lunedì 28 novembre 2011

Pierrot - 21

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Il mio motto è sempre stato “uccidi e lascia morire”. Non ci provo gusto a dare sulle palle alle persone. Non uccido mai per motivi personali. Be’, quasi mai.

Mi piace farmi i cavolacci miei, girovagare dove mi pare, lavorare per chi voglio io.

Quel pomeriggio mi sbronzai di brutto, ma il giorno dopo stavo partendo per il Messico. Sono un frequent flyer, te l’ho già detto?

Arrivai a Canhcun nel primo pomeriggio, freddai un tizio alle quattro con un colpo di fucile di precisione, da un tetto, senza alcuna ispirazione. Che morisse, quel figlio di puttana!

Mi rimbarcai la sera alle sette, per Panama.

A Panama andai a sbronzarmi con un mio vecchio amico, che mi disse che sembravo disperato. Lasciai perdere il vecchio amico e me ne tornai a New York col primo volo.

Venni a sapere che le nozze sarebbero state celebrate a Saint Patrick, tre giorni dopo. Don Giuliano, forse, voleva togliersi il dente.

Clyde mi chiese di uccidere Romano e io gli dissi di no. Lester mi chiese di uccidere Romano e dissi di no anche a lui.

Cora mi chiese di uccidere Santos, ma non diceva sul serio. Le risposi che era già abbastanza punito dal doversi scopare lei. Cora mi disse che ero acido. Io le risposi che ero scazzato.

“E perché?” chiese Cora.

“Perché sono infelice, cazzo.”

“E perché sei infelice?”

“Perché mi sono dimenticato una cosa in un posto.”

“Ah. È grave?”

“Abbastanza.”

“Ah. Mi dispiace, Pierrot.”

“Non sai quanto dispiace a me.”

“Cos’era?”

“Il mio cervello, niente di serio. Nel mio culo.”

Cora rise e riattaccò, pensando che stessi facendo il misterioso.

Guardai per un po’ la sua foto sul suo passaporto, poi decisi che ero patetico e bruciai foto e passaporto. Dopo ero molto pentito. Costava cinquemila dollari, quel passaporto. E era l’unica foto. Merde.

Sabato mattina. Matrimonio.

Il tuo carissimo stronzo in piedi fuori dalla chiesa con una cicca in bocca (avevo ripreso a fumare) e un completo nuovo che sembrava già stazzonato. Barba di due giorni. Aria incazzata e infelice.

Cordone di sicurezza di uomini in doppio petto nero. Il tuo carissimo stronzo che fuma un’altra sigaretta.

Lester e Clyde che si affiancano al tuo carissimo stronzo. Battute taglienti.

Te la sei scopata anche tu, eh?

Yes, sir.

Cazzo, se la sono scopata tutti.

È una bottana, sir. Cosa normale.

Gli farà un cesto di corna.

Mica sono tanto sicuro, sir.

Meglio era se la accoppavi.

Per dieci pezzi non accoppo nemmeno uno scarafaggio, sir.

La pianti di chiamare me e quest’altro cornuto sir?

No, oggi mi girano le palle così.

Arriva la Madre dello Sposo. Sembra una fottuta bomboniera. Arrivano le Amiche della Madre dello Sposo. Sembrano vecchie battone. Arrivano gli Amici del Padre dello Sposo. Messicani, russi, cinesi, italiani.

Signori, arriva Lo Sposo.

Abbraccia tutti gli stronzi che gli capitano a tiro, gongola visibilmente, ha già il cazzo mezzo barzotto di prima mattina. Non importa se ha la giacca sopra. Io lo so. Lo vedo. Lo percepisco.

Mi abbraccia e io gli strizzo i coglioni per metterlo in imbarazzo. Gli altri ridono. Mi fermo appena un attimo prima di staccarglieli.

Ding-dong, le campane suonano.

