un gigantesco piumino azzurro dalle maniche e dal collo pelosi. Sensi, coi capelli imbiancati dalla neve, sorrise. Le aprì persino la portiera.

“Non l’avevo mai vista, la neve,” disse Carmel, chiudendo l’ombrello. “È frio,” aggiunse, alzando la manopola del riscaldamento. “Che raza de capotto hai?” aggiunse, alla fine, visto che lui continuava a guardarla in silenzio come uno scemo.

“Non so. Con la giacca di pelle stavo congelando. Vuoi che ti porti un po’ in giro nella neve?”

Carmel socchiuse gli occhi. “De solito l’unico posto in cui vuoi portarme è il tuo letto.”

Lui le fece l’occhiolino. “Quello va da sé. Ma, vedi, era parecchio che anch’io non vedevo la neve.”

“Da noi non succede mai,” disse Carmel, stringendosi nelle spalle. Sensi immaginava che, in effetti, a Santo Domingo nevicasse ancora meno che a Spezia. Si immise in una via Gramsci deserta, scendendo verso il mare senza fretta.

“A Gorizia nevica abbastanza spesso,” disse. Poi aggiunse: “Anche a Torino.”

“Oh, complimenti per la comunicati…vetà? Ora sì che ho capito tutto.”

Lui sorrise. “Dico… quand’ero piccolo, sai, a Gorizia… nevicava. Tutto qua.”

Percorsero l’ultimo tratto di via Gramsci in silenzio e si fermarono al semaforo che fronteggiava i giardini pubblici. Gli alberi tropicali del parco erano già imbiancati. Era strano vedere palme, magnolie e cedri del Libano appesantiti dalla neve. Chissà che cosa pensavano le loro menti di alberi.

Proseguirono fino al mare sulla strada deserta. Poi Sensi si immise sul molo Italia, che si estendeva sul mare nero nel turbinio della nevicata, e fermò la jeep quasi sulla punta.

“Torni a casa, per Natale?” chiese Carmel, a un certo punto.

Sensi scosse la testa. “Non credo. E tu?”

“Non lo creo,” disse Carmel, in tono vagamente triste. “Doveva venire mi madre, ma poi… comunque ce vedremo quest’estate. E tu? Tua madre es viva, no?”

“Sì,” rispose Sensi. “Immagino che le telefonerò. Immagino che mio fratello mi farà velatamente capire che sarei dovuto andare. Detesto le festività. Mi piace stare in macchina con te.”

Carmel lo osservò in silenzio. Aveva delle gocce di neve sciolta tra i capelli ed era bello, a modo suo.

“Manno, stasera non te capisco.”

Lui scrollò le spalle. “Oggi hanno un ucciso un uomo che non esiste. Un uomo vestito da Babbo Natale. Non è grottesco?”

“Es crudele. Solo tu puoi pensare a esta cosa come grotesca.”

Sensi sorrise appena. “Be’, sì. Suppongo di non essere nella top-ten degli individui più sensibili del mondo.”

“E stai cambiando argomento.”

“Sì,” rispose lui. “Adesso credo proprio che ti porterò a letto, se non ti dispiace. Non riesco a essere comunicativo con una mezza erezione.”

Carmel sbuffò, Sensi rimise in moto e fece cautamente inversione.

Neve. Non gli veniva in mente un solo buon ricordo legato alla neve. In realtà non faceva parte del suo carattere conservare molto a lungo i buoni ricordi. Erano quelli cattivi che lo possedevano completamente. Ricordi cattivi, e non solo quello.

Lasciò la jeep in divieto sull’angolo di piazza Beverini e si infilò sotto l’ombrello di Carmel per arrivare fino al suo portone. Il suo piumino azzurro frusciava a ogni passo e probabilmente la mezza erezione che aveva usato per cambiare argomento quando erano in macchina non avrebbe tardato a palesarsi davvero.

Il lastricato era scivoloso, coperto da uno strato di neve ingannevolmente soffice alto pochi centimetri. Carmel incespicò e lui la sorresse. Poi la baciò e la strinse goffamente sopra il piumino.

