venerdì 27 marzo 2015

L'architettura segreta del mondo - secondo estratto

Il questore Salvemini era un uomo imponente, perpetuamente abbronzato, totalmente privo di capelli ma dotato di due piccoli baffi neri che erano posati ai lati della sua bocca come mosche.
La porta dell’ufficio di Sensi non era chiusa a chiave, ma Salvemini, come i vampiri, non aveva l’abitudine di entrare se prima non era stato invitato. Sensi non si era mai preoccupato di ricambiare la cortesia e il megaufficio del capo, al piano superiore, per lui non aveva segreti.
Si sollevò gli occhiali da saldatore sulla testa e rivolse all’altro un sorriso sbilenco.
Salvemini gli lanciò un’occhiata valutativa, ma non le fece seguire alcun commento. Avvolto in un elegante completo grigio, con tanto di cravatta ben stretta, probabilmente non osava chiedere se Sensi avesse caldo, visto che conosceva già la risposta.
«Sono lieto che abbia anticipato il suo arrivo per me» disse, senza apparente ironia. «Vorrei scambiare due parole con lei, se è possibile».
Sensi lo precedette nel suo ufficio. La faccenda meritava la massima attenzione. Solitamente Salvemini comunicava con Tudini, forse perché era più in sintonia con la sua solida ottusità, forse perché Tudini gli rispondeva al telefono. Con Sensi, di norma, parlava quando non aveva alternative; non perché gli fosse antipatico – a modo suo, anzi, lo stimava persino – ma perché lo metteva sottilmente a disagio.
Niente in lui era come avrebbe dovuto essere.
A partire dal suo ufficio, che era buio come una grotta e disordinato come se ci fosse esplosa una bomba. L’ispettrice Riu l’aveva soprannominato ‘Bat-caverna’.
Sensi spostò una pila di libri misti a fogli da una poltroncina, l’appoggiò sopra la pila pericolante che occupava l’altra poltroncina e invitò Salvemini a sedersi. Poi si lasciò cadere dietro alla scrivania. In questo modo il questore poteva vederne appena la testa, tutto il resto era nascosto dalle
pile di libri, carte, manuali, circolari interne e oggetti vari che ingombravano il ripiano.
«Le posso offrire qualcosa?» chiese il commissario, con una gentilezza squisita che Salvemini  giudicò alquanto sospetta.
«Non è necessario» rispose, sulla difensiva.
Sensi gli rivolse un piccolo e disarmante sorriso di scuse, mentre estraeva un telefono dal magma della scrivania. «Una Red Bull» ordinò a un invisibile interlocutore e riagganciò. «Mi dica» aggiunse, poi, rivolto al questore.
Salvemini notò che, come per magia, ormai era lui a dover essere grato al commissario per l’attenzione. Decisamente, avrebbe dovuto tenere il colloquio nel suo ufficio invece che in quello di Sensi.
«Riguarda la sua recente collaborazione con la procura di Milano» entrò in argomento, comunque. Ormai non poteva farci niente. «Mi ha contattato una certa dottoressa Wang...»
«Professoressa» lo corresse Sensi. «Credo che ci tenga». Sembrava genuinamente interessato al riconoscimento dei titoli accademici della donna.
«Come preferisce. Forse immagina perché mi ha subissato di lamentele?»
Un breve sorriso di impotenza attraversò il viso pallido del commissario. «Suppongo che riguardi ancora il suo libro».
Rosalba Wang, professoressa di Antropologia alla Statale di Milano, come Sensi aveva appreso a sue spese, aveva un grande sogno: scrivere un libro sull’esoterismo che le fruttasse l’equivalente del Pulitzer in ambito accademico. Per coronare il suo sogno era disposta a fare qualsiasi cosa: sedurre,
corrompere, minacciare, piangere, pestare forte i piedini e passare informazioni riservate a una pericolosa psicopatica. Anche questo Sensi l’aveva imparato a sue spese, ovviamente. Tutto questo, per la precisione.
Durante l’indagine in cui sia lei che Sensi erano stati consulenti della procura di Milano, la professoressa era riuscita a meritarsi un’accusa di complicità con la pericolosa psicopatica di cui sopra, ma, apparentemente, neanche questo era riuscito a scalfire il suo sogno.
«Già» stava dicendo Salvemini, in quel momento. «Mi è sembrata molto irritata. Sostiene che le aveva promesso di collaborare alla parte documentaria del suo testo».
L’espressione di Sensi si fece vaga. «Potrebbe anche essere. Ma mentivo» concluse, piuttosto soddisfatto. «E d’altronde è stato grazie a lei che mi sono trovato un kriss piantato nello stomaco. Speravo che le fosse passata».
Il commissario non era stupito del fatto che una persona in attesa di giudizio telefonasse ai suoi superiori per pretendere qualcosa, né era stupito del fatto che i suoi superiori la ascoltassero. Non si faceva illusioni su una possibile condanna della Wang. Semplicemente, le cose non funzionavano
così. Si preparò mentalmente a sentirsi ordinare di collaborare allo stramaledetto libro. Non era sicuro di riuscire a svicolare, questa volta.
«Vuole che la convinca a cambiare idea» continuò Salvemini. Sembrava che avesse deciso di ignorare i retroscena del caso, retroscena che conosceva perfettamente. Sensi non si lasciò ingannare: Salvemini aveva una memoria di primissima scelta. Se fingeva di non sapere qualcosa, c’era sempre un motivo. La sua frase successiva contribuì a far luce in merito: «Ha ventilato ritorsioni. Sostiene che lei non si sia comportato secondo... ehm, gli alti standard d’onore della polizia, durante l’indagine. Le risulta?»
«Mi conosce, capo» disse Sensi. Non era chiaro se con questa risposta intendesse suggerire che mai chi lo conosceva avrebbe immaginato che potesse tenere una condotta disonorevole o esattamente il contrario.
Salvemini sospirò. «È incazzata nera, con lei. Non sono sicuro di voler sapere il perché, ma ho una domanda: qual è la cosa peggiore che possa pubblicare sul suo conto?»
Ed ecco la ragione dell’amnesia selettiva del capo.
Sensi rimase assorto per un numero preoccupante di minuti, segno che aveva un ampio campionario di cattive azioni tra cui scegliere.
«Forse di aver un tantino mentito ai miei colleghi di Milano?» azzardò, alla fine. «Ma loro non se la sono presa, lo giuro».
La prima volta in cui il questore aveva visto Sensi era rimasto spiazzato, sensazione che non era ancora riuscito a superare del tutto. Non era solo per via dell’abbigliamento da goth o delle priorità morali sballate, ma anche per la costante sensazione di vulnerabilità che lo accompagnava.
Avere a che fare con le ferite che Sensi non si curava di nascondere per Salvemini era imbarazzante. Non sapeva come reagire. Per cui, solitamente, fingeva di non vedere né quelle né buona parte del resto.
Ovviamente perché la sua strategia funzionasse doveva fare pochissime domande. Praticamente nessuna.
«Speriamo bene» concluse, quindi, alzandosi.
Sensi lo osservò chiudersi la porta alle spalle con una vaga sensazione di inquietudine. Visto che vincere, con Salvemini, era impossibile, ora gli restava solo da comprendere in che modo avesse appena perso.

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