martedì 16 giugno 2009

Una linea d'ombra - 15

In piazza Verdi c’erano due saloni di parrucchiera. Uno era grande e nuovo, sul lato sud, uno era piccolo e vecchiotto, sul lato nord, incassato tra un negozio d’abbigliamento maschile in cui Sensi non si sarebbe comprato neanche un paio di calzini e un tabacchino dalla vetrina piena di oggetti disparati, non necessariamente collegati col fumo: statuette, scacchi, portachiavi, lavalamp. Sensi aveva quasi la tentazione di comprarsi una lavalamp viola a forma di fallo (ma forse che fosse a forma di fallo era solo una sua idea), ma poi lasciò perdere.
Si infilò nel salone piccolo e vecchiotto.
Era un ambiente lungo e stretto. Su un lato c’era un grande specchio, con davanti tre poltroncine occupate da altrettante signore avvolte in pastrani color argento, con i capelli a diversi stadi di ammollo.
In fondo c’erano due lavatesta e in un angolo, quasi abbandonata, una poltrona con sopra quello che assomigliava a un casco spaziale.
Di primo acchito nessuno parve fare caso al commissario.
Una donna giovane, con i capelli di uno squillante biondo platino, era impegnata a impastare i capelli di un’altra, che erano coperti da una sorta di melma violacea. Un’altra tizia, mingherlina, stava usando un rumorosissimo phon sulla chioma di una cliente piuttosto stagionata. La chioma era di un gradevole colore azzurrino.
Alla fine la tizia con i capelli biondo platino si sfilò i guanti con uno schiocco e andò verso di lui.
“Ciao,” disse, guardando con occhio professionale i capelli lunghi e ingarbugliati di Sensi. “Ti serve un appuntamento?”
“Non credo,” rispose il commissario.
“Peccato. Hai un nero naturale stupefacente.”
Sensi, involontariamente, si tirò indietro i capelli. “Be’, grazie. Ma temo che sia una visita ufficiale. Sono il commissario Sensi, squadra mobile.”
L’altra si mise a ridere, poi, come il commissario in fondo si aspettava, disse: “Tu non sei un poliziotto!”
Sensi, rassegnato, tirò fuori il distintivo.
“Oh, wow. Allora?”
Sensi rimise via il distintivo. “Erica Buscetta.”
“Sì? È stata qua ieri, le è capitato qualcosa?”
Sensi annuì. “Come ti è… sembrata?” si mantenne sul vago.
“No, bene, perché? Che cosa le è successo?”
“Aveva un occhio nero,” disse Sensi, senza rispondere. Chissà se avevano un bagno, là dentro. Probabilmente non avrebbero apprezzato se si fosse messo a vomitare in un lavatesta.
“Sì, l’ho visto. È stato un suo allievo, una roba da non crederci. Ma lei era ok, stava bene. Era di buon umore. Doveva uscire con un tipo, uno simpatico.”
“Scusa, hai per caso un bagno?”
La parrucchiera sembrò presa alla sprovvista. “Sì, là in fondo, ti faccio vedere.”
Sensi si era già lanciato da quella parte. La parrucchiera lo vide entrare come una furia e poi sentì l’inconfondibile rumore di qualcuno che vomita.
Si sedette sullo sgabello che c’era nella minuscola anticamera del bagno, sotto alle giacche delle clienti.
Dopo qualche secondo lo strano poliziotto uscì fuori.
“Scusa, ho fatto indigest-“
“È morta, giusto?”
Il poliziotto si voltò e vomitò ancora.
La parrucchiera sentì tirare lo sciacquone e l’acqua del lavandino che scorreva, poi l’uomo riemerse.
“Sì,” disse.
La parrucchiera si morse un labbro. “Cazzo,” mormorò. “È stato quel tizio, quello simpatico?” chiese, con voce rotta.
Sensi scosse la testa.
“Eri tu quel tizio simpatico?” chiese, allora, lei.
“Dovresti entrare in polizia.”
“Il sangue mi fa impressione.”
Sensi si asciugò un po’ d’acqua dal mento usando la manica del giubbotto.
“Che tu sappia c’era qualcuno che la disturbava? Che le dava noia, la tampinava, non so?”
La parrucchiera ci pensò per qualche minuto. “Aveva un ex-ragazzo. Ma quello più che altro era un imbecille. Le aveva fatto le corna, Erica ci era rimasta malissimo.”
“Qualcun altro?”
“C’era un matto che abitava nel suo palazzo,” disse la parrucchiera. “Be’, che era un matto lo dico io, a Erica stava simpatico. Le portava cose da mangiare, roba così.”
“E perché era un matto, secondo te?”
L’altra si strinse nelle spalle. “Impressione. Uno non ti porta da mangiare se non ha in mente qualcosa, ma Erica diceva che era solo amichevole. Personalmente non ho mai incontrato un tizio amichevole che non mi volesse entrare nelle mutande.”
Sensi fece un piccolo sorriso.
“Proprio così,” disse l’altra, indicandolo. “Esattamente quel tipo di sorriso amichevole.”
“Continuo a pensare che dovresti fare lo sbirro.”
“Questo perché non hai mai visto come faccio i capelli.”
L’altro sorrise ancora, poi si tirò un foglio fuori da una tasca. “Poteva chiamarsi Davide Nicosia?” chiese.
La parrucchiera si mordicchiò ancora un labbro. “Davide, Roberto, una cosa così. Non ho memoria per i nomi.”
“Ok, grazie.”
La parrucchiera si alzò.
“Di niente, bello. Se decidi di tagliarti i capelli fammi un fischio. Quel colore ce l’ha uno su un milione.”