Una volta nel suo sottotetto lei individuò immediatamente il pacco dono che era rimasto sul divano.

“Oh, un regalo per una signora…” commentò, in tono distante, leggendo il nome del negozio sul sacchetto. Ovviamente non era sicura che fosse per lei. Sensi prese il pacchetto e lo buttò in un angolo, poi le sfilò quel cazzo di piumino.

***

Quando si svegliò nel tepore del suo letto, per un istante tutto gli sembrò perfetto. Aveva la pelle calda della pancia di Carmel contro un fianco, fuori il silenzio era completo, dall’abbaino sul tetto non filtrava luce. Si mosse leggermente per incastrarsi meglio contro di lei, la circondò con un braccio e chiuse di nuovo gli occhi.

“Manno…” bofonchiò Carmel.

“Buongiorno, tesoro,” rispose lui, con un sorriso beffardo ben percepibile nel tono di voce.

Carmel si rivoltò. I capelli crespi e scuri le coprirono una spalla e Sensi si allungò per baciarla.

“Tesoro a chi?” disse lei, ma non oppose resistenza mentre la bocca dell’altro scendeva dalla spalla a un seno e poi risaliva lungo il suo collo.

“A te, no? Non sei un tesoro, quando ti svegli? Credo che finirò di svegliarti,” concluse, facendole scorrere le mani lungo il corpo. Era caldo, e liscio, e aveva un profumo come di lino. Le mise una gamba tra le gambe e le infilò il naso tra i capelli. Carmel emise una sorta di sospiro.

La toccò, le fece cambiare posizione, le salì sopra, si infilò un preservativo, le entrò dentro, ed era decisamente bellissimo. E poi, ovviamente, iniziò a suonare il suo cellulare.

“Manno…” borbottò lei.

“Sco-pa-mi,” rispose lui, arricciando il naso.

Il cellulare smise di suonare, per riprendere immediatamente dopo qualche secondo.

“E cavolo,” disse lei.

“Shhh…” disse lui, e le tappò la bocca con la propria.

Il cellulare stava ancora suonando quando lei venne. Sensi si prese ancora qualche minuto. Non fosse stato per quel cazzo di telefono sarebbe stato tutto perfetto. Un risveglio perfetto. Un letto caldo. una donna bellissima. Una giornata di ozio intervallato da momenti di sesso o, più probabilmente, una giornata di sesso intervallato da momenti di ozio.

E invece, quel cazzo di cellulare.

Il cellulare smise di suonare. Cominciò a farlo il telefono di casa.

Sensi venne. Venne in modo irritato, se è possibile godere in modo irritato. Venne con l’idea di dover uscire da Carmel, di doversi sfilare il preservativo e di dover ricevere notizie irrilevanti.

Fu esattamente quello che fece: uscì da Carmel, si sfilò il preservativo, lo annodò, lo buttò in un angolo e rispose al telefono, infilandosi sotto le coperte, per ascoltare notizie irrilevanti.

“Eh,” disse.

“Capo, c’è un problema,” spiegò la voce di Mainardi.

“Dillo a me.”

***

Il problema, non molto sorprendentemente, era il questore Salvemini sul piede di guerra. Aveva indotto una riunione dei dirigenti alle 11.00, e si era sentito anche magnanimo. Per le 11.00, aveva pensato, tutti i suoi capi-squadra sarebbero riusciti ad arrivare, anche quelli che abitavano in cima ai monti, in pittoreschi paesini ora bloccati dalla neve.

Il commissario Bignardi della Digos, ad esempio, che viveva a Ponzano Magra, un agglomerato di case scomodo da raggiungere anche col bel tempo, era riuscito ad arrivare per le nove e mezza, dopo essersi aperto con la pala la strada fino alla macchina, aver lavorato per una mezz’ora attorno ai pneumatici, aver messo le catene e forse aver rimosso anche qualche albero abbattuto dalla carreggiata. Ma, era chiaro, Bignardi era della Digos. Era anche un pazzo paranoico, ma su questo Salvemini non aveva potere.

Rossi, della volante, era lì dalle otto del mattino. Barone, della stradale, aveva dovuto essere andato a prendere, ma anche lui era arrivato in tempo.