Frush-frush, tutti ciabattano dentro alla chiesa. I Parenti dello Sposo da un lato. Gli Amici dello Sposo dall’altro. Niente Parenti e Amici della Sposa.

Tutti sono seduti e mormorano tra loro. Santos è al braccio di Cora. Anche se sono tutti e due già seduti lei non lo molla, non si sa mai.

Le Amiche della Madre dello Sposo parlottano.

Una bottana, povera Concettuzza.

Neanche di classe. Bottana di strada era.

Tempo un anno e diventa una cisterna.

Tempo due mesi e lo mette cornuto.

Nemmeno tanto bella è.

Silenzio imbarazzato. Be’, insomma, volgare. Volgare, volgare, annuiscono le altre.

Parte la marcia nuziale. Teste che si voltano all’indietro. Madre dello Sposo che inizia a piangere. Sposo impettito davanti all’altare, erezione ben evidente (per me). Prete falso-sorridente.

Entra la Sposa col Padre dello Sposo.

Il tuo carissimo stronzo deglutisce piuttosto forte. Tutti gli uomini presenti in sala deglutiscono piuttosto forte. Le donne no. Sibilano.

La Sposa indossa un vestito a bomboniera color crema, che farebbe sembrare un cesso anche Sharon Stone. A lei sta bene.

La marcia nuziale continua. La Sposa e il Padre dello Sposo raggiungono l’altare. Don Giuliano sembra che stia succhiando un limone. Con anche la buccia. La Sposa ha un’aria spersa, angosciata, impaurita, poverina.

Alla mia destra, Lester, alla mia sinistra, Clyde: entrambi con le loro due brave erezioni. Solo io non ne sono munito, mi sento in minoranza.

Mi sento.

Stronzo.

La Sposa e il Padre dello Sposo si fermano davanti all’altare. Lo Sposo è raggiante e si capisce benissimo che ha voglia di toccare sul culo la Sposa. La marcia nuziale sfuma.

Il prete attacca: siamo oggi qui riuniti e bla e bla e bla.

Il pubblico dormicchia. Il pubblico guarda fisso il culo della Sposa, sotto ai quintali di tulle color crema.

Il prete continua: se c’è qualcuno a conoscenza di un motivo per cui questo matrimonio non si debba celebrare parli ora o taccia per sempre.

Silenzio in aula. Risatine nervose. Lo Sposo che si volta a lanciare uno sguardo offeso complessivo: è il mio matrimonio, cazzo!

Il tuo carissimo stronzo guarda il soffitto. È molto alto. Certo, è una chiesa.

Il prete: Vuoi tu, Romano, prendere in sposa la qui presente Elisabeth-Mary, e amarla e rispettarla, in pace e in guerra, sui letti e sui divani, davanti e dietro, finché morte non vi separi, o almeno dopo che lei non sarà più calda?

Romano: Sì lo voglio. Eccome se lo voglio.

Il prete: E vuoi tu Elisabeth-Mary, prendere in matrimonio il qui presente Rotto-in-Culo, e amarlo e rispettarlo, prenderlo davanti dietro e in bocca, cinque volte al giorno come minimo, se no guai, finché finalmente lui non tirerà le cuoia?

Elisabeth-Mary: …

Il prete: Ehm.

Il pubblico: mormorio in veloce salita.

Il Padre dello Sposo: dai! (sottovoce).

La Madre dello Sposo: lacrime copiose.

Lo Sposo: improvvisa debacle.

Il tuo carissimo stronzo: profonda ruga in mezzo alla fronte. Inizio di extrasistole.

La Sposa: No.

No. No. No. No. No. No. Effetto sonoro nella platea. Attonita.

La Sposa si volta verso la platea, guarda il tuo carissimo stronzo. Il tuo carissimo stronzo scatta in piedi, scavalca un Lester che lo fissa con la bocca spalancata, schizza nel corridoio.

“Diamocela a gambe, piccola!” grida il tuo carissimo stronzo, acchiappando una Sposa che-ancora-non-si-rende-ben-conto per una manica di tulle color crema.