lunedì 15 giugno 2009

Una linea d'ombra - 14

I Servizi Sociali avevano degli uffici in una costruzione isolata all’angolo tra via Fiume e viale Aldo Ferrari. Era un palazzotto circondato dagli alberi, probabilmente del 1800 o degli inizi del ‘900, che era occupato per metà dalla ludoteca cittadina.
Sensi parcheggiò la sua macchina nel minuscolo cortile, bloccandone un altro paio. Con un po’ di fortuna una delle due poteva essere quella dell’assistente sociale che cercava, che così non avrebbe potuto svignarsela.
All’accettazione un tizio vestito da postino gli disse che Elena Turri era fuori servizio.
Sensi non fece una grinza e chiese della sua collega, tale Datterio.
Ma anche lei, sfortunatamente, era fuori servizio.
“Allora mettiamola così: c’è un qualunque assistente sociale con cui possa parlare, all’orario sconveniente delle…” diede un’occhiata all’orologio “…quattro e venti del pomeriggio?”
“Se avesse preso un appuntamento…” disse il postino, con aria sconfortata.
“E la segretaria?” provò Sensi.
“Dovrebbe aver staccato proprio…”
Una donnetta rotonda e agitata fece il suo ingresso proprio in quel momento da una porta laterale: “C’è un fuoristrada che mi blocca l’uscita!” esclamò, rivolta al postino.
“Mi dia una buona notizia: è lei?” chiese Sensi, nello stesso momento.
“Sì,” ammise il postino, che chiaramente si pentiva di non essersene andato mezz’ora prima.
Sensi rivolse alla donna un sorriso largo come quello di uno squalo. “Che fortunata coincidenza. Cercavo proprio lei!”
Lei sospirò, evidentemente seccata, e guardò l’orologio. “Be’, è un po’ tardi, me ne stavo andando. Per le consulenze individuali…”
Sensi le piazzò il distintivo davanti al naso. “Io lo chiamerei più ‘interrogatorio informale’, ma può dargli il nome che preferisce. In quanto al fatto che se ne stava andando, le devo rivelare un piccolo segreto. Sa il fuoristrada che le blocca la strada? È il mio.”
La segretaria fece quasi un salto all’indietro, poi si infilò un paio di occhialetti a mezzaluna per leggere quello che c’era scritto sul distintivo.
“Commissario capo Ermanno Sensi. Credo che abbia un paio di minuti per ricevermi. A meno che non voglia tornare a casa a piedi, è ovvio.”
L’altra sospirò. “Be’, poteva dirlo subito. Venga.”
“A dire il vero stavo pensando di farmi prestare un paio di ganasce dalla stradale. Inizio a credere che, se continuerò a frequentare i Servizi Sociali, mi saranno utilissime.”
La segretaria, sconfortata, gli fece strada attraverso una porta di servizio e poi su per una scaletta stretta e male illuminata. Se quella era l’area aperta al pubblico, chissà com’erano le cantine. Forse c’erano le bare delle assistenti sociali Turri e Datterio.
Finalmente arrivarono in un piccolo ufficio dal tipico stile istituzionale: faldoni ovunque e poster squallidi alle pareti. La segretaria si incastrò dietro alla scrivania e accese il computer.
“Allora,” disse.
Era una donna sulla cinquantina, con dei capelli rosso scuro che formavano una specie di bolla sopra la sua testa e una collana a grosse palle azzurre.
“Credo di aver parlato con lei ieri. Omar Gomez.”
L’altra annuì. “Sì, il ragazzo di Teresa e Morelli.”
“Il padre naturale?”
La segretaria scosse la testa. “Tornato a San Salvador, credo. Ma anni fa. Nell’ultimo decennio Teresa è stata insieme a Moreno – Morelli, voglio dire.”
“Sì, sono stato a casa loro.”
“Una situazione difficile.”
Sensi rise. “Se quella è difficile chissà come sono quelle fottutamente incasinate.”
Rise anche la segretaria. “Ha visto anche il piccolino?”
“All’inizio pensavo che fosse un bambolotto. Comunque, lei ne sa qualcosa della denuncia che ha fatto il giovane Gomez?”
L’altra scosse di nuovo la testa. “Sa, dovrebbe parlarne con la Turri. Il caso è suo.”
“Inizi a parlarmene lei. È la segretaria, le segretarie sanno sempre tutto.”
Forse la blanda forma di adulazione ebbe qualche effetto, perché la donna si piazzò gli occhialetti sul naso con fare professionale e iniziò a digitare sul computer.
“Lasci perdere quell’affare. Mi dica che cosa ne pensa lei.”
L’altra sembrò presa alla sprovvista. “Be’, ecco.”
“Erano stronzate o c’era qualcosa di vero?” incalzò Sensi.
“Insomma, non saprei. Se devo dire che qua ci hanno creduto tutti…”
“Ok, erano stronzate. È la stessa conclusione a cui sono arrivato anch’io. Parliamo della Buscetta, adesso. La conosce?”
La segretaria aggrottò la fronte. “Non bene. L’ho vista qualche volta, suppongo. Non mi sembra la tipa da… be’, ecco. Comunque, era anche per questo che qua eravamo tutti scettici.”
“Già. Adesso vengono le domande difficili, si prepari,” le disse Sensi, sporgendosi leggermente verso di lei. “Ci sono state delle chiacchiere? Qua, dico, in questi uffici?”
“C-che genere di…”
“Su questa storia. Era una di quelle cose di cui si parla, su cui si fanno commenti?”
“Non credo di…”
“Avanti, capisce benissimo. Un mese fa abbiamo trovato il corpo di uno che si era fulminato infilandosi un arricciacapelli nel sedere… in questura lo sapevano anche i muri. Se ne parlava alla macchina del caffè, in mensa, in ascensore.”
La segretaria sorrise. “Cioè, proprio…”
“Dritto nel culo, manico compreso. Si è fulminato, ma sarebbe anche sopravvissuto se non fosse scivolato sulle mattonelle del bagno.”
“Pazzesco.”
“Già. E le potrei raccontare di quella che è arrivata per denunciare il marito che le aveva nascosto il telecomando.”
“No! Ed è perseguibile?”
“Non ne ho idea. Le ho consigliato di comprarsi un telecomando universale e di tenerselo sempre in borsetta.”
“Buona idea.”
Sensi tornò a rilassarsi contro lo scomodo schienale della sua sedia. “Ora, quello che voglio sapere è questo: era una di quelle storie?”
“Be’, non proprio. Se n’è un po’ parlato. Riccardi ha detto che se la Buscetta gliel’avesse fatta a lui, la… hem…”
“Sega?” propose Sensi.
“Già. Ecco, Riccardi non si sarebbe lamentato.”
“È quello che ha detto anche l’ispettore Mainardi.”
“Sì, lei è una ragazza carina.”
Sensi soffocò un conato di vomito. Obbiettivamente, non poteva continuare così.
“Si sente bene?”
“Benissimo, ho mangiato un po’ pesante. Quindi diceva che un po’ se ne è parlato.”
L’altra scrollò le spalle. “Un po’.”
“Bene, adesso provi a ricordarsi… chi c’era, quando ne avete parlato? Questo Riccardi, e poi?”
“Ma perché…?”
“Glielo spiego dopo, si concentri.”
La segretaria strizzò gli occhi dietro gli occhialetti a mezzaluna, segno che si stava sforzando.
“Be’, la Turri, forse la Datterio…”
Quindi, pensò privatamente Sensi, ogni tanto anche la Turri e la Datterio comparivano. “Chi altro? Qualche utente?”
“Può darsi… non me lo ricordo. Ma gli utenti non potevano sapere di chi stavamo parlando.”
“Un ragazzo spastico?”
L’altra scosse la testa. “Lo escludo.”
“Allora mi faccia un ultimo favore. Potrebbe controllare se c’è qualcuno dei vostri utenti che abita nei dintorni di via Milano? Vanno bene anche via Napoli, via Roma…”
“Tutta la zona a sud di piazza Brin, giusto?”
Sensi annuì.
La segretaria iniziò a digitare sul computer, concentrata. Andò avanti per dieci minuti buoni, mentre il commissario guardava il soffitto.
Dopo un po’ la vetusta stampante sulla scrivania della segretaria si mise in moto, e ne uscì un foglio pieno di nomi.
“Il fatto è che non so se le posso dare questi nomi,” disse la donna, con aria dubbiosa.
Sensi prese il foglio e se lo cacciò in tasca.
“Può sempre dire che un pericoloso psicopatico minacciava di bloccare la sua auto per sempre,” offrì, prima di scivolare via.

Una linea d'ombra - 13

Il commissario aveva tenuto nel suo ufficio una riunione informativa più laconica del solito, nella quale aveva spiegato perché pensava che Omar Gomez non avesse niente a che fare con la morte di Erica.
“Ma visto che non sarebbe la prima volta che mi convinco di una completa cazzata, tu, Mainardi, da stasera ti piazzi davanti a Toxic Ville e controlli la situazione.”
Mainardi sembrò infelice ma rassegnato. “Mi porterò un thermos,” borbottò.
“Max, tu ti ripassi i vicini uno per uno, cercando di capire se hanno visto o sentito qualcosa ma sono troppo stupidi per aver pensato di dirlo a Mainardi questa mattina. Lei, ispettrice… rimanga su quello che sta facendo,” concluse Sensi, rivolto alla Riu.
Ovviamente non aveva la più pallida idea di che cosa stesse facendo l’altra, ma era probabile che fosse qualcosa di effettivamente anti-crimine.
Poi guardò l’orario e annunciò che avrebbe provato a passare dai Servizi Sociali.

domenica 14 giugno 2009

Una linea d'ombra - 12

Quando uscì dal bagno trovò ad attenderlo un Tudini e un Mainardi che lo guardavano con aria perplessa. Tudini aveva in braccio il bebè.
“Forse sono incinto,” disse Sensi. “Avete una mentina o qualcosa del genere?”
Mainardi gli allungò un chewingum alla fragola.
“Commissario,” disse Moreno, che sembrava leggermente meno in coma rispetto a prima, “posso dirti due parole?”
Sensi annuì e l’altro si tirò stancamente in piedi e prese il neonato dalle braccia di Tudini.
“Andiamo qua fuori, staremo più tranquilli.”
Moreno lo precedette sulle scale verdastre, si accese una sigaretta e si mise a sedere sui gradini, sempre col bimbetto in braccio. Sensi si sedette accanto a lui.
“Omar è nella merda?” chiese il patrigno, con voce spenta.
Sensi non sapeva esattamente che cosa rispondergli. “Tanto bene non è messo, ma con noi non ha problemi.”
“Non mi ha voluto dire cosa ha combinato. È un po’ strano.”
Gli tremava una gamba, ma Sensi non riusciva a decidere se era un effetto dell’eroina che iniziava a mancargli o se era il suo modo di cullare il bimbo.
“Ieri l’altro ha avuto un problema con un’educatrice che lo stava aiutando con i compiti,” disse. “Le è saltato al collo e l’ha picchiata.”
“Oh, Cristo,” borbottò Moreno.
“Poi, pensando che così si sarebbe risparmiato una denuncia, si è inventato che lei l’aveva molestato.”
L’altro chiuse gli occhi e iniziò ad accarezzare ritmicamente la testa del neonato.
“Poi, questa mattina, qualcuno ha ucciso l’educatrice.”
Moreno riaprì gli occhi. “Non può essere stato lui. Era qua.”
“Be’, per essere onesti, la tua testimonianza non vale un cazzo. Ma, sì, non penso che sia stato lui.”
L’altro sembrò sollevato. “È un bravo ragazzo,” disse.
Sensi si tirò indietro i capelli. “Lo sai che non potete continuare così, vero?”
Moreno restò in silenzio.
“Tu e la tua donna vi dovete disintossicare. Dovete andare in una comunità, ma per un bel pezzo.”
“E Omar?”
“Non avete qualche parente?”
L’altro si strinse nelle spalle.
“Mica lo state aiutando.”
“Lo so, ma, sai… le cose andavano abbastanza bene, prima. C’ero stato in comunità, cosa credi? Un anno e mezzo in cima ai monti. Ero pulito come, non so, come qualcosa di molto pulito. Anche Teresa era pulita, tipo, e avevo un lavoro. È stato lì che abbiamo fatto Giacomino.” Dondolò un altro po’, tenendosi il bimbo sul petto.
“Poi mi è scaduto il contratto e… be’, non c’erano soldi, e così…”
“E così siete tornati a bucarvi e a fare marchette. Non è la storia più originale del mondo.”
“Se torno in comunità cosa succede a Giacomo?”
Sensi scosse la testa. “Devi parlarne con loro. Penso che ci siano delle comunità dove tengono anche i bimbi così piccoli.”
“Da soli?”
“No, idiota. Coi genitori. Ma il problema è che tu e Teresa non vi potete prendere cura proprio di un cazzo di nessuno. A me non frega niente se vuoi bene a tuo figlio e anche al figlio della tua donna, e vedrai che non frega niente neanche ai servizi. Avere dei genitori come voi è uno schifo e lo sai benissimo anche tu.”
Moreno continuava a dondolare in silenzio, accarezzando la testa del pupo, e Sensi immaginò che si sarebbe messo a piangere da un momento all’altro.
“Quindi, preparati all’idea. Uno di questi giorni, spero prima che dopo, verrà qualcuno dei servizi e ti dirà esattamente quello che ti ho detto io, solo che dietro ci sarà l’ordine di un giudice. Fai un favore a te stesso, prendi il pupo e vai tu per primo. Magari riusciranno a piazzarti da qualche parte anche con lui, non lo so. Ma a che cazzo ti serve tenertelo attaccato addosso se stai tirando le cuoia per la roba e per l’epatite, eh?”
Adesso Moreno aveva iniziato a piangere, ma Sensi non aveva ancora finito con lui.
“Non è meglio perdersi qualche vagito del bambino – che tanto non c’è – e non perdersi, tipo, la sua licenza elementare, o quando si sbuccerà le gambe giocando a calcetto, o quando avrà bisogno di un padre abbastanza in forma da andarlo a prendere in discoteca?”
“Cazzo, commissario…” piagnucolò Moreno.
“Già, mi sto commovendo da solo.”
L’altro lo guardò con gli occhi umidi e Sensi pensò che assomigliava a un cane malato che prova a convincerti a non fargli l’iniezione. Tranne che, in effetti, un’iniezione probabilmente era proprio quello che Moreno desiderava, in quel momento.
Si alzò in piedi e gli tese una mano per aiutarlo a fare altrettanto.
“Grazie, sei un bravo sbirro,” gli disse Moreno, sistemandosi meglio il bimbo in braccio.
“Questa me la tatuo sulle chiappe.”
“Dico davvero.”
Sensi gli fece l’occhiolino. “Anch’io. Niente scherzi.”