Alle undici tutti i dirigenti che aveva convocato erano diligentemente seduti nella sala-riunioni. Tutti tranne Sensi, che viveva a venti minuti a piedi dalla questura e per di più aveva una jeep da fighetto con la quale poteva viaggiare senza catene con qualsiasi tempo.

Oh, naturalmente al suo posto c’era l’ispettore-capo Tudini, che quella mattina se l’era fatta a piedi da Melara. Salvemini normalmente si considerava un uomo accomodante. Non si irrigidiva sulle questioni di principio. Praticava l’elasticità mentale così come praticava la vela e il tennis.

Ma che Sensi dovesse arrivare in ritardo sul suo solito ritardo proprio il giorno in cui lui voleva parlare con tutti i dirigenti della questura lo faceva imbestialire.

Quindi aveva detto all’ispettore-capo Tudini di scomparire e di ritrovargli il commissario “anche a costo di andarlo a sollevare per un orecchio da dentro la fidanzata di turno”.

Tudini – uomo meticoloso e responsabile anche se privo di fantasia – aveva risposto che il commissario stava arrivando, ma aveva perso un po’ di tempo per aiutare un cittadino in difficoltà.

Salvemini, a cui la fantasia non mancava, aveva immaginato che il commissario stesse accompagnando a casa la fidanzata di turno, il che, in un certo senso, era aiutare un cittadino in difficoltà. Quello che faceva imbestialire Salvemini era che Sensi era sempre in torno, ma era sempre in torto per qualche ragione in certa misura condivisibile. A Salvemini sarebbe piaciuto avere un capo della squadra mobile puntuale, ma non gli sarebbe piaciuto avere un capo della squadra mobile che lasciava le sue conquiste in mezzo alla neve a tornare a casa con mezzi propri. Evidentemente averne uno che riuscisse a coniugare le due cose sarebbe stato chiedere troppo.

Salvemini rimase nervosamente sulla porta aspettando il suo commissario ritardatario.

Sensi arrivò pochi minuti più tardi, con addosso uno stupefacente cappotto da ussaro, nero, con degli alamari argentati, con una lattina di red bull in mano e con i capelli sporchi di neve. Visto che la nevicata era finita nella prima mattina Salvemini si chiese chi gli avesse tirato una palla di neve in testa.

“Aspettavamo lei, Sensi.”

Il commissario sorrise appena, distante, e entrò nella sala.

“Spero che il cittadino in difficoltà, almeno, le sia stato grato,” non poté impedirsi di dire il questore, passandogli accanto e per andarsi a mettere dietro al microfono.

“Non esattamente, signore,” rispose Sensi, e si sedette su una poltroncina scrollandosi i capelli. Sì, un proiettile di neve ben direzionato e lanciato con l’intenzione di bagnare il più possibile, diagnosticò Salvemini.

Poi iniziò a spiegare ai suoi uomini perché erano in stato d’emergenza, quante catene e gomme da neve gli mancavano per coprire il territorio con le normali pattuglie, quanti incidenti si potevano aspettare, in che modo avrebbero dovuto dislocare i propri uomini nella città, come si sarebbero coordinati con Sarzana e la Val di Magra, su quali attività criminose concentrarsi e molte altre cose che a Sensi entrarono da un orecchio e uscirono dall’altro alla velocità della luce.

Come si aspettava erano informazioni irrilevanti.

La città era bloccata esattamente come c’era da aspettarsi. Gli autobus andavano a singhiozzo, le macchine che si azzardavano a partire slittavano, i pedoni scivolavano e si comportavano in modo puerile.

Tipo tirare palle di neve al proprio quasi-boyfriend con l’intento di abbatterlo.

No, la situazione in città era esattamente quella che ci si poteva aspettare. Le priorità erano ben altre: trovare una borsa per regalarla a Carmel e, in subordine, capire chi cazzo fosse il babbo natale morto.