La ex-Sposa e il tuo grandissimo stronzo si scapicollano giù per la navata.

E ora.

Sono.

Fottuto.

Pierrot - 20

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Valigia trolley, sacchetto coi vestiti, jeans blu aderentissimi, maglietta bianca senza biancheria. Barca a motore, aereo, altro aereo, ultimo aereo.

Fottutissimo aeroporto JFK. Uomini del vecchio in doppio petto. Romano che corre come al rallenty verso la sua amata fica, le braccia aperte e lo sguardo voglioso. Grande abbraccio, lungo bacio.

Pacca sulla spalla a me. Ero sicuro che non mi potevi fare questo. Ringrazia il tuo vecchio, per me era già becchime per i pesci.

La coppia innamorata che esce dall’aeroporto.

Bye bye, Pierrot.

giovedì 17 novembre 2011

Pierrot - 19

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Occhei, ascolta Pierrot…”

“Sì, signore?”

“Mi arrendo, riporta la bottana indietro.”

“Sì, signore.”

“Sta ancora bene?”

“Mi sembra di sì.”

“Non te la sei scopata, vero?”

“Nove volte solo stanotte, Don.”

Breve risata. “Riportala, dannazione. E che mio figlio ci si strozzi.”

“Me lo auguro, signore.”

Pierrot - 18

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Dunque; devi capire che quando faccio una stronzata io la faccio con tutti i crismi. Non sono per le mezze misure. Sicché lasciammo perdere le pizze e rimanemmo nel letto a fare gli stupidi.

Oh, ma che carina questa cosa…

Oh, ma che tenerezza quest’altra…

Oh, mi piacciono i tuoi occhi…

Oh, mi piacciono le tue mani…

Insomma: hai capito. Verso le due ci ricordammo delle pizze, le finimmo di cuocere (cosa altamente sconsigliabile, credo) e ce le mangiammo a letto. Poi pensammo bene di smaltirle.

Mi addormentai con la sua testa sul petto e, ne sono sicuro, una faccia ebete.

Bene.

Benissimo.

mercoledì 16 novembre 2011

Pierrot - 17

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Riemersi dalla biblioteca solo tre ore più tardi, quando il sole era vicino al tramonto. La trovai in cucina, vestita grazie al cielo, che guardava la zuppiera con dentro la pasta. Non sono una persona sensibile, ma giuro che mi si strinse il cuore.

“È lievitata, vero?” chiesi.

Lei mi fissò con aria raggiante. “È diventata tre volte più grande. Non avevo mai visto una cosa del genere.”

Ridacchiai, perplesso. Immaginavo che ne avesse viste a iosa, invece, ma era carino che non ci avesse pensato.

“Vieni qua, annusala.”

Lei obbedì con entusiasmo. “Ha un odore buonissimo! Che cosa ci facciamo?”

Le presi una mano e gliela misi sopra alla pasta. Ne sembrò deliziata. “Come è liscia… e morbida…”

Più o meno come la tua pelle, avrei voluto dirle, ma mi morsi la lingua.

“Tirala fuori, ora. Stendila sul tagliere.”

Liz la afferrò delicatamente da sotto e la trasportò sul tavolo come se fosse un bambino piccolo. La adagiò e la accarezzò un po’.

Le passai il matterello.

“Adesso la spianiamo. Devi staccarne un pezzo grosso più o meno così,” le indicai la misura. “E poi la spiani finché non diventa alta circa mezzo centimetro.”

“Okay,” disse lei, e provò a eseguire. Non fu un’operazione impeccabile, devo dire, ma avrebbe potuto andare peggio. Alla fine aggiustai un po’ il prodotto dei suoi sforzi e iniziai a far roteare la pasta in cerchio, in modo da renderla della forma giusta.

A quel punto Liz capì:

“La pizza! Stai facendo la pizza!”

“Brava Sherlock,” la presi bonariamente in giro, io.

