venerdì 22 agosto 2014
mercoledì 13 agosto 2014
IL CLUB DEI CANTANTI MORTI - MINI-EP 4th TRACK
«Abbiamo alcune regole, nel nostro club…» stava
dicendo l’uomo con gli occhiali. «Alcuni requisiti devono essere… rispettati, per essere ammessi».
L’uomo con gli occhiali tondi sollevò una mano
lunga e magra, con l’indice teso.
«Ogni membro del Club dei Cantanti Morti deve
essere stato in vita un musicista di un certo successo. Deve essersi lasciato
dietro un certo numero di fan». Fece una piccola pausa. «Deve essere morto di
morte violenta».
Gli altri annuirono, chi più chi meno.
Weasley si sporse leggermente verso di loro,
con un sorriso accondiscendente dipinto sul viso.
«Mi rendo conto» disse.
«Potrebbe venire al punto, signor Lennon?» chiese,
invece, Nastasia Scott-Greene, secca.
Lennon sobbalzò. Non era abituato a venir
redarguito. Poi annuì lentamente.
«L’ora sta per arrivare» divagò ancora. «Non ci
è rimasto molto tempo».
Gettò un’occhiata al grande pendolo. Era quasi
mezzanotte e venti.
«Non riusciamo a spiegarci perché» continuò «ma
non capiamo se Jimmy Razor soddisfa i criteri di selezione per entrare nel
club. In particolare… non riusciamo a capire se è morto o meno in modo
violento…»
«Potrebbe approfondire il concetto?» chiese Pennington.
«Che cosa intendete, con esattezza, con morte
violenta?».
Lennon sorrise, come se la domanda non facesse
onore all’interlocutore.
«Omicidio, overdose, suicidio, incidente
stradale… tutto quello che pone fine alla vita prima del tempo: questa è una
morte violenta». Sembrò quasi in imbarazzo. «Capisce che altrimenti… altrimenti
non sarebbe possibile il nostro incontro di stasera, per esempio. Solo quelli
che vengono strappati dalla vita possono… talvolta… a precise condizioni…
tornare indietro, se mi comprende».
Weasley Pennington annuì.
«Il cuore di Jimmy Razor si è fermato» disse
l’uomo di colore con la grande massa di capelli, continuando ad aspirare
tranquillo boccate dalla sua sigaretta arrotolata a mano «ma non sappiamo
perché». Sogghignò: «E non sappiamo nemmeno il perché non sappiamo il perché».
Morrison, dall’altra parte del tavolo, sbuffò.
«Le vie dell’eccesso conducono alla saggezza,
Jimi, questo è noto, ma qui non stiamo concludendo niente. Abbiamo eccesso in
abbondanza, ma saggezza poca. Siamo sicuri che questi signori ci possano
aiutare?».
Lennon lo guardò vacuamente: «Le loro referenze
sono impeccabili».
«Già, be’. Ma non stiamo cercando un fottuto
maggiordomo, John» commentò, sarcastico, l’uomo con i capelli biondi.
«Mi pare che fossimo tutti d’accordo nel
chiedere il loro… interessamento, Kurt» replicò, dolcemente, Lennon. Ma nella
sua voce, ora, c’era una sottile nota di ammonizione.
«E non abbiamo ancora accettato il caso» fece
notare Pennington, in tono neutro.
Attorno al tavolo ci furono varie occhiate
sconcertate. Le star lì riunite, era chiaro, si sentivano offese. La prima a
riprendersi fu la donna, che emise un sospiro triste, come se il mondo le fosse
appena stato deposto sulle spalle.
«Tuttavia state per farlo, no? Di “accettare il
caso”, come dite voi».
Pennington sorrise di nuovo, vagamente
enigmatico. Assomigliava sempre di più a un gatto che fa le fusa e, come un
gatto, sembrava pronto per farsi lisciare.
«Sarete ricompensati» disse Lennon, secco.
