lunedì 3 agosto 2015

Nodi (8)

Sensi aveva conosciuto l’ispettore Rana, della polizia postale, meno di due mesi prima, ma aveva subito capito che era praticamente la sua anima gemella. Be’, quasi. Be’, in realtà al momento non sapeva bene come fossero i loro rapporti, dato che durante l’indagine a cui avevano collaborato Rana era quasi stato ucciso. Sensi non era del tutto sicuro che non se la fosse presa.
Compose il suo numero e aspettò che rispondesse.
«Ciao, Marco. Sono Sensi» disse, quando sentì che la linea era attiva. Rana non credeva nei convenevoli.
«Oh, ciao» rispose l’altro, inespressivo.
Se fosse stato un’altra persona Sensi avrebbe pensato che erano in fredda, ma l’ispettore della polizia postale era, secondo la sua definizione, “quasi Asperger”, quindi la sua inespressività era normale.
«Avrei un piccolo problema. Una persona scomparsa. Dovrei esaminare il suo computer» continuò Sensi. Aspettò un secondo. Chiunque altro a quel punto gli avrebbe risposto “sì” o “no”, ma ancora una volta... Rana non funzionava così. «Mi chiedevo se potessi darmi una mano. Sei al lavoro?».
«No» si limitò a rispondere Rana. Ci fu un altro attimo di silenzio. «Non dovremo strisciare tra i rovi, giusto?».
«E non dovrebbero nemmeno spararci» puntualizzò Sensi.
«Oh, quello è stato interessante, a modo suo, ma odio strisciare tra i rovi. Puoi passarmi a prendere?».
Sensi poteva.
Mezz’ora più tardi erano davanti al portone di casa Marrano. La temperatura toccava i trentadue gradi e l’umidità era all’ottantacinque percento, così aveva detto Rana dopo aver guardato sul cellulare. Il cielo era velato, ma questo non diminuiva in alcun modo il calore. Non sembrava che stesse per piovere. In quanto a Rana stesso, non era cambiato dall’ultima volta in cui Sensi l’aveva visto. Era pallido, con gli occhi glauchi dietro a un paio di occhiali senza montatura. Anche se era magro dava non dava l’impressione di essere in forma e indossava dei bermuda, delle ciabatte infradito e una maglietta con scritto “Save the Daleks”.
Sensi suonò al citofono e si annunciò. L’alto cancello di ferro battuto ronzò e si aprì.
«Sono dei nobili?» chiese Rana, osservando distrattamente la facciata Art Decò parzialmente coperta dall’edera.
«No, sono dei marrani» rispose Sensi.
Rana sembrò trovare la spiegazione soddisfacente. Subito dopo il portone di legno scuro venne aperto da una Antoneta in uniforme da cameriera, con tanto di crestina bianca. Sensi sbatté le palpebre un paio di volte. Per qualche motivo pensava che fosse ancora in questura. Rana le lanciò un’occhiata indifferente.
«Ciao» disse Sensi. «Siamo qua per controllare il computer di Carlotta. Questo è l’ispettore Rana, della polizia postale».
«Prego, i signori mi seguono» fece Antoneta, compitissima, e li precedette lungo un atrio delle dimensioni di una piccola piscina, fiancheggiato da colonne di stucco grigio in stile con il resto della casa.
Quel posto sembrava uscito da una rivista di moda. I pavimenti di mattonelle di marmo bianco e grigio, le piante in vaso che pendevano tra le colonne, i quadri sobri e astratti, i mobili di lucido legno rossastro... anche la stessa Antoneta faceva in qualche modo parte dell’arredamento, con la crestina bianca, l’uniforme nera dalla gonna sopra al ginocchio e le decolté dal tacco alto, sexy senza essere eccessivo. Se solo non fosse stato lì per un’indagine Sensi si sarebbe rotolato per terra dalla noia. Quanto meno c’era l’aria condizionata.
«Marrano dov’è?» chiese, mentre seguivano il posteriore sculettante di Antoneta su per una grande scala di marmo.
Rana emise una risatina un po’ fuori luogo e Sensi si accostò per sussurrargli che il padrone di casa si chiamava Marrano sul serio. A quel punto Rana ridacchiò di nuovo.
«Il signore è con il signorino Carlo. Vuole che lo chiami?».
Sensi ci pensò un attimo. «No. Portaci dal computer di Carlotta e basta».
Il computer era nello studio di lei, una stanza ampia e luminosa del primo piano. Ovviamente era un laptop della Apple, ultima generazione.
Rana si sedette dietro alla scrivania senza tante cerimonie e lo aprì.
Sensi si voltò verso Antoneta. «Nemmeno tu ci servi, a meno che non conosci la password per entrare nel computer».
Lei sollevò il naso. «Io resto qua e controllo».
«E che cosa controlli? Che non rubiamo l’argenteria?» rispose Sensi, irritato.