Una linea d'ombra - 11

Toxic Ville, come l’aveva ribattezzata mentalmente Sensi, era uguale al giorno prima. La madre di Omar, Teresa Rosario, era una donna giovane che sembrava una cinquantenne, con i fianchi larghi e la sclera degli occhi gialla. Per un istante Sensi vide una vaga somiglianza con Carmel, la sua pseudo-fidanzata, e quasi dovette tornare a vomitare.
Omar era tappato in camera sua, Moreno guardava la tv a basso volume e il neonato se ne stava immobile sul divano facendo bolle dalla bocca.
Sensi entrò nella stanza di Omar.
“Ciao,” disse, iniziando a spostare i suoi vestiti dal letto senza che l’altro si scomponesse. Il ragazzo si tolse le cuffie e lo guardò con espressione vacua.
“Ah, sei tornato,” borbottò, senza entusiasmo.
“Già. Devo farti ancora una domanda. Dov’eri questa mattina dopo le quattro?”
L’altro inarcò le sopracciglia. “Ero qua, dove vuoi che fossi?”
“C’è qualcuno che può testimoniarlo?”
Omar sbadigliò. “Mia mamma, Moreno.”
“Qualcuno di vagamente attendibile, intendevo.”
L’altro scosse le spalle.
“E spegni quel cannone, per favore.”
Omar diede un’altra alzata di spalle e appoggiò la canna accesa sopra il solito portacenere strabordante.
“Questa mattina, dopo le quattro, è stato commesso un crimine.”
“Wow, scommetto che solo l’idea te lo fa venire duro.”
“Se non riesci a convincermi che sei stato qua tutta la notte sarò costretto ad arrestarti per questo crimine.”
“Ora sì che mi sto cagando in mano.”
“Quindi te ne sei stato qua. Mamma e Moreno se ne sono stati in camera loro, fatti persi, e tu potresti essere andato fino a Torino e ritorno, per quello che ne sanno loro. Inizi ad afferrare?”
Omar espirò ed inspirò, come se cercasse di rimanere calmo.
“Sono stato qua. La mamma era in camera sua a scopare un grasso vecchio flaccido per una ventina di euro, Moreno era sul divano a farsi una pera, il mio fratellastro si cacava addosso come al solito e io me ne sono stato qua a godermi l’allegro clima familiare, ok?”
“Lo sai il nome del grasso vecchio flaccido?” domandò Sensi, senza battere ciglio.
“No!” strillò il ragazzino. “No che non lo so, cazzo! Prova a chiederlo a Teresa, se proprio ti stuzzica!”
Sensi si alzò. “Se non se lo ricorda neanche lei, o se il tizio non si ricorda di te, ti porto dentro.”
Anche Omar si alzò in piedi. “Portami un po’ dove cazzo vuoi, sbirro! Vuoi sapere che cosa ho fatto questa notte? Lo vuoi sapere davvero?”
“Non immagini quanto,” rispose Sensi.
Omar gli mostrò il dito medio. “Mi sono scopato tua madre, sbirro.”
Sensi scosse la testa, contrariato.
“Forse non mi sono spiegato. Dammi una prova che non ti sei mosso di qua, o-“
“O mi metti dentro, sai che strizza! Sono minorenne, bello, non puoi farmi proprio nien-“
Omar non terminò la frase. Sensi l’aveva preso per il bavero della felpa oversize e l’aveva sollevato in aria, poi l’aveva attaccato contro il muro come un post-it.
“Non posso farti niente? Ma tu che cazzo ne sai di quello che posso farti, eh?” gli sussurrò il commissario. Omar provò a scalciare in aria. Come cavolo faceva quel tizio magrolino a tenerlo su con un braccio solo?
E poi, per un istante, Omar vide i suoi occhi che riflettevano la luce come quelli di un animale, ed erano di un colore che sembrava sangue.
“Lasciami!” provò a gridare, ma le sue corde vocali, compresse dal pugno dell’altro, non collaborarono.
“Sto aspettando,” disse Sensi, gelido. Non sembrava affaticato, sembrava solo incazzato nero. Non incazzato come la mamma quando Omar le chiedeva qualcosa, qualsiasi cosa, e non incazzato come Moreno quando non aveva i soldi per farsi. No, quella era una qualità di incazzatura tutta nuova per Omar, e molto più spaventosa.
“Ok, senti…”
Lo sbirro allentò un po’ la presa.
“Fammi… scendere…”
Omar si ritrovò di nuovo con i piedi per terra e tossì un paio di volte.
“E va bene, guarda che cosa ho fatto stanotte, ok?” piagnucolò, tirandosi su le maniche della felpa. “Solo questo,” iniziò a singhiozzare. “Nient’altro…”
Sensi osservò per qualche secondo i nuovi tagli che erano comparsi accanto alle cicatrici di quelli vecchi, poi uscì dalla stanza e andò a farsi la seconda vomitata della giornata.

venerdì 12 giugno 2009

Una linea d'ombra - 10

Il commissario non era mai stato, per quel che ne sapessero i suoi uomini, una persona dal carattere solare. Nelle giornate di buonumore, che erano rare come le giornate serene di Spezia, era irritabile, sarcastico e vagamente indisponente.

Quando era di cattivo umore, ossia abbastanza spesso, era l’equivalente umano di un cactus, solo vestito come un gotico.

Ma la squadra mobile raramente l’aveva visto di un umore così nero e così poco loquace.

Da quando avevano trovato, su segnalazione di un vicino, il cadavere della Buscetta, il capo si era limitato a monosillabi funerei e a occhiate cupe.

Tudini aveva provveduto a indire una riunione nel suo ufficio ed era andato personalmente a recuperare Sensi nel suo.

L’ufficio di Tudini era il classico luogo da impiegato pubblico. La scrivania era un po’ in disordine, ai muri c’erano degli scialbi poster di paesaggi, le poltroncine erano lise e il computer era di un modello già vecchio quando era uscito dalla fabbrica.

“Il medico legale non ha ancora effettuato un’autopsia della vittima – è fissata per lunedì mattina,” iniziò Tudini, in piedi accanto alla sua scrivania con il taccuino in mano. “Ma ha eseguito alcuni rilievi preliminari. La Buscetta è stata colpita ripetutamente alla testa con un corpo contundente non identificato di forma tubolare, forse una spranga o un tondino di ferro. La natura ripetuta dei colpi indica che non può trattarsi in alcun modo di un incidente domestico, per cui l’abbiamo classificato come omicidio. La morte è sopraggiunta nelle ultime ore della notte o nelle prime ore del mattino, ed è stata pressoché istantanea.”

“Ci sono ferite da difesa?” chiese la Riu, che se ne stava in piedi accanto alla porta.

“Il polso destro è fratturato, quindi probabilmente l’assassino l’ha colpita mentre cercava di fermarlo.”

“La porta non presenta segni di scasso,” disse Mainardi, sfogliando a sua volta un taccuino. Sensi, per una volta, non sembrò minimamente infastidito dagli onnipresenti supporti cartacei. Si limitò a restare appoggiato alla porta, a sinistra della Riu, senza emettere una parola. Cosa che poi aveva fatto fin dalla mattina. “Quindi dobbiamo presumere che abbia lasciato entrare l’assassino volontariamente,” continuò Mainardi.

“O che l’assassino fosse già lì con lei,” aggiunse Tudini. “Il medico legale ha detto che nelle ore precedenti alla morte la Buscetta ha avuto uno o più rapporti sessuali, apparentemente consensuali.”

“Questo lo sappiamo già,” intervenne Mainardi. “Non ci interessa.”

Tudini aggrottò le sopracciglia, ottenendo il risultato di assomigliare in modo inquietante a un primate pensoso. “Insomma, direi di sì, invece. Ma il partner sfortunatamente ha usato il preservativo.”

“Be’, qua dobbiamo metterci d’accordo,” interloquì Mainardi, “non possiamo dire una volta che usare il preservativo previene l’AIDS e la volta dopo dire che usare il preservativo ostacola le indagini per omicidio. Mandiamo un messaggio contraddittorio.”

“Mainardi, ma hai bevuto?” ribatté Tudini.

“Dico solo che la prossima volta che andrò a fare prevenzione del crimine in una scuola…”

“Basta, Mainardi.”

Tudini, la Riu e Mainardi si voltarono verso Sensi, che aveva appena parlato con voce seccata e si era staccato dalla porta.

Il commissario si andò ad appoggiare alla scrivania di Tudini e fece scrocchiare le ossa del collo.

“Ci sono andato a letto io, questa notte. Ma non è stata un’esperienza così tragica da farmela uccidere questa mattina. Anche perché lo sapete come sono, alla mattina: non sono in grado di fare alcunché.”

Il resto della squadra lo fissò in silenzio per vari secondi, ognuno elaborando un diverso scenario mentale.

Tudini, che era pragmatico e devoto, iniziò a pensare ai possibili risvolti processuali, nel caso che avessero preso l’assassino.