Nastasia rise. Una risata cristallina,
insolente, da bambina viziata.
Lennon si alzò in piedi, imitato dagli altri.
«Vi faremo avere un accordo» li informò, come
se il patto fosse ormai stipulato. E forse era proprio così, per quel che li
concerneva.
Cobain batté gli indici sul tavolo, prima il
sinistro e poi il destro, e viceversa. Li gratificò di un ultimo ghigno di
derisione, mentre il tempo in quattro quarti iniziava a formarsi.
Le fiamme, nel camino, si alzarono di colpo.
Cobain aggiunse al ritmo maggiore complessità e cominciò a fischiettare.
Le cinque figure iniziarono a rarefarsi, in un
processo contrario a quello dell’apparizione.
Nastasia fece in tempo a cogliere un
ammiccamento di sfida correre da Cobain a Lennon, prima che diventassero troppo
evanescenti perché si potessero leggere le loro espressioni. Lennon alzò ancora
una volta gli occhi al cielo, come se trovasse la provocazione puerile.
La musica continuò, crebbe di intensità, il
fuoco scoppiettò vivace, le lampadine tremolarono al ritmo del fischiettare
dell’uomo.
Una voce roca si inserì nel flusso,
evidentemente divertita.
Time, is on my side... yes, it is...
La pendola batté il suo silenzioso rintocco
della mezza sulle ultime parole udibili, prima che la stanza ritornasse al
silenzio.
Weasley Pennington e Nastasia Scott-Greene
erano ancora seduti al tavolo. Di fronte a loro non c’era più nessuno. L’unico
segno che qualcosa fosse successo era l’aroma dolciastro del tabacco nell’aria,
che si assottigliava sempre di più, fino a sparire.
lunedì 11 agosto 2014
IL CLUB DEI CANTANTI MORTI - MINI-EP 3rd TRACK
La casa di Jimmy Razor adesso era deserta. Gli
alti papaveri, naturalmente, si erano trattenuti lo stretto indispensabile. Il patologo
era andato. La scientifica era andata. I fan erano stati allontanati. Jimmy –
neanche a dirlo – era andato pure lui, chiuso in un bel sacco di plastica nera,
riparato per sempre dai flash dei fotografi.
Anche gli investigatori erano andati. Tutti tranne
uno.
Jack Wyte era ancora nel giardino sul retro.
Tutte le luci erano spente, gli annaffiatoi automatici spruzzavano la loro
silenziosa melodia.
La punta incandescente della sigaretta lo
illuminava con il suo alone ogni volta che dava un tiro, tingendo il suo
profilo di ocra.
Era alto, Jack Wyte, alto e grosso, e nemmeno
la sera poteva nasconderlo. Il suo completo marrone era tutto spiegazzato, il
collo della sua camicia era sbottonato, i capelli avrebbero avuto bisogno di un
giro dal barbiere. Jack, invece, aveva bisogno di un attimo di calma, e non
c’era posto più calmo – su questo non c’erano dubbi – della scena di un crimine
dopo che il circo delle indagini se ne era andato. Anche se, come Wyte ben
sapeva, non era affatto detto che lì ci fosse stato un crimine di qualsiasi
genere.
Fece qualche passo sull’erba, tornando a
pensare vagamente alla giovane età del cantante. Avrebbe dovuto essere turbato,
dispiaciuto, impressionato. Sapeva che avrebbe dovuto esserlo.
Ma provava solo un leggero senso di smarrimento.
Dopo vent’anni di quel lavoro non si poteva pretendere di più da lui.
Diede un ultimo forsennato tiro alla sigaretta
e la lasciò cadere nell’erba. La pestò con la punta della scarpa.
Per un attimo la sua faccia era stata
illuminata dalla brace, ma ora non si vedeva più. Era stato un bell’uomo, per
qualche anno, molti anni prima. Un quarto d’ora di gloria, come avrebbe detto
Andy Warhol. Forse un po’ più di un quarto d’ora.