***

La riunione era durata per ore e ore, o così la vedeva Sensi. In realtà la riunione era durata 35 minuti e alla fine lui aveva anche avuto la faccia tosta di dire a Salvemini che comunque gli serviva un ispettore in più per la quinta sezione. Negli occhi del questore era passato un bagliore assassino, ma aveva promesso che ne avrebbero riparlato.

Poi aveva dovuto occuparsi del babbo natale morto.

“Praticamente quest’uomo è riuscito a convincere due Paesi diversi a scrivergli lo stesso indirizzo inesistente sui documenti, giusto?”

Tudini annuì.

“Nessuno ne ha denunciato la scomparsa e non si sa che cosa facesse per vivere.”

Tudini annuì di nuovo.

“Non sappiamo neanche bene come è morto perché il patologo è bloccato a Vezzano, quindi non ha visto il cadavere.”

Tudini sospirò. “Sì, Ermanno. So che è…”

“Magnifico,” lo interruppe Sensi. La Riu lo guardò male, ma lui non ci fece caso. “Perfetto, oserei dire. Questo significa che questo caso ha bassissima priorità: nessuno si è accorto che non c’è, a nessuno frega niente che sia morto… eccellente. Ora devo andare, però.”

E prima che qualcuno potesse obiettare, Sensi raccolse il suo cappotto da ussaro e scivolò verso l’ascensore.

Mainardi guardò la Riu. “È pazzesco,” disse.

“Che Sensi ci abbia mollati qua con un caso di omicidio in corso? Non direi.”

“Che il parco della Maggiolina sia pieno di neve e che io sia qua a pensare a un omicidio!” trillò l’altro, felice come un bambino, e corse a prendere la giacca a vento.

***

Arrivare in centro era stato magnificamente facile. Le strade erano semi-deserte e la sua jeep da fighetto passava sulle strade innevate liscia come un go-cart. Cosa che, a ben pensare, era più unica che rara, visto che di solito l’asfalto di viale Italia era una costellazione di crateri.

Parcheggiò in divieto a pochi passi da via Prione – certe cose non cambiano mai – e si avventurò sulla neve scivolosa verso la “Casa della Borsa”.

La Casa della Borsa era aperta, con le vetrine illuminate piene di cianfrusaglie natalizie e, ovviamente, di borse.

Quando Sensi entrò un campanellino sopra la porta emise un jingle natalizio.

Il negozio era abbastanza deserto. C’era qualche consumatore disperato che doveva procurarsi comunque i suoi regali di Natale, ma nel complesso la situazione era molto più sostenibile del giorno precedente. Sensi cominciava a sperare che nevicasse tutti i giorni.

Dietro il bancone c’era un commesso vestito come un lord inglese e con la stessa espressione di altezzosa superiorità.

“Salve, vorrei una borsa,” disse Sensi.

Il commesso sollevò un sopracciglio. “Una richiesta tautologica, oserei dire.”

Il commissario lo guardò in silenzio per un istante. “Diventerà teratogena, se non mi trova la borsa che cerco,” sorrise. Iniziava a incarognirsi, e pensare che era appena entrato.

“Mi dica,” accondiscese il commesso.

Sensi sospirò. Ora che aveva fatto il bullo non poteva ammettere di non avere idea del tipo di borsa che cercava.

“Di pelle,” sparò a caso, “non nera, non blu, non troppo grande, non troppo piccola, non a sacco e non a zainetto.”

Il commesso sembrò opportunamente impressionato.

“Penso di aver capito,” disse, con un mezzo inchino. “Lei cerca una She-bag verde!”

“Può darsi,” rispose Sensi, a muso duro. “Me la faccia controllare, prima.” Chissà che cavolo era una She-bag, poi.

Il commesso si diresse lentamente verso uno scaffale e ne tirò fuori una scatola in modo quasi deferente. Sensi iniziò ad avere una strana contrattura al muscolo del bancomat.

“Ecco qua,” declamò il commesso, scoperchiando la scatola. “Lo stato dell’arte della borsetteria!”

Sensi osservò l’oggetto di tanta ammirazione.

Era una borsa.

Verde.

A forma di borsa.

Con dei manici verde più scuro.

Aveva un placchetta discreta che indicava la marca.