Lei batté le mani. “Io adoro la pizza!”

E io adoro te, cazzo.

Oliai una teglia e ci sbattei sopra la pasta. “Accendi il forno,” dissi, e Liz eseguì, solerte.

Sparsi un po’ di pomarola sopra alla pizza con un mestolo. L’odore a crudo era buono il che mi sembrava positivo.

Infornai la teglia e mi dedicai di nuovo alla pasta. Iniziai a spianarla con le mani. Ero quasi sicuro che fosse più professionale. I pizzaioli, nei posti dove ti facevano vedere come si faceva, non usavano mai il matterello. O forse sì?

Liz mi accarezzò una mano, mentre affondava nella pasta.

“Mi piacciono le tue mani,” disse. “Non tremano mai. Sono forti e hanno quelle vene, là, sul dorso… non mi piacciono le mani pingui.”

La fissai per un attimo, serio. Poi le feci un minuscolo sorrisetto. “Grazie,” risposi, asciutto.

Ripresi a modellare la pasta e iniziai a farla roteare. Stava funzionando, mi sembrava. La appoggiai su un’altra teglia oliata, misi la pomarola e infornai anche quella.

“Penso che tu sia un bell’uomo,” ricominciò a parlare Liz, assorta. Sentivo il suo sguardo sulla mia nuca.

“Oh, si’… Tom Cruise mi telefona sempre per sapere come faccio!”

“Non assomigli affatto a Tom Cruise. A me piaci di più, ad esempio.”

Sospirai. Mi voltai.

“Liz? Che cosa vuoi da me?”

Lei si strinse nelle spalle. “Non potrei rimanere con te, giusto?”

Chiusi gli occhi. “No.”

“Sì, ok. Questo lo so. A Don Giuliano non piacerebbe. Se mi riporti a New York sposerò Romano. Questo è chiaro. Non sono idiota, Pierre. Solo, volevo sapere… se non dovessi sposarmi con Romano, no? E se tu non dovessi uccidermi… in questa ipotetica ipotesi… allora mi lasceresti rimanere con te?”

La guardai. Sospirai.

“Amore, non ti piacerebbe neanche un po’.”

Lei si strinse nelle spalle: “Ma tu mi lasceresti restare?”

“Non lo so. A me piace stare da solo, sai?”

“Io non darei fastidio.”

Le sorrisi. “Che cosa importa? Tanto non succederà, perché farsi queste domande?”

“Perché vorrei sapere se potrei interessare a qualcuno anche come persona,” rispose lei, come se fosse ovvio. E, merda, mi colpì e affondò.

Fu una roba tipo Waterloo: l’annientamento del nemico. Che stronzone.

Be’, sai com’è, la abbracciai e le sussurrai nell’orecchio: “Ma certo che c’è qualcuno a cui interessi come persona. Siamo maschi, piccola, ma ogni tanto il nostro cervello prende il controllo anche lui.”

Lei mi si era stretta contro e io mentalmente immaginavo tante istantanee venti per venti sulla scrivania di Don Giuliano, il che non era proprio rilassante.

Rimanemmo lì per un po’, lei con la testa appoggiata contro alla mia spalla, io con le braccia attorno alla sua vita.

Poi Liz sollevò la testa e mi baciò dolcemente sulla bocca.

E cosa credi che abbia fatto lo stronzone qui presente? Si è forse messo a gridare: “Brucia la pizza?”, ha forse fatto un salto all’indietro?

No, certo che no. Ovvio.

Invece spensi il forno con un movimento quasi subliminale, strinsi più forte Liz, e la baciai con passione.

Circa quattro millisecondi più tardi eravamo sul letto, mezzi nudi, che facevamo esattamente quello che Don Giuliano mi aveva pregato di non fare. E questa volta lo stavamo facendo per bene, ti assicuro.