La Riu rimosse coscienziosamente dal proprio cervello qualsiasi immagine mentale del capo nudo che faceva porcherie, riuscendoci solo in parte.

Mainardi si sparò un film completo, con tanto di rumori e effetti speciali, che terminava con la Buscetta che aveva uno strepitoso e ululante orgasmo.

“Me ne sono andato verso le quattro, e la porta era chiusa. Questo, più o meno, è tutto,” aggiunse Sensi.

La Riu scosse la testa. “Cristo santo, commissario,” iniziò a dire.

“Cristo santo, ispettrice,” replicò Sensi, sarcastico. La Riu mise prontamente il broncio, ma se ne restò in silenzio.

“Ora,” continuò Sensi, tirandosi indietro i capelli, “forse la mia coscienza non è candida come un giglio, ma credo che ci sia almeno una persona collegata a questo caso con la coscienza un po’ più sporca della mia.”

“Il ragazzino,” disse Tudini. “Omar Gomez. Ci stavo pensando anch’io.”

Sensi si staccò dalla scrivania. “Bene, andiamo a sentire che cosa ha da dire.”

“Commissario,” lo bloccò la Riu, “è sicuro che sia una buona idea che sia lei a interrogarlo?”

L’altro sollevò i palmi delle mani. “Penso che sia un’idea di merda, in realtà, ma credo che lo farò lo stesso. Sa, svegliarmi la mattina con le mani che sanno ancora dell’odore di una donna morta mi fa girare un po’ i coglioni.”

La Riu aprì la bocca per replicare, ma Sensi la fermò. “A meno che quella donna morta non sia un’ispettrice di polizia, è chiaro. In quel caso potrei anche conviverci. E adesso corra a farmi rapporto e si levi dalle palle.”

“Sissignore,” ringhiò la Riu, e si allontanò a passi lunghi e rigidi.

Sensi si passò una mano sulla faccia. Probabilmente aveva un po’ esagerato.

“’Fanculo,” borbottò, e recuperò il giubbotto.

giovedì 11 giugno 2009

Una linea d'ombra 9

Mainardi e Tudini guardavano il cadavere con una certa stanchezza. Non era uno degli esemplari più raccapriccianti che gli fossero capitati nelle loro carriere di diversa durata, ma comunque un cadavere non è mai uno spettacolo particolarmente piacevole.
Se è il cadavere di una persona che hai già visto da viva, poi, è uno spettacolo vagamente deprimente. Be’, a meno che non si tratti del banchiere che ti ha negato un prestito, è ovvio.
Quando c’è un cadavere nella stanza, tutto il resto sembra scomparire, motivo per cui gli arredatori non consigliano mai di metterne uno in soggiorno. E questa, meditava Mainardi, che aveva da poco comprato una casa con un mutuo ventennale, era una delle poche cose che un arredatore poteva fare a favore dell’estetica di un appartamento.
Fu risvegliato dai suoi pensieri dai passi pesanti di qualcuno sulle scale.
Un istante dopo il commissario entrò dalla porta aperta, salutato dai benvenuti svogliati dei due agenti di piantone.
Mainardi e Tudini si voltarono per accoglierlo.
“Penso che abbiamo un problema, capo,” disse Mainardi, indicando il cadavere.
Anche Sensi lo guardò. Per qualche secondo osservò il cadavere di Erica Buscetta steso sul pavimento, con la testa in una pozza di sangue ormai secco, senza dire una parola.
Poi Mainardi lo vide diventare all’improvviso di un colorito verdastro, e Sensi, sempre senza parlare, corse verso una porta chiusa e si infilò nel bagno.
Tudini e Mainardi lo sentirono vomitare per cinque minuti buoni.
“Che cosa…?” borbottò Tudini, che aveva visto il commissario scherzare e fare battutacce con le mani infilate nella cavità toracica di un cadavere abbondantemente putrefatto.
Mainardi guardò il corpo della Buscetta e la porta del bagno da cui continuava a provenire un inconfondibile rumore di conati, e fece la prima deduzione della sua carriera investigativa.

Una linea d'ombra - 8

Sensi dormiva. Non dormiva proprio beatamente, ma dormiva sodo, con la faccia schiacciata contro il cuscino del suo letto singolo, circondato dai suoi vestiti sporchi, dai suoi dischi e dai suoi libri.
Anche se era già mezzogiorno passato non era assolutamente pronto per svegliarsi.
Purtroppo il suo telefono di casa non aveva alcun rispetto per questo sentimento, e si mise a suonare senza preavviso.
Ovviamente Sensi tentò di ignorarlo, ma il telefono continuò.
Sperò ardentemente che Salvemini non volesse un altro rendez vous. Due mattine di seguito con Salvemini probabilmente l’avrebbero costretto a passare dal Prozac all’eroina e Sensi non era ansioso di passare all’eroina.
Si arrese all’evidenza che il telefono avrebbe continuato a suonare ininterrottamente finché non avesse risposto e afferrò il cordless per portarselo sotto alle coperte.
Rispose senza dire una parola.
“Ermanno?” gli giunse la voce di Tudini.
“No, sono cameliela cinese. Io lascia massaggio, sì?”
“Ermanno, devi venire subito.”
Sensi sospirò. “Dove?” provò a chiedere.
La risposta non gli piacque per niente.

mercoledì 10 giugno 2009

Una linea d'ombra - 7

La sala d’attesa del pronto soccorso del Sant’Andrea era affollata di umanità varia. Sensi precedette la Buscetta allo sportello dell’accettazione, dove erano in attesa già un paio di persone.
L’educatrice si era infilata un paio di jeans, un maglione a collo alto bianco e una giacca imbottita corta verde bottiglia. Sensi iniziava a essere curioso di vedere il livido che aveva sul culo.
Aspettò pazientemente che le persone davanti a loro elencassero i propri disturbi, poi premette il distintivo contro il vetro dello sportello.
“Sono il commissario capo Sensi,” spiegò all’infermiere esausto davanti al computer. “Sarei grato se qualcuno visitasse questa signora e le refertasse le percosse.”
L’infermiere gli lanciò uno sguardo vacuo. “I medici sono tutti impegnati. Vedo cosa posso-“
“Non sarei venuto di persona se non ne avessi avuto bisogno. Sa, anch’io sono tutto impegnato.”
“Sì, mi rendo conto, ma…”
“Per non parlare del fatto che le sto rivolgendo una richiesta ufficiale. E la signora si chiama Buscetta, non so se mi spiego.”
“Sì, signore, ho capito. Lasciamo morire un paio di incidentati gravi e facciamo passare la signora, allora.”
“Questo è l’atteggiamento mentale giusto.”
L’infermiere sbuffò e premette il pulsante che apriva la porta scorrevole. “La faccia entrare, intanto.”
“La ringrazio per essere stato così sensibile alle prevaricazioni,” disse Sensi, e sospinse la Buscetta dentro. “La aspetto qua. Provi a simulare un accento siciliano, se ci riesce. E se vuole andare dalla parrucchiera, è chiaro.”
L’educatrice sorrise. “Bedda matri… stong’ sperut’ e i add’a parrucchiera!”
“Mh. Credo che la seconda parte fosse in napoletano. Si limiti a ripetere ‘bedda matri’, ok?”
L’altra sospirò e entrò nel pronto soccorso, Sensi si andò a sedere in un posto libero tra l’umanità dolente della sala d’aspetto.
L’aria era innaturalmente calda, rispetto al gelo che c’era fuori, ma era tagliata a intervalli irregolari dalla lama di freddo che entrava ogni volta che qualcuno apriva la porta. Sensi si sfilò il giubbotto e lo appallottolò dietro la sua schiena. Un ragazzetto obeso vestito di nero lumò con interesse la sua felpa dei Neu!. Per un po’ il commissario rimase ad osservare il viavai all’accettazione, ma si stancò quasi subito. Lasciando la giacca come segnaposto andò al distributore automatico di bibite che c’era in un angolo.
“Non ci sono le palette,” gli disse una signora, volenterosa. Apparentemente aveva un piede in cancrena. Sensi si chiese se fosse successo mentre aspettava il suo turno o se avesse cominciato a marcire prima.
Prese una lattina di coca, visto che di Red Bull non ce n’era.
Tornò a sedersi sopra al suo giubbotto. Accanto a lui un tizio sulla ventina in tuta da operaio autostradale arancione si teneva in grembo una mano sulla quale era stata sparata una graffetta metallica di proporzioni imponenti.
Il tizio si accorse di essere osservato, e gli rivolse un largo sorriso candido.
“Stato incidente,” spiegò, con accento dell’est. “Avevo sparagraffette in mano e pum! Nella mia mano. Qui da tre ore. Loro dice che non urgente.”
“Mh-mh. È quasi estetica. Pensi che c’è gente che paga per farsi un piercing.”
Il ragazzo rise. “Ma non piercing alla mano, forse!”
“C’è gente che si fa bucare ovunque, mi creda,” ribatté Sensi, che in effetti aveva un piercing sulla punta del cazzo.
“Be’, mica io. Stato incidente. Capo mi accompagna qua e dice dopo torni a lavoro. Ma io non pensa che torna a lavoro prima di domattina. Forse dormo qua.”
Sensi guardò le porte scorrevoli. Quanto cazzo ci voleva a refertare quattro lividi?
“Già, forse anch’io,” replicò.
“Tu italiano?”
Sensi sorrise. “Per un pelo. Sono di Gorizia.”
“Ah, Gorizia io conosce! Stato a Monfaldone con autostrada.”
“Già, Monfalcone è lì vicino.”
“Io di Romania, ma non zingaro.”
“Io, invece, sono per metà sloveno.”
“Tuo papa è di Slovenia?”
Sensi si chiese come avesse fatto a cacciarsi in quella conversazione. “No, mio padre è, era, mah, italiano. Suppongo che sia ancora vivo, per quel che conta.”
“Tu non d’accordo con tuo papa,” dedusse astutamente il rumeno.
“Nessun essere umano di buon senso andrebbe d’accordo con mio padre, credimi.”
Le porte scorrevoli del pronto soccorso si aprirono per far uscire un tizio con le stampelle. Chissà, forse prima di entrare camminava perfettamente, pensò Sensi, che in effetti avrebbe pensato a tutto pur di non pensare a suo padre.
“Mio papa e mia mama è in Romania,” disse l’operaio con la graffetta nella mano. “Io pensa che forse può venire qua, ma immigrazione dice no. Così loro resta in Romania e anche miei fratelli. Tu ha fratelli?”
Sensi stava per rispondere che aveva un fratello, ma le porte scorrevoli si aprirono di nuovo e questa volta uscì la Buscetta, che apparentemente camminava ancora con le sue gambe.
“Tua ragazza molto carina. Io spera sta bene.”
Sensi sorrise. “Sta bene, ma non è la mia ragazza. Ciao, amico. Spero che ti levino quella graffetta senza bisogno di amputarti la mano.”
L’operaio rise. “Io pensa che forse me ne va a casa e la toglie col cacciavite.”
“Probabilmente è più sicuro,” convenne Sensi, rimettendosi il giubbotto e raggiungendo l’educatrice. “Allora?”
“Tutto ok,” disse lei. “Hanno detto che vi inoltreranno i referti domani.”
Sensi si grattò il mento. “Be’, tanto non volevamo fare un arresto lampo. Ci viene già difficile fare degli arresti non-lampo, non so se mi spiego. Adesso la accompagno in questura, ok?”
L’altra annuì. “Grazie. E non c’è bisogno che mi dai del lei. Obbiettivamente, se dici ancora una volta ‘signora Buscetta’ inizierò a credere che mia madre è qua attorno.”
Sensi meditò brevemente sull’informazione. “In questo caso mi sento in dovere di dirti che la deontologia professionale non è il mio forte.”