“Noti i dettagli in serpente!” trillò il commesso, estasiato. E gay, come finalmente comprese Sensi. “Le rifiniture! La comoda tasca laterale! L’eleganza della chiusura!”

Sensi osservò tutto quello che l’altro nominava, con in viso il fiero cipiglio di chi sta per prenderselo in culo senza colpo ferire.

“Mh,” disse.

Una donna che stava passando dietro di lui piroettò ci 180 gradi e si lasciò sfuggire un gridolino d’ammirazione. “Una She-bag!” ansimò.

“Già,” disse Sensi, con un sorrisetto secco.

Dietro di lui si era formato un capannello di donne in calore. I loro sguardi erano come calamitati dalla borsa verde sul bancone.

Era una totale idiozia.

Probabilmente costava quanto il suo stipendio di un mese.

Forse un po’ di più.

Osservò lo sguardo bramoso delle signore alle sue spalle. Praticamente sbavavano.

Era davvero una stronzata.

“E che cazzo,” disse. “Me la incarti.”

Dietro di lui si levò un sospiro collettivo.

***

Con la sua borsa strettamente incastrata sotto braccio, Sensi si avviò verso casa. Si sentiva stranito. C’erano motorini che costavano meno di quell’oggetto. Contando anche la guepiere, con la somma che aveva speso per Carmel quel Natale avrebbe potuto comprarsi una settimana con cinque concubine vergini.

Il fatto che per lui la verginità non fosse mai stato un valore non gli impediva di sentirsi dispiaciuto per la sua verginità anale. Non che fosse adamantina, ma nessuno gliel’aveva mai messo nel culo così violentemente. E senza bisogno di abbassarsi i calzoni. Tutto era stato fatto tramite il piccolo transponder della Casa della Borsa.

Salì in casa e appoggiò delicatamente l’oggetto di tanto dolore sul tavolino.

Si stappò una birra e la bevve alla goccia.

E che cavolo. Ormai l’aveva fatto.

Mise sul piatto un disco dei Sol Invictus e cercò di dimenticare. Solitamente il suo inconscio era ben lieto di fargli rimuovere i piccoli dolori della vita quotidiana, ma quel giorno non sembrava funzionare. Infilò una pizza nel microonde e la mangiucchiò mestamente.

Doveva distrarsi, decise.

Lavorare per dimenticare era contrario alla sue etica, ma obbiettivamente era improbabile che riuscisse a trovare un locale goth aperto a mezzogiorno e mezza in una giornata nevosa.

Si rimise il cappotto da ussaro e tornò verso la macchina con la coda tra le gambe.

Le strade erano scivolose e deserte, e ora che i negozi erano chiusi per la pausa pranzo nessuno aveva più un motivo per arrancare nella neve.

Si fermò davanti all’obitorio nello spazio riservato alle ambulanze. Chiunque fosse su un’ambulanza diretta lì poteva senza dubbio aspettare qualche minuto.

“Patologia legale è chiusa causa neve,” gli spiegò un’infermiera carina nel primo ufficio a cui bussò.

“Mi rendo conto,” disse Sensi, mostrandole il distintivo. “Ma, vede, noi non siamo chiusi e io dovrei dare un’occhiata al Babbo Natale che vi hanno portato ieri sera. Non sono riuscito a guardarlo bene in loco perché stavo surgelando.”

L’infermiera carina sorrise. Aveva i capelli rossi e la faccia spruzzata di lentiggini. E lavorava in una morgue, quindi doveva avere un certo sense of humor.

“Capisco, signore, ma non posso farla accedere alla camera refrigerata senza un medico presente.”

Sensi fece una faccia dispiaciuta. “In via informale?” tentò. Non era propriamente nuovo a infilarsi dove non avrebbe dovuto quando non avrebbe dovuto. Vedi la Casa della Borsa.

“Sa, a dire il vero non potrei proprio…” disse l’infermiera carina.

“Sa, a dire il vero potrebbe almeno prestarmi la chiave per la macchinetta del caffè che ho visto in corridoio. Lei mi presta la chiave e io le presto gli spiccioli. Mi sembra un patto onesto.”