«Che non fate confusione. Che non sporcate. Che non guardate altre foto».
Sensi sospirò e si girò dalla parte dell’ispettore. «Spiegale che nemmeno a te interessa il bondage». Poi sbatté le palpebre e guardò il monitor. Non solo Rana era già entrato senza bisogno di password, ma stava anche sfogliando con calma la gallery delle foto osé della padrona di casa.
«Veramente sono un nawashi. Ma qua siamo ben lontani dal kimbaku» commentò lui, continuando a far scorrere le immagini. «Che cosa ti serve?».
«Oh, davvero? Posso chiederle dove ha imparato, maestro?» cinguettò Antoneta, facendo un passo verso la scrivania.
«No, non puoi chiederlo» rispose Sensi, brusco. Che Rana fosse un maestro di nodi dell’arte della legatura giapponese non era così strano. Era un nerd e i nerd si interessano alle cose, a tutte le cose, in modo ossessivo e un po’ morboso. Era piuttosto sicuro che per lui fosse un interesse astratto o quasi, anche perché se c’era una cosa in cui l’ispettore non era versato erano i rapporti umani. «Dobbiamo scoprire se Carlotta era in contatto con il finto agente segreto. Inizierei dai forum che frequentava o...»
«Iniziamo da FetLife» decise l’ispettore, aprendo una nuova finestra. «Tutte le password sono memorizzate nel portachiavi, come vedi. Ecco».
Sensi si sporse su di lui per guardare lo schermo. Vide la pagina iniziale del social network fetish, nera con le scritte rosse.
Rana si mosse velocemente tra le impostazioni del profilo e i messaggi personali.
«Mh, qualcuno ha dato una ripulita. Lei stessa, probabilmente. Il profilo è vecchio di due anni, ma ci sono pochissime interazioni. Nessuna foto. Nessun messaggio. Ma ha un sacco di amici, quindi non è possibile che la situazione sia stata sempre questa. Non chiedi l’amicizia a un profilo vuoto».
«Credo che ha tolto tutto lei» intervenne Antoneta. «Gliel’ha detto quell’uomo».
Rana aprì un’altra finestra. «Molto bene. Controlliamo le caselle email».
Sensi si vide scorrere davanti al naso una nuova schermata, questa volta bianca. Si allontanò, consapevole che non sarebbe riuscito a stare dietro a Rana. Inoltre, visto che era lì, non c’era motivo di non dare un’occhiata anche allo studio di Carlotta, oltre che al suo computer.
Come il resto della casa sembrava studiato da un interior designer. La scrivania di noce, dalle linee solide e moderne, la libreria piena di saggi mai letti sulle tematiche umanitarie più in voga, le tende di impalpabile mussola bianca, il pavimento di parquet chiaro. Sensi girellò qua e là lasciandosi attrarre dalle coste dei libri dalla grafica più accattivante, dallo scaffale con le targhe e le medaglie che varie associazioni benefiche avevano conferito a Carlotta, fino a guardare le foto allineate su un ripiano: lei, il marito, un bambino piccolo che doveva essere Carlo. Carlo e Carlotta, pensò, esaminando le cornici alla ricerca di qualcosa di insolito, quale fantasia. Senza parlare delle fotografie stesse, che erano la quintessenza della banalità.
Quindi, rifletté, tornando verso la scrivania: banale. Carlotta era banale e lui doveva cercare in un posto altrettanto banale.
Nei cassetti della scrivania, per dire.
Aprì il primo, mentre sullo sfondo il chiacchiericcio di Antoneta e le laconiche risposte di Rana sfumavano sempre di più.
Cancelleria, carta da lettere (qualcuno la usava ancora?), l’astuccio di una stilografica di lusso... niente di interessante. Poi un cassetto pieno di corrispondenza. Lettere ufficiali, inviti, piccoli badge che Carlotta doveva aver tenuto come ricordo degli eventi a cui aveva partecipato. Uno specchietto, un piccolo necessaire per il trucco, una pinza per i capelli, dei pastelli colorati...
Una scatolina simile a un portagioie, con una piccola serratura chiusa.
Sensi prese la scatolina, tirò fuori il proprio coltello serramanico e forzò la minuscola serratura.
All’interno un singolo biglietto da visita. Fronte colorato, azzurro e verde, e retro bianco. Carta spessa ma da poco. Scritte in un brutto carattere squadrato. Sì, nel complesso poteva assomigliare al biglietto di un funzionario pubblico.
Sopra, solo un nome e un numero di cellulare.
Sensi lasciò il biglietto dentro alla scatola e posò quest’ultima davanti a Rana.
«Lascia perdere il computer. Rintracciami il cellulare di Mastrangelo Emiliano, qua».

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