Una linea d'ombra - 6

Mainardi e Tudini si erano gelati le chiappe, ma solo finché non si erano chiusi in un confortevole bar dei dintorni.
Mainardi aveva ribadito che lui non avrebbe avuto problemi a farsi molestare da quella tizia, ma Tudini aveva scosso la testa in modo pessimista e aveva continuato a bere un cappuccino dietro l’altro.
Sensi l’aveva chiamato dopo una ventina di minuti.
“Cambio di programma. Accompagno la Buscetta al pronto soccorso. Voi tornate in questura.”
Tudini aveva annuito. Poi, rendendosi conto che l’altro non poteva vederlo, aveva detto: “Ok, Ermanno. È un caso di…”
“Percosse. Solo percosse. Forse l’aura negativa di Salvemini si è dissipata.”

lunedì 8 giugno 2009

Una linea d'ombra - 5

“Ermanno, qua dobbiamo subito far intervenire qualcuno. I servizi sociali, il tribunale dei minori…”
“La protezione civile…” concluse Sensi, risalendo nel wrangler.
Tudini non lo ascoltò. “Quel bambino, quell’uomo…”
“Sì, sì,” troncò il discorso il commissario. “Di’ alla Riu di attaccarsi al telefono e di far muovere il culo a qualcuno. E poi mettiti comodo ad aspettare.”
Tudini si allacciò coscienziosamente la cintura mentre Sensi usciva dal parcheggio e si ri-immetteva nel traffico. “Ma prima chiama Mainardi e digli che lo passiamo a prendere. Andiamo a interrogare la temibile masturbatrice.”
L’ispettore gli lanciò un’occhiata sospettosa. “Dici che se l’è inventato?”
“Mah.”
E dal commissario non fu più possibile ricavare una parola fino a che non furono sotto la casa di Erica Buscetta.
Erano dalle parti di piazza Brin, ma nella zona bassa, quasi al confine col centro storico. Qua l’edilizia popolare aveva costruito dei condomini di mattoncini, di cinque o sei piani, attorno a dei cortili un tempo attrezzati con qualche intrattenimento per i bambini, degli scivoli o delle giostre di ferro. I cortili si erano riempiti di erbacce e di cacche di cane e i giochi si erano arrugginiti, ma i condomini nel complesso reggevano.
Al contrario che nei palazzi che davano su piazza Brin, qua gli appartamenti erano quasi tutti assegnati dal Comune – erano le cosiddette Case Popolari. La maggioranza erano occupate da vecchietti che se le tenevano strette con le unghie e con i denti, qualcuna era stata occupata illegalmente da famiglie che ci vivevano da anni, qualcun’altra era stata venduta ai proprietari, che poi l’avevano rivenduta o affittata. Probabilmente era quello che era successo a quella della Buscetta.
Sensi suonò al citofono, che si era salvato per un pelo da un gigantesco murales che inneggiava alla droga libera, e si fece aprire. La voce che aveva risposto era assonnata, ma non sembrava preoccupata che la polizia potesse arrestarla.
Sensi, Tudini e Mainardi salirono fino al quarto piano senza ascensore, dove li attendeva una porta socchiusa.
Sensi bussò leggermente e finì di aprire la porta.
Dietro, in piedi, c’era una donna sulla trentina, con i capelli corti e scuri, che indossava un pigiama di flanella e un paio di ciabatte a forma di coniglio.
Contrariamente alle sue previsioni, non era per niente un cesso, ma l’occhio destro gonfio e tumefatto non aumentava un granché le sue doti seduttive.
“Commissario Sensi,” disse, mostrandole il distintivo. “Gli ispettori Mainardi e Tudini. Possiamo scambiare due parole?”
La donna si fece da una parte. “Sì, certo. Scusate per il disordine.”
Sensi si guardò attorno. Le pareti erano tinteggiate di viola chiaro, e nel soggiorno c’era un panciuto divano verde. Il ‘disordine’, probabilmente, erano dei libri e delle riviste lasciati qua e là e una coperta patchwork abbandonata sul divano.
“Erica Buscetta, giusto?”
“Sì, sono io. È successo qualcosa?” chiese, in tono un po’ insicuro.
“Non so. Vogliamo parlare del suo… incidente domestico?” ribatté Sensi, slacciandosi la giacca. Là dentro, almeno, faceva caldo.
La donna prese un’espressione incerta. Poi fece un piccolo sorriso. “Ok, gradite qualcosa? Ho del tè e poi… hem, solo il tè, credo. Forse del latte.”
Sensi osservò per qualche istante, in silenzio, il suo pittoresco occhio nero.
“Tudini, Mainardi,” disse, poi, “andatemi a prendere una Red Bull, ok?”
I due si guardarono tra loro.
“Sì, capo,” annuì, poi, Mainardi, e tirò via l’ispettore più anziano. “Arrivederci.”
“Prego, si accomodi,” disse l’educatrice, quando i due si furono richiusi la porta dietro. “Grazie per…” e indicò vagamente la direzione da cui se ne erano andati Mainardi e Tudini.
Sensi si andò a sedere sul divano, che era panciuto esattamente come sembrava, spostando leggermente la coperta patchwork. L’educatrice si sedette all’altro capo.
“Se le dico Omar Gomez le viene in mente qualcosa?”
L’educatrice si sfilò le ciabatte e si rannicchiò con i piedi sotto il corpo.
“Non volevo denunciarlo. È un ragazzino pieno di problemi,” disse.
“Già. Sono stato a trovarlo. Mi può raccontare che cosa è successo?”
L’altra scosse la testa e fece vagare lo sguardo sul soffitto. “Guardi, con esattezza non lo so neanch’io.”
“Cominci dall’inizio.”
“Io faccio l’educatrice al Chiodo,” spiegò lei. “Ha presente?”
Sensi fece un vago sorrisetto. “Metà dei minori che arrestiamo vengono di lì. È un istituto commerciale, giusto?”
“Esatto. Io devo seguire un ragazzo che ha dei problemi di motilità.”
“Lavora per una cooperativa sociale?”
“Sì, la Gabbiano Verde. Lavoro al Chiodo da circa due anni.”
Sensi accavallò le gambe e provò a rilassarsi contro lo schienale. La giornata di merda si avviava a passo sostenuto verso la completa schifezza.
“Omar ha dei problemi… be’, ha dei problemi in tutte le materie. Un po’ di tempo fa l’hanno fermato mentre aveva con sé dell’hashish, e sembrava che avesse deciso di darsi una sistemata. Ma era indietro, più o meno su tutto il programma. Quando la professoressa gli ha detto che l’avrebbe interrogato di italiano mi ha chiesto se gli davo una mano a ripassare.”
Sensi annuì. Fin qui più o meno tornava tutto.
“Che cosa doveva ripassare?”
“Saba e Montale.”
“L’ha fatto venire qua?” domandò Sensi, in tono neutro.
L’altra annuì, mordicchiandosi un’unghia. “È stata un’idiozia, ma è solo un ragazzino…”
Sensi avrebbe potuto compilare un elenco infinito di tutti gli adulti che aveva sentito dire una frase del genere e che poi se ne erano pentiti.
“Cos’è successo?”
L’educatrice fece un gesto vago. “Abbiamo iniziato a ripassare. Lui era disattento, faceva delle battute fuori luogo e ho avuto l’impressione che si fosse drogato.”
“Mi spieghi.”
“Era agitato, non riusciva a stare fermo. Gli ho chiesto direttamente se avesse sniffato qualcosa. È stato lì che mi ha fatto l’occhio nero.”
Erica gli fece un sottile sorriso e si strinse nelle spalle. “È come… impazzito. Ha iniziato a colpirmi. Che imbecille.”
Non era chiaro se si riferisse a lui o a se stessa.
“L’ha picchiata,” disse Sensi.
“Eh, sì.”
Il commissario rimase in silenzio per qualche istante, guardandola. Poi disaccavallò le gambe e appoggiò i gomiti sulle ginocchia.
“L’ha solo picchiata?” chiese.
L’altra lo guardò per un attimo con espressione stupita. “Ah,” disse poi. Sorrise. “Sì, mi ha solo picchiata. Mi ha dato un pugno in faccia… be’, quello si vede.” Si alzò in piedi e si sollevò un lembo del pigiama, mostrando le costole. “Mi ha anche dato un pugno qua.” Si riabbassò il pigiama e si voltò. “E anche un calcio in culo. Le devo far…?”
Sensi rise. “Non direi. Sa, anche le costole erano superflue.”
L’educatrice si rimise a sedere.
“Pensa che sia un’idiota, giusto?”
“Sono molto sollevato,” rispose Sensi. “Sa, ho avuto una giornata di merda. Uno stupro sarebbe stata la ciliegina sulla torta. Posso chiederle di nuovo se è assolutamente certa che non l’abbia toccata, molestata, obbligata a fare qualcosa… Non deve rispondere di no solo per salvarmi da una giornata di merda.”
Lei rise. “No, davvero, sono stata malmenata, e anche un po’ insultata, ma nient’altro. Quando ha finito se n’è andato da solo.”
“E non c’è stato niente di sessuale, durante tutto il tempo?”
“Devo rispondere di sì per farla contento?”
Sensi si tirò indietro i capelli.
“Tra l’altro, è normale che lei abbia i capelli così lunghi?” interloquì l’educatrice, che si era notevolmente ravvivata da quando si era resa conto di non essere stata poi così sfortunata.
“Gomez l’ha denunciata per molestie,” disse l’altro, ignorando la domanda sui capelli.
“Cooosa?!” strillò l’educatrice, balzando in piedi. “Che molestie? Che cazzo… cioè, scusi, ma che cavolo…”
“Sa, l’ho già sentita altre volte, quella parola.”
“Sì, ok, immagino. Be’, allora… che cazzo di molestie?”
Anche Sensi si alzò. “Segreto istruttorio.”
“Io non ho molestato proprio nessuno! Quello è uno stronzetto sedicenne ed è anche uno spacciatore in erba… perché cazzo avrei dovuto molestarlo? Io ho una vita sociale normale e…”
Erica fece un gesto estenuato. “No, ok, non ho una vita sociale normale: lavoro un casino e prendo una miseria di stipendio. Certo che non ho una vita sociale normale, ma non vado neanche a molestare dei mocciosi strafatti!”
“È stata chiara. Le giuro che ho interiorizzato il concetto.”
Lei sospirò platealmente, poi iniziò a piangere, poi si asciugò gli occhi con rabbia e infine diede un calcio al divano panciuto.
“Ok, fine dello show,” disse poi. “Che cavolo dovrei fare, ora?”
Sensi si strinse nelle spalle. “Se vuole può denunciarlo per percosse.”
“Certo che lo denuncio per percosse, quello stronzo! Dove devo firmare?”
Sensi alzò le mani. “Un attimo. Prima deve andare al pronto soccorso e farsi refertare le lesioni, è così che funziona.”
L’altra stava passeggiando avanti e indietro per il suo salotto. “Ok, sì, pronto soccorso. E poi?”
“Poi viene in questura e sporge regolare denuncia.”
“Denuncia, ok. Che cosa…”
Sbuffò, si asciugò gli occhi, poi sbuffò di nuovo. “Lo arresterete?”
Sensi sorrise. “Un minore? Se fossi in lei non ci perderei il sonno.”
“Quello deve farsi vedere da qualcuno.”
“Può darsi.”
Lei continuò a camminare avanti e indietro per l’appartamento, passando dall’incazzatura alla tristezza e ritorno. “Ha una situazione familiare di merda, lo sapete, no?”
“Lo sappiamo.”
“Il suo patrigno è un tossico.”
“Sì, lo so.”
“Sua madre è una prostituta e una tossica.”
“E il fratellino sembra un bambolotto vecchio modello, di quelli che non piangono e non fanno la pipì, sì, lo sappiamo già.”
Erica continuava a passeggiare avanti e indietro per l’appartamento, in crisi.
“E devo andare al pronto soccorso, eh? Dio, ci perderò delle ore. Alle tre ho un appuntamento dalla parrucchiera. Lei sa quant’è difficile avere un appuntamento decente dalla parrucchiera?” Gli lanciò un’occhiata distratta. “No che non lo sa.”
“In effetti no. Senta, al pronto soccorso ce la porto io, ma lei dopo dovrà andare a sporgere denuncia, ok? E se salta l’appuntamento dalla parrucchiera…”
“Non volevo sembrarle frivola. Ma ho già un occhio nero, anche i capelli incasinati era un po’ troppo.”
Sensi sorrise. “Volevo dire, che anche con i capelli incasinati è abbastanza ok, è l’occhio nero che rovina l’insieme, ma vedo che ci aveva già pensato da sola.”
L’altra si mise a ridere.
“Certo che lei sa proprio come tirare su l’umore a una donna, eh?”
“Da quando sono stato sui giornali non ho più bisogno di questi mezzucci.”
L’educatrice lo guardò per qualche secondo con la fronte aggrottata.
“Ma certo,” disse, alla fine. “Lei è quello che ha catturato il serial killer! Sul giornale sembrava più…”
“Per favore, non lo dica.”
“…sembrava più brutto. Forza, vada a recuperare i suoi uomini, si staranno gelando le chiappe, là fuori. Io sarò pronta in una frazione di secondo.”