In realtà la macchinetta del caffè che era nel corridoio era dello stesso tipo che avevano anche in questura, quindi Sensi aveva la chiave. Inoltre non aveva particolarmente voglia di un caffè, quindi era un patto tutt’altro che onesto. Ma l’infermiera non lo sapeva e non se la sentiva di negare a un povero sbirro una bevanda calda nell’unico posto in città più freddo dell’aria aperta.

Lo accompagnò alla macchina e gli fece compagnia col caffè.

Poi lo fece entrare nella camera refrigerata.

Il Babbo Natale morto era un tizio sulla quarantina e, al di sotto della barba posticcia, aveva una faccia niente di speciale.

La ferita alla testa era l’unica ferita visibile sul suo corpo, quindi probabilmente non si era scontrato con una macchina quanto con il famoso “corpo contundente”.

Il corpo contundente, tra l’altro, doveva anche essere stato piuttosto affilato, almeno a giudicare dal segno frastagliato che gli aveva lasciato sulla pelle. Qualcosa di duro e con un lato smussato, considerò Sensi, come…

“Sembra la ferita di un pattino da ghiaccio,” disse l’infermiera, che si chiamava Sara. “Sai, prima di finire qua ero al pronto soccorso,” spiegò.

“Stavo pensando la stessa cosa. O quello o qualcos’altro di simile. Il lato smussato di un machete, ad esempio. Secondo te… si tratta di una ferita mortale?”

L’infermiera Sara si morse pensosamente un labbro e Sensi iniziò immediatamente a distrarsi.

“Con le ferite alla testa non si può mai sapere. Certo non sembra nel punto giusto. Il collo non sembra rotto,” aggiunse.

Sensi mise le mani guantate ai lati del collo del cadavere e mosse leggermente la testa.

“No,” confermò. “Forse ha soltanto avuto un infarto dopo essersi infortunato sulla pista di pattinaggio, mentre se ne andava tranquillamente in giro.”

Vestito da idiota.

Senza un vero indirizzo a cui tornare.

Be’, pensò Sensi, anche gli idioti senza un vero indirizzo a cui tornare avevano il diritto di farsi venire un infarto.

“Cosa fai di bello, quando stacchi?” chiese. Forse aveva trovato un modo più decente per dimenticare la She-bag.

***

Il 24 mattina si svegliò indolenzito. Aveva accompagnato a casa l’infermiera Sara verso le due di notte e il freddo nel percorso dalla jeep al suo sottotetto evidentemente gli aveva fatto male. La neve si stava sciogliendo, lasciandosi dietro un solido strato di ghiaccio.

Chiamò Tudini. “Abbiamo una nuova linea d’indagini,” disse, facendo roteare lentamente il collo. “Il Babbo potrebbe essere morto per cause naturali mentre tornava dalla pista di pattinaggio. Qualcuno dovrebbe andare a chiedere se un tizio vestito da idiota ieri pomeriggio è caduto mentre pattinava.”

“Ermanno, dimmi che non sei andato a medicina legale mentre era chiuso,” rispose Tudini, rassegnato.

Sensi si alzò ed esaminò allo specchio i lunghi graffi che aveva sulla schiena. Sara l’Infermiera era sprecata, all’obitorio. “Non era proprio chiuso,” si difese Sensi. “Tu manda qualcuno a chiedere, ok?”

Poteva sostenere di essere scivolato sul ghiaccio mentre faceva la spesa in… hem, mutande?

Guardò meglio l’estensione dei graffi. Ok… nudo?

Chiuse la telefonata, si lavò e si vestì. Lui e Carmel non erano in termini di fedeltà reciproca, ma lei si sarebbe incazzata lo stesso. Doveva trovare il modo di mostrarle i graffi prima della She-bag. Forse quella l’avrebbe placata.

Uscì di casa con la sensazione che le giunture gli scricchiolassero. Le strade erano più ghiacciate della sera prima e quasi fece il famoso scivolone. Inutile a dirsi, il ghiaccio non aveva dissuaso i compratori dell’ultima ora.