Fino ai vent’anni era stato magro e
allampanato; timido, goffo, impacciato. A vent’anni, per motivi ancora
sconosciuti, aveva iniziato a mettere su peso. Non grasso; aveva messo su una
compatta barriera di muscoli, non tanto evidenti da farlo passare per un body
builder, ma nemmeno gli atrofici muscoletti di un secchione. Un fisico
asciutto, che sommato alla sua statura imponente, ne aveva fatto per qualche
tempo se non il più desiderabile dei maschi, almeno un oggetto da collezione.
Era durato poco. Mentre il suo matrimonio si
sgretolava e i casi gli si accumulavano sulle spalle, si era sgretolato anche
lui. I folti capelli castani si erano ingrigiti, diventando duri e stopposi
come i peli di uno spinone. Il viso si era scavato. Mentre gli comparivano una
serie di rughe verticali intorno alla bocca, gli occhi si infossavano e ogni
singolo osso della sua faccia sembrava spingere per uscire all’aria aperta. Il
fisico – quello si era miracolosamente preservato, anche se, certo, un poco più
pesante di un tempo. Fumava troppo, mangiava male e beveva anche peggio.
Le uniche donne che lo guardavano, ora, erano
quelle troppo disperate per andare per il sottile, o quelle abbastanza
fantasiose da immaginarlo diverso da com’era.
Jack piegò la testa all’indietro, cercando un
filo di vento come una bandiera su un pennone, gli occhi socchiusi, la testa
pesante. Stava arrivando il momento di sedersi al bancone di un bar: il suo
stomaco lo chiamava.
Quando aprì gli occhi lei era là.
Di primo acchito gli venne in mente che avrebbe
potuto essere un’allucinazione. Non sarebbe stato poi così strano. La casa era
chiusa, piantonata da due agenti, il sistema di allarme era inserito. Jack
inclinò la testa da un lato, cauto, aspettandosi di non vederla più. Invece lei
era ancora lì, ferma sotto allo spruzzo degli annaffiatoi automatici.
Sembrava giovane, sui venticinque, ma era
difficile a dirsi. Era vestita completamente di nero, dai pantaloni aderenti,
alla t-shirt, agli scarponcini alti da città. Anche i capelli erano corvini,
con delle ciocche irte che le coprivano metà del viso. La pelle era candida come
la luna, anche sulle labbra. Non era truccata e lo stava fissando, seria.
«Che cosa ci fai qui?» chiese Wyte,
avvicinandosi di un passo. Non pensò nemmeno per un istante di allungare la
mano verso la pistola di ordinanza, o verso la Sig Sauer calibro .40 che in
teoria non avrebbe dovuto avere, ma che invece era al comodo nella sua tasca.
La ragazza lo fissò in uno strano modo, come se
volesse imprimersi nella mente ogni dettaglio di lui. Non rispose, né diede
segno di volerlo fare.
«Jimmy non è più qua» disse Wyte, immaginando
di trovarsi di fronte a una fan, entrata chissà come. Ma dentro di sé non ne
era sicuro. Il look grossomodo corrispondeva, ma c’era qualcos’altro, qualcosa
che non riusciva a mettere a fuoco. «L’hanno già portato via» aggiunse, comunque.
«Il detective Jack Wyte» disse lei. La sua voce
era roca, come se giungesse da distanze siderali attraversando un lungo tratto
tra i ghiacci delle montagne. Wyte, all’improvviso, ebbe freddo.
La ragazza fece un passo verso di lui. Il suo
corpo era troppo magro, i seni quasi non c’erano.
«Chi sei tu?» chiese Wyte. Si accorse solo dopo
di aver sussurrato.
«Guarda» disse lei, e indicò lontano con la
lunga mano bianca.