Nessuno smacco, questa volta.

martedì 15 novembre 2011

Pierrot - 16

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Siccome iniziavo a rompermi le scatole di brutto, quel pomeriggio mi dedicai all’alta cucina. Cioè, si fa per dire. In quanto scapolo a tempo indeterminato avevo imparato a cucinarmi tutta una serie di cose, ma in quanto uomo benestante mangiavo fuori spesso e volentieri.

Comunque: stesi della farina sul tagliere e aggiunsi sale e acqua. Impastai il tutto finché non diventò una massa morbida e compatta, aggiungendo il lievito.

Liz mi guardava con faccia stranita.

“Ehy, che cosa stai preparando?”

“Aspetta e vedrai.”

“Posso aiutare?”

“Ma certo. Prendi i pelati e buttali nel tritatutto.”

La vidi osservare la dispensa smarrita. “Quei pomodori senza buccia nella scatoletta,” spiegai. E che cazzo! Pelati: mica bisogna essere nati a Napoli per conoscerli.

Misi la mia pagnottella dentro una zuppiera e ci stesi sopra uno strofinaccio pulito.

Quando Liz riuscì ad aprire le scatolette e a versarne il contenuto nel tritatutto iniziai a preparare la pomarola.

Era semplice: bastava aggiungere uno spicchio di cipolla e del basilico. Sulla cipolla non ero tanto sicuro, ma il basilico non ce l’avevo. Diedi una bella shakerata col tritatutto, lasciando dei pezzi di pelato interi, qua e là.

Dopo di che annunciai che se ne sarebbe riparlato dopo varie ore e ordinai a Liz di non scoprire assolutamente la pasta.

Lei mi seguì come un cagnolino in spiaggia, dove si spogliò e si buttò in acqua. Sentii un rimescolio nelle mie parti basse, ma non mossi un muscolo per raggiungerla. Mi limitai a fissarla dalla riva con la bava alla bocca.

I suoi lunghi capelli neri rilucevano d’acqua e di sole, la curva perfetta dei suoi seni si stagliava contro l’azzurro del mare, la rotonda meraviglia delle sue natiche ondeggiava al filo dell’acqua.

Dannazione, potevo almeno asserire di essermi scopato la donna più bella del mondo. Come altri quattro milioni di tizi, d’altronde.

Quando riemerse gocciolante dall’acqua guardai altrove. Vedi, il mio ragionamento era semplice: me la scopo ancora e lei non dirà niente. Domani Romano le chiede se l’ho fatto e lei risponde di sì. Semplice. Quella tizia non era capace di mentire in modo convincente.

Lei venne a gocciolarmi vicino e io mi alzai e rientrai in casa. Senza dire una parola.

“Ti ho fatto arrabbiare Pierre?” la sentii chiedere, mentre mi seguiva come un cagnolino.

“No, Liz. È tutto ok. Volevo controllare la pasta.”

“Ma hai detto che non si può sollevare lo straccio…”

“Sì, ma si può capire se si è gonfiata come deve.”

“Ah. Si gonfia?”

Sì, maledizione, se continui a gocciolarmi davanti!

“Lievita, no? Quando ha finito di lievitare si può usare.”

“E quanto deve lievitare?”

Ancora un po’ e esplode, cocca!

“Bho? Cinque, sei ore, mi pare.”

“Ne sono passate solo due.”

“Ok, Liz. Adesso ascoltami: è bello che tu voglia aiutare, ma il cuoco sono io, va bene? Se voglio controllare la cazzo di pasta saranno fatti miei?”

Lei mi sembrò rattristarsi.

“Mi dispiace.”

Ecco, adesso era triste e quasi piangente, e continuava a gocciolare.

“Non sono arrabbiato!” esclamai. E poi, poco dignitosamente, me la diedi a gambe.

lunedì 14 novembre 2011

Pierrot - 15

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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“Romano è ancora a pezzi, Pierrot,” mi disse Giuliano, il giorno dopo.

“Mica gli passa, se continua così,” commentai, svagato.

“Lei come sta?”

“Bene. L’ho fatta pescare ieri.”