venerdì 5 giugno 2009

Una linea d'ombra - 4

Il ragazzino, si scoprì, abitava a Bragarina. Era piuttosto probabile che, dalla questura, facessero prima a piedi, ma il commissario non se la sentiva di gelarsi le chiappe attraversando il parco che li separava dalla via della loro vittima.

Si mise alla guida del suo wrangler nero e si infilò nel traffico delle undici del mattino, con Tudini accanto.

In tutte le altre città del mondo le undici del mattino sono un periodo di fiacca. Chi doveva entrare al lavoro alle otto o alle nove era già entrato, i negozi erano aperti, le casalinghe a fare la spesa, i bambini a scuola. In teoria uno avrebbe dovuto aspettarsi di trovare per la strada solo furgoncini delle consegne e pensionati zelanti. Il fatto che Spezia fosse composta al 70% di pensionati, naturalmente, serviva in parte a spiegare il problema. Le strade erano intasate di macchine. Ma non di macchine frizzanti piene di gente che sta andando da qualche parte e vuole arrivarci prima della prossima glaciazione globale, no. Erano piene di macchine piene di gente vagolante, che non sapeva bene come buttar via il suo tempo, che procedeva a passo di tour panoramico, che aspettava speranzosa la prossima glaciazione per rompere un po’ il tran-tran.

Sensi percorse i cinquecento metri scarsi che li separavano dal brutto palazzotto anni ’60 della vittima in circa venti minuti e finì per parcheggiare in divieto nell’enorme parcheggio antistante, che a quell’ora, di logica, avrebbe dovuto essere vuoto, ma che invece straripava di macchine.

“Ermanno,” gli disse Tudini, mentre lui si chiudeva il giubbotto di pelle fino al mento. Forse, a pensarci bene, la successiva glaciazione globale era già iniziata. “Cerca di usare del tatto con questo ragazzino, va bene?”

“Ma se sono la persona più empatica del mondo,” protestò il commissario, ma non sembrava veramente offeso.

Il portone del palazzo era decorato a destra e a sinistra da due murales di fattura non eccelsa che inneggiavano all’uso della marijuana. Parte dei rami di una gigantesca foglia verde e seghettata copriva la pulsantiera del citofono, rendendo impossibile discernere i nomi sulle targhette.

“Suoniamo a un campanello a caso?” propose Tudini.

Sensi spinse il portone. “È aperto,” disse. 

L’interno era illuminato da una luce al neon intermittente e freddo come una catacomba. Qualcuno aveva pensato di ravvivare le pareti verde marcio continuando anche qua la campagna artistica per la diffusione della marijuana.

“Saliamo,” disse Sensi e si infilò su per le strette scale scrostate, ignorando l’ascensore. Non che condividesse le ansie dei suoi colleghi da telefilm nei confronti degli ascensori, ma quello in questione aveva l’aria di essere stato rottamato nell’83.

Salì prudentemente per un paio di rampe, occhieggiando le targhette sulle porte. Nelle scale c’era un odore misto di cane sporco e sudore, ma un paio di adesivi chiarivano eloquentemente che le visite dei Testimoni di Geova non erano benaccette, segno che anche lì doveva vivere della brava gente.

I Rosario-Gomez-Morelli abitavano al terzo piano. Sulla loro porta non si menzionavano i Testimoni di Geova, ma qualcuno, ultimamente, aveva avuto dei problemi a centrare la serratura. I suoi problemi dovevano poi essersi estesi fino a non trovare più neanche le chiavi, perché c’erano anche dei segni di scasso malamente riparati.

“Bel lavoretto,” commentò Tudini, che stava ancora ansimando per via dei tre piani di scale.

“Se avessero messo un bell’adesivo anche loro, i Testimoni di Geova non avrebbero tentato di entrare con la forza,” rispose Sensi, fatalista.

Suonò il campanello, che emise un suono gracchiante perfettamente in linea con gli standard del palazzo. Non giunse risposta.

“Forse non ci sono,” disse Tudini. “Forse il ragazzo e a scuola e i genitori sono al lavoro.”

“Forse sono tutti a visitare il museo etrusco, o ad aiutare i senzatetto, o a fare una corroborante passeggiata,” annuì Sensi. “O forse Moreno è strafatto in soggiorno e non è sicuro di riuscire ad arrivare alla porta.”

Riprese a suonare e diede anche un paio di calci sullo stipite.