Wyte seguì il gesto con lo sguardo. Ma non
c’era niente. Solo la massa scura delle siepi che attraversavano il giardino.
Quando tornò a voltarsi dalla sua parte, di lei
non c’era più traccia.
domenica 10 agosto 2014
IL CLUB DEI CANTANTI MORTI - MINI-EP 2nd TRACK
2nd TRACK
Le cinque
figure si avvicinarono al tavolo. Il primo a scostare una sedia e a sedersi fu
l’uomo alto, gli altri seguirono, senza particolare grazia. Sembravano a loro
agio e fuori luogo nello stesso tempo.
Uno dei cinque
appoggiò i gomiti sul tavolo e inarcò le sopracciglia in modo ironico. Non era
impressionato, evidentemente. Aveva i capelli biondi e lisci, degli occhi
incredibilmente azzurri e la barba troppo lunga. Indossava una vecchia camicia
di flanella a scacchi e dei jeans sdruciti. Finito il suo sommario esame
dell’ambiente, appoggiò la testa su una mano e sbadigliò.
Pennington
scostò una sedia dal tavolo e si accodò.
«Siamo felici di conoscervi di, ehm, persona, signori» disse, con il suo
accento troppo coltivato per essere anche caloroso. «E signore» aggiunse, con
un lieve sorriso in direzione della donna.
Lei era impegnata a osservare gli scaffali
carichi di libri e non ci fece caso. Era piccola di statura e un po’
trascurata. Non aveva trucco, il naso era un po’ troppo grosso, i capelli
lunghi e castani le ricadevano sulle spalle fino alla vita. Spostò gli occhi su
Weasley con un secondo di ritardo e fece un sorrisetto di circostanza. Quel
sorriso sarebbe stato capace di illuminare uno stadio – e l’aveva fatto – ma su
Weasley non ebbe alcun effetto.
«Bella bicocca» commentò, prendendo posto.
Weasley accettò il complimento con un gesto di
noncuranza.
«Quella è una litografia di Blake, giusto?»
disse un uomo dai riccioli scuri, bello come un angelo.
«Ero sicuro che l’avrebbe apprezzata, signor
Morrison» rispose Weasley. Poi tornò a fissare lo sguardo sull’uomo con gli
occhiali, che stava giocherellando con una delle collanine che aveva al collo.
Alla sua destra, il tizio di colore dai
prorompenti capelli riccioli si accese una sigaretta fatta a mano e iniziò a
dondolarsi sulle zampe posteriori della sedia. Weasley sembrò non fare caso né
alla sigaretta né all’uso che stava facendo del suo mobilio antico.
«Bene, signor Pennington» cominciò l’uomo con
gli occhiali, in tono vago, «abbiamo saputo che lei e la signorina Scott-Greene
svolgete indagini… particolari».
«A volte» confermò Weasley.
«Solo quando capita qualcosa di… interessante»
aggiunse Nastasia.
L’uomo con gli occhiali sorrise. «Questo
potrebbe essere interessante, Nastasia».
«Scott-Greene» rispose, cortesemente, lei.
L’altro annuì, noncurante: «Certo, come vuole.
Stavo dicendo che la nostra richiesta potrebbe interessarvi. Come…uh, come
precisavo nella lettera in cui vi preannunciavamo il nostro arrivo… io e i miei
soci dobbiamo prendere una decisione piuttosto importante… per noi, si intende,
e abbiamo bisogno che voi facciate qualche piccola… indagine… per nostro
conto».
Weasley rimase in silenzio, aspettando il
seguito.
«Probabilmente siete a conoscenza del fatto che
ieri sera Jimmy Razor è morto» continuò l’uomo con gli occhiali, serio.
Weasley inarcò le sopracciglia, voltando la
testa in direzione di Nastasia.
«Un cantante pop» spiegò lei, concisa.