“Pescare?”

“Sissignore. Non ha preso un cazzo. Io un pesce che non sapevo se era commestibile, così l’ho ributtato in acqua.”

“Senti un po’, Pierrot… mi stai prendendo per il culo?”

“Che cosa vuole che le succeda, Don? A parte che l’ammazzi io, è chiaro.”

“Non te la sei scopata ancora, vero?”

“Nossignore. Mi era già passata la voglia, comunque.”

“Be’, a mio figlio no, Maddonnuzza santa.”

“Devo riportarla?”

“Aspettiamo ancora un po’.”

Pierrot - 14

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Era calato il buio quando lei mi raggiunse sul divano su cui mi ero accampato. E che Don Giuliano potesse morire male e morire tardi!

“Ho paura, da sola,” mi disse, mentre si sedeva accanto a me. “Non dormo mai da sola. Ti prego, vieni di là, non lo dirò a nessuno.”

Mi scostai il lenzuolo di dosso e la seguii senza una parola. Ero stanco di tutta quella storia. Possibile che nessuno di quegli inetti avesse saputo tenersi una donna che aveva paura di dormire da sola? Che non era in grado di dire di no a niente?

Mi stesi al suo fianco e chiusi gli occhi.

“Ci ho pensato, sai?” mi disse.

Riaprii un occhio a metà. Un quarto della mia attenzione in tutto.

“A cosa?”

“A quello che vorrei fare. Se potessi, intendo.”

“Ah. E che cosa vorresti fare?”

“Rimanere con te, quando sei buono. Lavare le tue cose, prepararti da mangiare e dormire insieme a te. Magari anche pescare. Non è difficile.”

Richiusi anche il mezzo occhio che avevo aperto e feci finta di dormire.

sabato 12 novembre 2011

Pierrot - 13

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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“Mi piace questa casa,” mi disse lei, quella sera, a cena.

“Già,” risposi. “Piace anche a me. Un vero peccato doverla vendere, se ti riporto a New York.”

“Perché? Che cosa c’entra, scusa?”

Mi infilai in bocca una forchettata di insalata e mi strinsi nelle spalle. “Nessuno sapeva dov’era, prima, e nessuno saprà dov’è la prossima. Non voglio che qualcuno mi insegua fin qua per provare a farmi la pelle, o semplicemente per assillarmi.”

“Tu non dici mai niente di te. Da dove vieni?”

“Marsiglia,” risposi, atono e laconico.

“In Francia?”

“Ma certo. Non senti il mio accento?”

Lei scosse la testa. “Non si sente tanto. Ma mi piace quando parli francese.”

Ridacchiai: “Come Morticia Addams, eh?”

“Ma no… mi piace il suono che hanno le erre, e mi piaci quando bestemmi in francese. È molto espressivo: sembra che tu stia dicendo qualcosa di orribile, di blasfemo.”

“Bah, di solito è cosi, ma cherie.”

“E perché sei diventato un assassino?”

Le sorrisi. “Chissà? Magari per indole.”

“Sei proprio uno strano personaggio. Non si capisce mai cosa ti frulla in testa.”

“Un sacco di cose semplici. Un sacco di cose complicate.”

“Non credo che capirei.”

“Non ha importanza, tanto non te le racconterò.”

“Come vivono i mafiosi?” mi chiese, saltando di palo in frasca.

Io risi. “Non lo sai?”

Lei si strinse nelle spalle. “Sono stata quasi sempre a letto, mentre ero con Romano. È come se qualcuno mi chiedesse come vivono gli assassini. Scopano anche loro, risponderei. O credi che qualcuno mi abbia mai spiegato qualcosa?”

“Gli italiani hanno un sacco di regole. Poi se ne fregano come tutti gli altri, però ne hanno un mucchio. Si aspettano che le loro donne siano fedeli e crescano i figli,” ridacchiai. “Questi sono gli italo-americani, ovviamente. Sono rimasti fermi a cinquant’anni fa.”