“Arrivo!” gli giunse una voce strascicata, dall’interno.

“Niente museo etrusco,” commentò Sensi. Poi la porta si aprì con un rumore cigolante.

Dietro c’era un tizio altissimo, magrissimo, con i capelli neri e sporchi, la carnagione giallastra e con un bebè in braccio. Indossava i pantaloni di una felpa verdina, una maglietta bianca piuttosto sciupata e teneva il neonato contro un fianco. Stava fumando una sigaretta.

“Teresa non c’è,” disse, facendo cadere un po’ di cenere per terra.

Sensi gli mise sotto il naso il suo distintivo.

“Sergio Morelli, detto Moreno?”

L’altro, per un attimo, sembrò sul punto di scappare, ma poi sospirò con aria rassegnata.

“See. Che cosa ho fatto, ora?”

Sensi gli scivolò accanto ed entrò in casa.

“No, ma accomodatevi, eh?” gli disse Moreno, dalla porta. Poi la richiuse con un calcio e li seguì all’interno.

Quel che si vedeva della casa era un tinello, un bagno e due porte chiuse.

Sensi lasciò vagare lo sguardo per un istante, ma quando vide la stagnola bruciacchiata sul tavolino, decise che poteva anche fare a meno di guardare. Sfortunatamente, spostò gli occhi proprio su una confezione da sedici di siringhe.

“Moreno, ti rendi conto che solo nella prima stanza c’è da darci lavoro per un mese?”

L’altro non sembrò scosso. “L’uso non è un reato.”

“Come no. Benvenuto nel presente, dolcezza. Nel presente tutto è un reato, nel caso ti fosse sfuggito. Comunque, lasciamo perdere le evidenti tracce di sostanze e parliamo del tuo figliastro, Omar.”

L’altro sospirò di nuovo. “Che cosa ha fatto?”

“Scusa, è nomale che quel bimbetto non si muova, o è una nuova versione fichissima di Cicciobello? Sai, la versione che non piange, non caga e non fa niente per rompere le palle come un bimbo vero?”

Morelli sollevò il bambino, che era avvolto in una tutina rosa troppo grande. “Ha il sonno pesante,” disse, con un mezzo sorriso sdentato. Lo prese meglio e se lo appoggiò contro il petto. Il neonato emise una sorta di gorgoglio, segno che almeno era vivo.

“Commissario…” iniziò Tudini, la cui espressione da Neanderthal si era fatta più aggrondata di minuto in minuto.

“Un attimo. Vorrei parlare con Omar, se c’è.”

Morelli indicò con un dito una delle porte chiuse. “Là dentro. Non si incazzi se la manda affanculo, l’educazione non è il suo forte.”

“Eh, uno fa del suo meglio per educarli a modino, e poi quelli vengono su tutti storti.” Sensi annusò l’aria, avvicinandosi a lui. “Tudini, cambia questo bimbetto, mentre io parlo con l’adolescente molestato, ok?”

Andò alla porta che gli aveva indicato Morelli e la aprì senza tante cerimonie.

Dentro c’era, in effetti, un adolescente. A prima vista era difficile individuarlo, perché la stanza era quasi satura del fumo speziato di uno spinello, e non doveva essere neanche il primo della giornata. Sensi si chiese oziosamente se la propaganda giù nel portone fosse riuscita a convincere Omar o se Omar fosse l’artefice della propaganda.

Un ragazzino sui sedici anni, forse percependo una variazione nel gradiente dell’aria, alzò gli occhi per guardarlo. Le orecchie erano completamente coperte da una cuffia collegata a uno stereo scassato.

Sensi spense lo stereo e si richiuse la porta alle spalle. Il ragazzino si tolse le cuffie.

“E tu chi cazzo sei?” chiese, con voce leggermente impastata.

“Uno sbirro,” rispose Sensi. Poi spostò un po’ dei vestiti ammucchiati sul letto e si sedette in un angolo. “Sono qua per via della denuncia che hai fatto ai servizi sociali. Ma ti sarei grato se spegnessi quel cannone.”

“L’uso non è…”

“Non dovresti credere a tutte le cazzate che ti racconta Moreno. L’uso adesso è un reato, ma non è il reato che interessa a me.”

Il ragazzino spense controvoglia lo spinello dentro un posacenere debordante. Sensi rimpianse mentalmente le due aspiranti veline di qualche ora prima, poi si rassegnò a dire: “Allora. L’educatrice.”

L’altro si strinse nelle spalle. “È in classe mia, per assistere un ragazzo spastico.”

“Cosa è successo?”

“Niente, è che io dovevo passare il saggio di italiano, ok? Non è proprio il mio forte, mia mamma è salvadoregna, Moreno… be’.”

“Ok.”

“Sono andato da lei perché ha detto che mi dava, tipo, una mano. Ma la mano me l’ha messa nelle mutande,” dichiarò Omar, con un sorrisetto.

Sensi rimase in silenzio.

“Be’, eravamo lì che stavamo, tipo, ripassando, no? E questa, dal niente, mi infila una mano nei pantaloni e inizia a menarmelo.”

“Cosa stavate ripassando?” chiese Sensi.

L’altro si strinse nelle spalle. “Roba. Comunque sul momento rimango un po’ sfasato, no? E quella continuava a menarmelo, con una faccia tipo: quanto mi piace toccarti il cazzo.”

“Mh.”

“E poi inizia a dirmi delle cose, tipo dei commenti sul mio pacco, ok? E poi mi sono alzato e ho detto: no, cazzo.”

“No, cazzo,” ripetè Sensi.

“Non era neanche una brutta sega, guarda. Ma ho pensato: io non voglio, ok?”

“E lei cosa ha detto?”

“Niente, ha provato a rimettermi una mano lì. Era davvero affamata. Ma io me ne sono andato. Poi ho pensato: che cazzo, questa è una molestia. E così sono andato ai servizi, e lì c’era questa tizia che mi ha detto che la denunciavamo.”

“Come si chiama?”

“Chi?”

“L’educatrice.”

“Erica.”

Sensi sorrise. “Per caso ha anche un cognome?”

“Erica Buscetta.”

L’altro annuì. “Ok, adesso andiamo a verificare. Qualcos’altro da aggiungere?”

Il ragazzino si strinse nelle spalle. “No, niente. Che devo fare, adesso?”

Sensi avrebbe voluto suggerirgli di raccontare subito tutto ai suoi amici, ma si trattenne. “Te ne rimani buono e aspetti che facciamo il nostro lavoro. Hai qualche precedente?”

L’altro sembrò a disagio. “Un paio di mesi fa mi hanno trovato con del fumo. Devono ancora processarmi, però.”

“Quanto fumo?”

“Tre etti.”

“Be’, neanche un pachiderma se ne fumerebbe così tanto per uso personale.”

Omar si strinse nelle spalle.

“Penso che ti beccherai un periodo di messa alla prova, e dovrai pisciare per un sei mesi.”

“Pure Moreno dice così.”

“Giusto, la voce dell’esperienza. Ti sollevi un attimo le maniche?”

L’altro fece uno scatto indietro. “Guarda che io non mi faccio!”

“Non l’ho mai pensato. Te le sollevi un attimo?”

Il ragazzino, controvoglia, si tirò su le maniche della felpa oversize. Sul braccio sinistro aveva un taglio, ormai cicatrizzato, che correva dal gomito al polso, sul lato interno del braccio, quello morbido. Lì accanto c’erano un altro paio di tagli, ma meno convinti.

“Come facevi a saperlo?” chiese Omar, mentre Sensi guardava i tagli.

“Non lo sapevo,” rispose lui, alzandosi. “Ah, e Moreno non può tenere quel bimbo, lo capisci, vero?”

Anche il ragazzino si alzò. Arrivava più o meno al mento del commissario.

“Ma è suo figlio, gli vuole bene!”

Sensi guardò per un istante il soffitto, semi nascosto dal fumo. “Ci credo. Ma non può tenerlo lo stesso. Non tra le siringhe e le stagnole. E tua madre…”

“Mia madre è una puttana!”

Sensi pensò che fosse meglio non approfondire, e specialmente che fosse meglio non chiedere se l’epiteto fosse un insulto o un dato di fatto.

“Dico solo: nel frattempo badaci tu a quel bimbetto, ok, Omar?”

L’altro inspirò ed espirò, come se stesse sbollendo la rabbia.

“Certo, sbirro dei miei coglioni,” borbottò, mentre Sensi usciva.

giovedì 4 giugno 2009

Una linea d'ombra - 3

Farsi passare l’assistente sociale incaricata del caso fu una questione lunga e dolorosa. Tra telefoni staccati, musichette d’attesa e ricerche non proprio frenetiche dei colleghi, la signora Elena Turri riuscì a svicolare per una mezz’ora.

Alla fine andò al telefono. Dalla voce non sembrava né preoccupata né pentita per averli fatti aspettare così tanto.

“Mi dica.”

“Questo Gomez,” andò direttamente al punto il commissario, “perché lo seguite voi?”

“Gomez…” rispose la Turri, in tono vago.

“Quello che è stato molestato dall’educatrice, ha presente?” Possibile che ricordarsi i dettagli del caso di un minore molestato fosse così difficile?

“Ah, sì. Non è lui a essere seguito, è la sua famiglia.”

“Teresa Rosario e Felipe Gomez.”

“No, Teresa Rosario è la madre, ma ora vive con un altro uomo. Vede, non sono io a seguirli, io ho solo raccolto la denuncia. Vuole che le passi la collega che…?

“Lo conosce il nome di quest’altro uomo?”

“Potrei guardarci sul computer.”

“Se non le causa un attacco di meningite fulminante, sarebbe un’idea.”

Dall’altro lato provenne un silenzio offeso, ma anche, fortunatamente, il rumore di qualcuno che ticchettava lentamente sui tasti di un computer.