L’uomo biondo fece un gesto tranciante con la
mano: «Pop!» sibilò, come se sentisse
puzza di pesce marcio. Morrison, al suo fianco fece un sorrisetto ironico.
L’uomo con gli occhiali tossicchiò: «Hai già
espresso la tua opinione, Kurt».
L’altro lo gratificò di un gesto con il dito
medio. L’uomo con gli occhiali alzò gli occhi al cielo.
«In parole povere il signor Razor…» riprese
rivolto a Pennington e Scott-Greene «…ha fatto richiesta per entrare nel nostro
Club. E noi non siamo sicuri che sussistano i presupposti perché questo
avvenga».
«Non capisco perché lui sì e Marilyn no» si
intromise Morrison, acido.
L’uomo con gli occhiali alzò di nuovo gli occhi
al cielo. «Perché lei non è una cantante,
Jim» ribatté, come se fosse la centesima volta che ripeteva la stessa cosa.
«E ‘Happy
birthday Mr President’? E ‘Diamonds are a girl’s best friends’?» insistette
Morrison.
«Giusto» lo appoggiò Kurt, a mezza voce.
«Abbiamo già deciso che quelle non si possono
considerare vere e proprie canzoni» disse la donna coi capelli lunghi, secca.
«E poi fa già parte del Club degli Attori…»
«Presley fa parte di entrambi i Club!» ribatté
Morrison, polemico.
L’uomo con gli occhiali tossicchiò: «Signori!»
riportò l’ordine. «Non è questo il momento di discutere dei nostri affari
interni…». E fece un gesto esplicativo in direzione di Pennington e
Scott-Greene, che sedevano inespressivi all’altro capo del tavolo.
Ma, come sempre, i due britannici non sembravano
seccati, né ansiosi, né infastiditi. Sembravano solo freddamente educati, e
quella, ovviamente, era proprio la cosa giusta da fare in quel momento.
sabato 9 agosto 2014
IL CLUB DEI CANTANTI MORTI - MINI-EP 1ST TRACK
Jimmy Razor era morto. Il fatto era
inconfutabile. Jack Wyte lo osservò a braccia incrociate, spostando il peso del
corpo da un piede all’altro.
«Una bella rogna» commentò, con voce tesa,
Ronald Pullman, alla sua sinistra. Wyte annuì.
«Sta arrivando il commissario capo».
«Lo so».
«Insieme al manager».
«Lo so».
Jack Wyte lasciò vagare lo sguardo sul soffitto
alto e bianco, sulle pareti spoglie, sul pavimento lucido. Tornò a guardare
Razor, immobile e innegabilmente morto, sul letto. Gli uomini della scientifica
gli ronzavano intorno come falene attorno alla lampada che le avrebbe fritte,
silenziosi. Il medico legale aspettava in un angolo l’arrivo dei superiori.
Tutto quel che aveva potuto fare era stato constatare la morte del soggetto.
«Cazzo» disse Pullman. «Fa un po’ impressione,
no?» Lanciò un’occhiata nervosa dalla parte di Wyte. «Voglio dire… è proprio
come su MTV».
«Non guardo video musicali» rispose Wyte,
distrattamente.
Non riusciva a spostare gli occhi dal cadavere.
Giovane, con i capelli bianchi acconciati a dreadlocks, orecchini di metallo
alle orecchie, al naso, a un sopracciglio. La maglietta sintetica nera, con le
maniche tagliate all’altezza del gomito, gli aderiva al torace magro come un
guanto. Fece scorrere lo sguardo sui pantaloni di plastica fucsia, appiccicati
alle gambe scheletriche, e pensò che non riusciva a capire i giovani di quella
generazione. Che, guarda caso, era proprio la generazione di sua figlia.
La immaginò come l’aveva vista l’ultima volta,
al ristorante. Così spigliata, decisa, adulta, mentre ordinava un aperitivo a
basso contenuto calorico, prima di cena. I capelli biondi tagliati come se
fosse finita sotto un falciaerba, il vestito alla moda, il viso e le mani
curati dall’estetista.