Liz fissò cupamente le proprie mani sul tavolo.

“Allora non funzionerà,” predisse. “In ogni caso non funzionerà.”

La guardai. “Tu non sei capace di sottrarti a niente, non è vero?”

Lei scosse la testa, silenziosa.

“Ma tu…” domandai “… che cosa vorresti fare?”

Aveva lo sguardo smarrito quando mi rispose: “Non lo so.”

giovedì 10 novembre 2011

Pierrot - 12

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Passai il resto del pomeriggio sul pontile, pescando. Era piacevole starsene là con la canna da pesca appoggiata sulle ginocchia, aspettando solo che il tempo passasse.

Posso essere molto paziente, è sempre stata una mia caratteristica. Non fare niente non mi pesa. Aha-ah!

A un certo punto presi anche un pesce di razza a me sconosciuta. Non sapendo bene cosa farmene lo sganciai e lo ributtai in acqua. Lui se la filò veloce come una scheggia, sollevato di essere stato graziato. Be’, dovevo fare allenamento anch’io. Con quella faccenda del graziare, intendo.

A un certo punto scorsi con la coda dell’occhio Liz che risaliva il pontile. Si sedette accanto a me, le gambe raccolte sotto di lei.

“Posso stare qua?”

“Certo,” risposi. “Vuoi una canna anche tu?”

Lei sorrise. “No, quella roba non so usarla.”

“Scemenze. Non la so usare neanch’io e prima ho preso un pesce. È che quelle bestie sono tremendamente stupide. Vai a prendertene una.”

Liz si alzò, silenziosa ed obbediente. Tornò con una canna da pesca smontata e io gliela preparai.

“E ora?” chiese lei.

“Ora niente. Aspetti che abbocchi qualcosa.”

“E come faccio a sapere che abbocca?”

“Si muove il filo. Te ne accorgi, tranquilla.”

“E poi?”

“E poi tieni la dannata bocca chiusa, se no non abboccherà mai niente!”

Lei chiuse la bocca, anche se mi guardò con occhi vagamente mortificati. Le accarezzai una guancia e la baciai, tanto per ammorbidire i toni.

Le sue gambe snelle penzolavano giù dal pontile e i suoi alluci sfioravano il pelo dell’acqua. Lei guardò l’orizzonte e sorrise.

Io mi sdraiai sul pontile, con la canna incastrata sotto alle gambe, e dormicchiai.

Non prendemmo più nemmeno un pesce.

Pierrot - 11

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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“Non è mica tanto sicuro che ti devo ancora uccidere,” comunicai a Liz, sedendomi al tavolo della cucina.

Lei mi fissò senza parole.

“Mi ha telefonato il vecchio,” spiegai, con calma. “Ha detto che Romano non dorme e non mangia, sicché gli dirà che sei morta e vedrà cosa succede. Anche se non sembra gli vuole bene, al debosciato.”

“E se non gli passa?” chiese lei, con un filo di voce.

“In quel caso ti riporto indietro e lui ti sposa.”

Lei rimase in silenzio ancora per un minuto buono, prima di mormorare, incredula: “Mi sposa?”

“A quanto pare,” risposi io, divertito.

“Una puttana?”

“Una bottana, come dice il vecchio. Sissignora. Pensa che non posso nemmeno più scoparti,” dissi, stringendomi nelle spalle.

Liz tornò a fissarmi. “Davvero?”

Sogghignai. “Non è che il vecchio sia su quest’isola, no?”

Rise anche lei, un po’ stancamente.

“A ogni modo mi è passata la voglia,” le comunicai. “Mi dispiace di aver fatto l’animale,” mi grattai il mento. “No, anzi. Non mi dispiace, devo dire. Non ho mai goduto così tanto in vita mia. Mi dispiace un pochino di averti fatto male, forse.”

“Ti sei fatto male anche da solo.”

“Puoi scommetterci.”