“Ecco qua. Sergio Morelli.”

“Sergio Morelli,” ripeté Sensi. “Ok, e come mai…”

“Ah, no, questo davvero non lo so, eh? Le passo la mia collega.”

Prima che potesse replicare Sensi fu messo nuovamente in attesa. La musichetta era l’ultima hit di un gruppo inglese e Sensi si chiese che fine avesse fatto il buon vecchio Bach.

“Sergio Morelli…” borbottò Mainardi. “Ma non sarà mica Moreno il tossico?”

Sensi lo guardò vacuamente. “Morelli, Moreno… hanno solo quattro lettere in comune. Sei sicuro?”

“Chi, io? No, capo.”

Finalmente la cornetta diede di nuovo segni di vita.

“Sergio Morelli è Moreno il tossico?” chiese Sensi, senza lasciare il tempo alla quindicesima assistente sociale della giornata di deviare ancora una volta la chiamata.

“Eh? Io sono la segretaria. Volevo giusto dirle che la Datterio al momento è in riunione.”

“Sì, è chiaro. Anch’io sono quasi sempre in riunione. Mi aiuti lei, va bene? Sergio Morelli è Moreno il tossico?”

“Be’, un po’ di tempo fa era stato in comunità, ma poi, sa com’è…”

“Dovrebbero promuoverla assistente sociale,” la ringraziò Sensi, e riattaccò.

Si passò una mano sugli occhi, che gli comunicarono che erano ancora pronti a ricominciare a dormire, e si rivolse a Mainardi. “Guardi che precedenti ha questo Moreno, ok? Io e Tudini andiamo trovare il ragazzino.”

mercoledì 3 giugno 2009

Una linea d'ombra - 2

Tudini incrociava davanti al suo ufficio con una cartelletta in mano, sudando e aggrottando la fronte.

“Portami una Red Bull,” disse Sensi, passandogli accanto e aprendo la porta. “Quella Burn mi ha rovinato il palato.”

Tudini aveva ricevuto un addestramento di qualità superiore, e scattò verso il distributore automatico come un cane di Pavlov. “È urgente, però!” si sentì in dovere di precisare.

“Perché, la stanno stuprando in questo momento?”

Tudini ritornò con una lattina e gliela passò. “Lo stanno stuprando. È un ragazzino. E, no, è già successo.”

Sensi sospirò. “Chiama Mainardi, venite nel mio ufficio.”

Entrò e accese la fioca abat-jour, togliendosi gli occhiali. Pedofili, pensò, ma non c’era una sezione apposta per quel genere di schifezza?

Tudini rientrò con Mainardi un istante dopo. I due iniziarono a spostare sul pavimento parte della paccottiglia del capo e si sedettero senza cerimonie.

“Allora,” disse Sensi, tirandosi indietro i capelli. Quella era una giornata di merda, l’aveva capito dall’inizio. Non potevi incontrare il questore di prima mattina e poi aspettarti che andasse tutto bene.

“Dunque, ci è arrivata una segnalazione dai Servizi Sociali. Pare che questo adolescente, Omar Gomez, anni sedici, abbia ricevuto delle molestie da un’educatrice della sua scuola, l’Istituto Domenico Chiodo.”

“E quando sarebbe successo?”

“Ieri.”

Sensi inarcò le sopracciglia. “È un fatto grave.”

“Sì, in effetti…”

“No, voglio dire: è un fatto grave che i Servizi Sociali ci abbiano messo solo un giorno a inoltrare la denuncia. Che fine ha fatto il lassismo statale? Se continua così dovrò iniziare a venire in ufficio alle sette. Comunque. Il ragazzino ha subito delle molestie. Che tipo di molestie?”

Tudini abbassò lo sguardo sul rapporto.

“Max, non ci credo che non ti ricordi che tipo di molestie ha subito. Sono cose che restano nella mente, che cazzo!”

L’altro sembrò vagamente imbarazzato. “Gli ha fatto una sega.”

“E quanti anni ha questa educatrice?”

Tudini tornò a guardare il rapporto. “Trent’uno.”

Sensi sospirò. “Dev’essere davvero un cesso,” concluse.

“Santo cielo, Ermanno…”

“No, ok, è un fatto gravissimo. Mainardi, immagino che quando tu avevi sedici anni l’idea che un’educatrice trentenne ti facesse una sega ti riempisse d’orrore.”

Mainardi fece un sorrisetto. “Quando avevo sedici anni non c’erano ancora le educatrici scolastiche. Però avevamo una proffe di matematica…”

“No, dai, non è corretto…” si lamentò Tudini “…abbiamo appena ricevuto un’informativa sui pregiudizi a carattere sessuale e non si può…”

“Ok, ok. Siamo due animali. Un fatto grave si è consumato sotto… a proposito, dove si è consumato questo fatto grave?”

“A casa dell’educatrice.”

“Terribile. E il ragazzino perché è andato dai Servizi Sociali e non dagli sbirri?”

“Il suo nucleo familiare è seguito dai Servizi Sociali.”

“Ah. E perché, se non è chiedere troppo?”

“Qua non lo specifica.”

Mainardi si sporse verso l’ispettore capo e sbirciò il rapporto. “Omar Gomez, anni sedici, figlio di Teresa Rosario e Felipe Gomez… no, non mi dice niente.”

“Telefoniamo,” concluse Sensi.

martedì 2 giugno 2009

Una linea d'ombra - 1

“Ti dico che è lui!”
“Nah, è troppo magro…”
Ermanno Sensi voltò lentamente lo sguardo verso la fonte dello strano scambio di battute. Era mattina fottutamente presto (le dieci), aveva avuto un tête à tête con il questore Salvemini che non era stato propriamente consensuale e ora stava cercando di riprendersi nel piccolo bar dietro la questura, che era freddo come una tomba e non aveva Red Bull. Sorseggiava la sua Burn, che gli era stata servita surrettiziamente in bicchiere, con gli occhiali da saldatore sugli occhi, e tutto quello che voleva era tornare nel suo letto.
“È quello del serial killer, sono sicura!” stava dicendo una delle due ragazzine all’altra, non esattamente sussurrando.
Sensi si prese un po’ di tempo per analizzare la situazione. Per prima cosa non erano proprio ‘ragazzine’. Potevano essere sulla ventina, anche se con le adolescenti, ormai, non si poteva mai dire; iniziavano a portare il Wonderbra a sette anni e da lì in poi era tutto un casino.
Una bionda e una mora, come le tizie di Striscia la Notizia, il loro fisico da velina non era impeccabile, ma l’abbigliamento era praticamente perfetto: stivali alti, pantaloncini minimali, giacchette decisamente inadatte alla stagione. Fuori stava per nevicare e anche dentro ci mancava molto poco.
“Scusi, lei non è quel poliziotto che ha arrestato il serial killer?” si decise a farsi avanti la bionda. Sembrava una Barbie compressa in un metro e mezzo di statura.
Sensi si sollevò gli occhiali sulla fronte.
“Già,” disse. Quella faccenda era finita su tutti i giornali, procurandogli grane a non finire, ma in fondo, non c’era motivo di non approfittarne, prima che la città si dimenticasse di lui.
“Oh, hai visto, scema? Avevo ragione!”
Sensi si limitò a sorridere fissamente, solo con la bocca. Si domandò oziosamente se anche i bagni di quel posto fossero così fottutamente freddi. Non che avesse una reale importanza: quelle due erano spezzine, e le spezzine avevano un talento speciale per promettertela e non dartela all’ultimissimo minuto.
“Guarda che mi puoi dare del tu,” disse Sensi, in tono da rimorchio standard.
Le due risero emisero delle risatine chiocce. “Sul giornale sembravi più grosso,” disse la mora, che sembrava una Tanya compressa in un metro e mezzo di statura.
“Non vuoi riformulare questa affermazione in modo da lasciar fuori la parola ‘grosso’? Non sono completamente padrone delle battute che potrei fare.”
Le due risero ancora. Di quel passo ci sarebbero voluti millenni a farsi dare un due di picche. Sensi si chiese oziosamente se inserire tra le loro risatine una frase casuale su un terzetto fosse prematuro.
“È solo che nei telefilm i poliziotti sono sempre…” iniziò la bionda “…vasti,” concluse, con un’altra risatina.
“Molto meglio. Con ‘vasti’ non me ne viene quasi nessuna. Non una che sia adeguatamente volgare, comunque. Pensavo… ho ancora, diciamo, una mezz’ora di pausa e…”
Il suo telefono, lasciato avventatamente acceso nella tasca del giubbotto, iniziò a vibrare e ad emettere una musichetta sincopata e inquietante.
“Che cos’è? Vasco Rossi?” chiese la mora.
Sensi la guardò con genuino orrore. Le rivolse un sorrisetto tirato e rispose. Forse era stato salvato, dopo tutto.
“Sì?”
“Ermanno, devi tornare subito, dove sei?” gli disse Tudini, in tono agitato.
“Se Salvemini vuole il bis sarà meglio che si metta comodo, perché tu non mi hai trovato.”
“No, Ermanno, abbiamo un caso di stupro.”
“Sapevo che Salvemini nascondeva qualcosa.”
“Non è stato-“
“Non ti preoccupare, Max, non dirò una parola ai giornalisti.”
“Ermanno!”
Sensi sbuffò. “Sto arrivando. Tanto, probabilmente, qua i bagni sono una ghiacciaia.” Richiuse il cellulare e lanciò un’occhiata penetrante alle due aspiranti veline.
“Dovremo rimandare quel terzetto,” le informò, rinforcando gli occhiali e lasciando un cinquino sul bancone.
“Eh?” disse la prima.
“Cooosa?” disse la seconda.
“Lo so, è un mondo ingiusto e crudele,” si accomiatò Sensi, salutandole da sopra la spalla.
Era sempre bello avere conferme dei propri pregiudizi.