Gli uomini agli altri tavoli l’avevano guardata
con la bocca aperta, lanciando sguardi perplessi dalla sua parte.
È mia figlia! avrebbe voluto urlare Wyte. Non vedete che ha
venticinque anni?
Si era seduto con le
spalle alla sala, infastidito. E Corrie… Corrie aveva parlato per tutto il
tempo in modo gentile e formale – sì, formale – con quella voce dura e senza
accento che aveva imparato all’università, mangiando veloce, perché il tempo
correva.
Wyte venne riscosso dai suoi pensieri
dall’ingresso del capo, grasso e pomposo come un melograno maturo, e da quello
di un uomo basso e tracagnotto, fasciato in un abito che doveva costare da solo
quanto una macchina di media cilindrata.
«Oh, Jimmy…» esclamò l’uomo, con una strana
voce in falsetto. «Allora è vero!». E mosse qualche passo esitante verso il
letto.
venerdì 8 agosto 2014
IL CLUB DEI CANTANTI MORTI - MINI-EP PROLOGUE
Dio ha la voce
di Mark Knopfler. Sonora. Convincente. Sicura. Bellissima.
Dice: «Ancora
una volta, forza. Ci siamo quasi».
Ma non è la
voce di Dio, naturalmente. È solo Monday. Che insiste. Che pontifica. Che
corregge.
Come diavolo
ci sono finita, qua?
***
Se hai sedici
anni a Merdaville, Tennessee, morire può sembrarti un modo come un altro di
passare il venerdì pomeriggio.
Questo era quello che pensavo più o meno da quando avevo iniziato a
desiderare una vita sociale, tranne cambiare idea all’improvviso quando la
morte era venuta a bussarmi alla porta.
La mia vita, fino a quel momento, non era stata uno scoppiettante
susseguirsi di fuochi artificiali. La mattina mi trascinavo fino a scuola, dove
sarei stata crudelmente derisa o, al meglio, ignorata, fino alla fine delle
lezioni. I professori non vedevano per me un brillante futuro da astrofisica o
roba del genere, i miei compagni pensavano che fossi una sfigata all’ultimo
stadio. A Merdaville la catena alimentare era stata semplificata in modo da
essere alla portata dei buzzurri semi-analfabeti dei dintorni: o eri uno che le
dava o eri uno che le prendeva.
Io, ovviamente, facevo parte dei secondi.
I miei erano andati al creatore quando avevo pochi anni, infilandosi in
un fosso mentre tornavano da una serata allegra in qualche baracca danzante dei
dintorni.
Da allora in poi avevo vissuto con mia zia Stella, ovvero la pecora nera
della famiglia di mia madre. Stella era giovane, non aveva idea di come
crescere una bambina di quattro anni e tirava su due soldi come capitava. Per
lo più, vendendo filtri d’amore e bugie compassionevoli alle donne del
vicinato.
Eravamo povere in canna e questo non aumentava le mie già scarse
prospettive di una vita sociale decente. Forse a Los Angeles o in qualche altro
posto che per me esisteva solo nei film, andare a scuola con i vestiti della
charity sarebbe stato considerato magnificamente vintage. A Merdaville
era considerato da pezzenti, segno che a Merdaville, nonostante il Q.I. medio
fosse piuttosto basso, la gente non era così facile da infinocchiare.
Eravamo due pezzenti.
Stella era il tipico esemplare di white-trash che compare nei programmi
sul degrado sociale. Mi immaginavo gente impaccata di soldi della East-Coast,
comodamente stravaccata nella sua confortevole bifamiliare, che guardava la
tele e pensava “Mio Dio, ci sono veramente delle persone che vivono in una
roulotte! Che cosa dannatamente interessante!”.