Si aggiravano disperati sul lastricato scivoloso, ben determinati a non fallire proprio sulla linea del traguardo. Tra i disperati che vagavano per piazza Beverini c’era anche una sagoma conosciuta. Visto da lontano il maresciallo dei carabinieri Mari, antidroga, sembrava un orso polare travestito da tamarro. Chiaramente la giacca imbottita arancione fluorescente poteva fuorviare, infatti era un tamarro grosso come un orso.

“Dimmi che cerchi spacciatori e non regali,” disse Sensi, avvicinandoglisi piano mentre lui guardava la vetrina di un parrucchiere.

“Il solo e unico commissario darkettoni!” rispose Mari, più o meno gioviale. “Bel cappotto, l’hai strappato al Conte Orlok?”

“Avevo freddo,” spiegò il commissario, sulla difensiva. “Allora, che fai?”

L’altro, all’improvviso, assunse un’espressione disperata. “Sì, lo confesso… cercavo un regalo dell’ultimo minuto. Il mio ragazzo si è fissato con questa cosa per lisciare i capelli…”

“Forse una piastra?”

“Bravo, signorino-so-tutto. Una piastra di un certo tipo che ha visto nella pubblicità di un parrucchiere calvo e recchione. Dico io, se è calvo, come puoi fidarti di lui?”

“Oh, mi dispiace,” sghignazzò Sensi. Mari, pur essendo a tutti gli effetti gay, ce l'aveva con gli orecchioni. Fosse stato nero e repubblicano sarebbe stato bene in un racconto di Lansdale.

“Non sembri dispiaciuto. Sembri compiaciuto come un riccio che ha appena scopato una riccia. Il che probabilmente è vero. Hai un graffio sul collo. Comunque… forza e coraggio, devo trovare la piastra magica.”

“E io che pensavo che con gli uomini fosse più facile. Per Carmel – hai presente Carmel…”

“La tua caliente barista, come no.”

“…ho dovuto comprarle una borsa. Una borsa costosissima. Verde.”

Mari inarcò le sopracciglia, attonito. “No”.

“No cosa?”

“Le hai comprato una She-bag!”

Sensi annuì tristemente.

“È praticamente una proposta di matrimonio!”

Sensi lo fissò con sguardo orripilato. “Co-cosa intendi?”

“Una She-bag è per la vita, fratellino. Quell’affare costa più di un anello col brillocco. Carmel cadrà ai tuoi piedi e ti implorerà di farla sua. Be’, se non nota quei graffi, almeno.”

Sensi lo guardò con gli occhi sbarrati per dieci secondi buoni. Aveva fatto entrare il diavolo in casa sua, insieme a quella borsa (e non per la prima volta, doveva ammettere).

“Devo trovare un altro regalo,” disse, voltandosi di scatto e quasi scivolando fatalmente sul ghiaccio.

Iniziò a avanzare lentamente ma in modo determinato verso via Prione.

“Comprale un peluche!” gli gridò dietro Mari.

***

Un peluche, certo. Era stato stupido, da parte sua, non pensarci prima. Si diresse goffamente verso il più vicino negozio di giocattoli, cercando di non scivolare sul ghiaccio. Via Prione sembrava un raduno di spastici. I compratori dell’ultimo minuto si muovevano a scatti sulla strada scivolosa, intabarrati e isterici.

Sensi raggiunse il negozio di giocattoli più vicino e chiese con urgenza un peluche, spintonando via bambini urlanti e genitori rassegnati.

“Che tipo di peluche?” chiese il commesso, un anziano signore dall’aspetto rubizzo.

Ecco. Sempre quella maledetta domanda.

“Un peluche morbido e tenero. Un peluche qualsiasi, cavolo. Un peluche per una tizia che mi sta facendo perdere soldi e ragione!”

L’anziano commesso lo guardò con simpatia. “Non è rimasto molto. Sa, è il 24. per fortuna ci sono animali che ai bambini non piacciono molto. Abbiamo un ratto…”

Sensi abbassò lo sguardo. L’anziano commesso stava reggendo per la coda un ratto di peluche dall’aspetto molto realistico.