Stella era così. Capelli ossigenati sopra il biondo grano che le aveva
affibbiato Madre Natura, con una cicca perpetua incastrata in un angolo della
bocca e il vestitino floreale che veniva direttamente dalle anime pie della
parrocchia.
Quello che forse gli sciccosi della East-Coast non immaginavano era che
Stella, il buon vecchio mojo, sapeva farlo davvero. Questo era il motivo
per cui le anime pie della parrocchia si allineavano davanti alla porta della
nostra roulotte – ovviamente a notte fonda, quando i vicini facevano finta di
non vedere – se il maritino scappava con la commessa del Wal-Mart o se il loro
vecchio arnese tirava l’ultimo respiro. Il viagra ci aveva private di una
considerevole fetta di mercato.
Inutile aggiungere che essere la figlioccia della strega del paese
non aveva migliorato le mie già misere prospettive di una vita sociale.
Se Stella si fosse limitata a mescolare infusi nauseabondi e a raccontare
alla sfortunata di turno che il consorte, legittimo o meno, sarebbe tornato con
la coda tra le gambe – e se il consorte avesse continuato a tornare veramente –
le cose sarebbero andate più o meno bene.
Ma Stella non era solo una fattucchiera di paese con un debole per i
giovanotti, a modo suo era anche una sperimentatrice. Era stata lei a farmi
conoscere la musica di tutti quei vecchi gruppi degli anni ’70 e ’80 che
suonavo incessantemente sull’Hitachi mezzo scassato della roulotte. Le
piacevano le cose forti, e fiche, e divertenti.
E la magia, a modo suo, lo era.
Le cose forti, e fiche, e divertenti, però, non erano fatte per lei, come
si vide alla fine. Morì quando la schifezza che stava mescolando nella sua
vecchia pentola di rame le esplose in faccia.
Mai fare una magia di fuoco, se non hai almeno un paio di guanti da
saldatore. Nel suo caso, venne fuori, sarebbe stata meglio una tuta completa da
pompiere.
Quel pomeriggio ero andata alla discarica delle macchine a esercitarmi
col piattello. Old Joe, il proprietario, era un rudere come le auto che
rottamava, quindi non c’era nemmeno il rischio che provasse a infilarsi sotto
il mio vestitino floreale della charity.
Quando tornai alla roulotte era sera, e mi andava di mangiare un piatto
di riso al curry mentre gli Zeppelin giravano sull’Hitachi mezzo scassato.
Ma non c’era stato riso al curry.
Gli Zeppelin non avevano cantato Whola Lotta Love mentre muovevo
il culo a tempo di musica.
Stella era un tizzone sul pavimento della roulotte, un tizzone che si era
consumato senza bruciare nient’altro. Non so quale fosse la magia, non mi è mai
interessato scoprirlo, so solo che in quel momento sentii che odiavo quella
maledetta vacca – e che l’amavo con tutto il cuore.
Fu allora che le cose iniziarono ad andare nel verso sbagliato.
Non che prima fosse stato tutto rose e fiori, ma Stella era con me.
Ora Stella non c’era più e la realtà stessa sembrava decisa a commemorare
la sua dipartita in grande stile, sbriciolandosi.
Barcollai fino alla mia stanza e lì ebbi la seconda sorpresa della
giornata.
Il letto ribaltabile era aperto e sul letto c’ero… io.
La Sonia Sinclair che era sul letto era morta stecchita, su questo non
c’era da farsi illusioni. Con i capelli lisci e color grano sparsi sul cuscino,
era quasi bella. Indossava un vestito bianco che io non avevo mai avuto, come
se le anime pie della parrocchia si fossero superate per la sua – la mia –
cerimonia funebre. Ai piedi aveva i miei vecchi anfibi, segno che neanche le
anime pie della parrocchia avevano intenzione di regalare ai vermi un paio di
scarpe buone.