“Forse non piacerebbe nemmeno alla ragazza,” ammise. “Anche se è molto carino,” aggiunse, vedendo la faccia dispiaciuta del venditore. “Lo comprerò per me. Qualcos’altro?”

“Be’, come le dicevo non c’è molto. Un uccellino marrone…”

Era obbiettivamente raccapricciante. Sembrava uno stronzo con le ali. Sensi scosse la testa.

“…un orsetto un po’ strabico…”

Sensi scosse di nuovo la testa.

“…un pipistrello…”

“Si fermi. È geniale. Un pipistrello.”

Il pipistrello doveva essere prodotto dalla stessa casa dei produttori di ratti. Era estremamente realistico, per quanto fatto di peluche. Il venditore inarcò un sopracciglio.

“Oh, capisco,” disse. “Auto-ironia. Molto bene, glielo incarto?”

Sensi annuì felice.

***

Il Babbo morto non era stato alla pista di pattinaggio o, se c’era stato, nessuno aveva notato un tizio vestito di rosso e con la barba bianca che volteggiava in pista.

Sensi andò in questura e consegnò i suoi regali.

Mainardi fu deliziato dal videogioco a tema calcistico. Tudini sembrò apprezzare la cravatta. La Riu incassò lo spazzolino da denti elettrico senza fare una piega.

Il commissario ricevette in cambio una maglietta di Bat-man (da Mainardi), un maglione nero (da Tudini) e i soliti calzini neri dalla Riu.

“Inizio a pensare che il nostro Babbo Natale sia davvero arrivato su una slitta,” disse Mainardi, quando le formalità furono espletate.

“Certo, stava andando alla posta a ritirare le lettere dei bambini quando è scivolato e si è rotto la testa su un pattino della slitta,” commentò Sensi. “Solo che la ferita alla testa non è la causa della morte. Il patologo oggi si è visto o è ancora bloccato dalla neve.”

“Bloccato dalla neve,” confermò la Riu.

“Bene, ce ne occuperemo il 27,” concluse Sensi. O il 28, o il 29, o il 30… per il momento nessuno si era accorto che gli mancava un Babbo Natale.

Quella sera andò a prendere Carmel con la jeep. Indossava di nuovo il piumino azzurro e aveva un pacchetto tra le mani.

Una volta a casa di lui, Sensi scartò il regalo.

“Non es stato facile…” spiegò Carmel, sorridendo. “Non dopo il tuo… exploit dell’anno scorso. Ma alla fine creo che ho trovato.”

Sensi osservò con aria perplessa il pipistrello di peluche che lo guardava con occhietti rossi da in mezzo alla velina.

Le sopracciglia di Carmel si corrugarono. “Non te piacciono i pippistelli?”

“Oh, no. Adoro i pipistrelli…” sorrise Sensi.

Le diede il suo pacchetto.

Carmel lo aprì e si mise a ridere. “Non es possibile!” singhiozzò, asciugandosi le lacrime.

Poi sorrise. Il sorriso più incantevolmente natalizio che Sensi avesse mai visto.

***

Più tardi durante la serata dovette darle anche la She-bag, perché dopo tutto Carmel si era accorta dei graffi.

Poi le diede anche la guepiere, visto che gli sembrava il modo migliore per festeggiare il Natale.

La mattina del 25 fu svegliato dal suono del suo cellulare. Carmel giaceva accanto a lui nel suo letto a una piazza, con ancora addosso la guepiere e con la pelle magicamente calda.

Sensi si alzò e agguantò il telefono. Niente l’avrebbe convinto ad abbandonare quel letto. O quella donna, per quel che contava.

Non molto spesso, comunque.

“Buon Natale, eh?” rispose.

“Capo, una cosa sorprendente,” disse Mainardi. “Questa mattina il medico legale è andato all’obitorio e sai cosa?”

“Dentro faceva più caldo che fuori.”

“No. Il Babbo. Sai, il nostro Babbo Natale morto?”

“Si è alzato ed è risalito sulla slitta, lamentandosi perché era in ritardo.”

Dall’altro capo del telefono provenne qualche secondo di silenzio.

“Forse,” disse Mainardi, alla fine. “Non c’è più.”

FINE.