L’aria bollente della roulotte aveva un odore di fiori incomprensibile,
come se qualcuno avesse nascosto da qualche parte un grande mazzo di orchidee e
le orchidee avessero iniziato a marcire.
Osservai per un po’ quella strana e lugubre visione, pietrificata.
Poi feci un passo avanti e la realtà sembrò decidere di aver giocato
abbastanza.
Il letto era di nuovo incastrato nella ribalta, l’odore di fiori era
scomparso, della Sonia Sinclair morta e quasi bella non c’era più traccia.
Tutto quello che restava era l’odore acre che proveniva dall’altra stanza.
L’odore del tronchetto di cenere che era diventata Stella.
Ma sapevo che cosa avevo visto.
Non puoi vivere per sedici anni nella stessa casa – be’, roulotte – di
una strega senza imparare ad apprezzare una premonizione, specie se è una
premonizione in technicolor come quella che avevo avuto io.
A volte mi chiedo se non fosse questo a cui Stella stava lavorando quando
si era incendiata come un fuoco d’artificio del 4 luglio. Se aveva avuto la
curiosità di sapere come sarei morta io, ed era stata punita per la sua
sfacciataggine.
Ma conoscendo Stella era molto più probabile che stesse cercando di far
comparire un Jimmy Page diciottenne sulla porta della sua roulotte.
Comunque fosse, ero stata avvertita.
Fino al giorno prima avrei detto che a Merdaville, Tennessee, morire
poteva essere un modo come un altro di passare il venerdì pomeriggio.
Ma ora che era chiaro che sarei morta di lì a poco, non c’era un cazzo da
ridere.
giovedì 7 agosto 2014
IL CLUB DEI CANTANTI MORTI
Jimmy Razor è appena morto, nella sua lussuosa villa di Los
Angeles, fatto e solo. Era giovane, era dannato, era forse l’ultima rockstar a
vivere all’altezza del suo mito... nessuno sa come si sia spento.
E questo sta creando un sacco di problemi.
Al Club dei Cantanti Morti, che deve decidere se accoglierlo
o meno tra i suoi iscritti. Date le personalità dei soci, per il presidente,
John Lennon, la cosa rappresenta una grana gigantesca. Cobain e Morrison sono
fieramente contro, Janis Joplin è possibilista, Sid Vicious vuole solo bere
qualcosa. L’ultima riunione del club è stata un incubo ed è sempre più chiaro
che per risolvere la questione bisognerà assoldare dei consulenti.
Ai ragazzi della Morte, il più alto ordine di funzionari
della Trista Mietitrice, per cui la dipartita immotivata di Jimmy è un’onta
professionale che dev’essere lavata al più presto. Non fosse che “al più presto”,
per chi tanto è già morto, può essere una dizione piuttosto relativa.
Al detective Jack Wyte della polizia di Los Angeles, che si
trova per le mani un caso ad alta esposizione mediatica. Il che significa che i
suoi superiori gli staranno con il fiato sul collo giorno e notte – e Jack è
troppo stanco e cinico per queste stronzate.
A Weasley Pennington e Nastasia Scott-Greene, titolati
inglesi, ficcanaso privati, che sono stati assunti dal Club per far luce sulla
morte di Jimmy, dalla loro lussuosa suite e con tutto l’appoggio delle loro
conoscenze altolocate. Peccato solo che Los Angeles sia un posto così volgare.
A Dare, la misteriosa ragazza vestita di scuro, che compare
dall’ombra e svanisce nel buio. E che si rende conto per prima che la casa di
Jimmy, la villa in cui è morto inspiegabilmente... ha qualcosa di sbagliato.
O almeno... un pezzo di cemento, per quanto di impeccabile
design, non dovrebbe dare l’impressione di starsi leccando i baffi, no?
DAL 14 AGOSTO
SUSANNA RAULE
IL CLUB DEI CANTANTI MORTI
venerdì 1 agosto 2014
Anatomia di uno statista in offerta a 0.99
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