Lei scosse la testa. “E se gli passa?” chiese, a quel punto.

“Allora ti ammazzo,” risposi, tranquillo, quasi gioioso.

“Mi stavo abituando all’idea di essere un morto che cammina. Ora mi si scombina tutto. Non è corretto.”

“Già. Non piace neanche a me.”

“E allora… non potresti…”

“Farti scappare? Come no. Sento proprio il bisogno di rischiare il collo per colpa tua.”

Lei si mordicchiò le labbra.

“Ehy, su con la vita,” le dissi. “Quanto scommettiamo che non gli passa?”

Liz si alzò, arrabbiata. “La mia vita, magari?”

mercoledì 9 novembre 2011

Pierrot - 10

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Quando mi risvegliai ero un unico dolore, affamato e… calmo. Lanciai a Liz una vaga occhiata. Era bella come sempre, ma finalmente i suoi lineamenti perfetti mi davano semplicemente gioia alla vista.

Scesi silenziosamente dal letto e mi stiracchiai. Scivolai in cucina e mi preparai una colazione ricchissima. Mangiai a sazietà e mi infilai sotto alla doccia con calma.

Mi lavai e insaponai, poi portai da mangiare a Liz.

La scossi gentilmente per una spalla e lei mi guardò con occhi quieti e stanchi.

“Ancora?” chiese, assonnata.

“Colazione,” risposi. “Io mi vado ad abbronzare.”

Lei mi parve quasi stupita, io risi. Il sole era caldo come sempre, il vento fresco, il mare meraviglioso.

Mi piaceva quella casa, anche se ci andavo poco. Sai com’è… sempre in giro a uccidere questo e quello!

Ascoltai anche, per la prima volta, la segreteria telefonica col telefono satellitare. Significava che mi stavo rompendo, ovviamente.

C’era un messaggio di Don Giuliano, che mi chiedeva notizie.

Lo chiamai.

“Sono Pierrot,” dissi, felicemente stravaccato sotto al sole.

“Dove ti sei cacciato?” mi rispose, brusco, il vecchio.

“Su un isoletta a prendere il sole,” risposi.

L’altro rimase in silenzio.

“Don Giuliano, c’è ancora?” finii col chiedere.

“Quel minchione di mio figlio sta facendo un gran casino,” rispose lui, lentamente.

“Ah,” non mi sbilanciai, io. Romano era un tipo preciso, mica scherzi. Che diavolo stava succedendo?

“Rivuole la sua bottana, dice che non riesce a dormire, senza di lei, e dannazione se non è vero. Quell’…” e qua introdusse una stringa di sillabe per me assolutamente incomprensibili.

“Ah,” feci, di nuovo. Be’, potevo capirlo.

“E tu sei in vacanza, eh?”

“Nossignore. Sto lavorando, più o meno.”

Don Giuliano rimase di nuovo in silenzio. Sapeva di non poter chiedere dettagli sui miei lavori, e nemmeno gliene fregava niente.

“Di’ un po’… l’hai ammazzata, eh?”

“Nossignore,” risposi, ridacchiando. “Non ancora.”

“Figghiuzz’ mio!” esclamò lui. “È ancora… tutta intera, eh?”

“Suppergiù,” non mi sbilanciai.

“In che senso?” inquisì il vecchio, sospettoso.

“Potrei averla un po’ usurata. D’altronde non è che fosse di prima mano, no?”

Don Giuliano ridacchiò. “Pierrot, Pierrot… anche tu figghiu meo… »

“Be’, l’ha vista no ?” ribattei.

“Come no. Allora, ascolta: tienitela ancora un po’, occhei? Solo non la sciupare. Ho detto a Romano che probabilmente l’avevi già ammazzata – ah, è un poco imbestialito co’ttia, ma gli passerà. Se non gli passa…”

“Se non gli passa accoglierà la prima bottana in famiglia,” conclusi io, decisamente ilare.

Don Giuliano mi rispose con un’altra stringa di parolacce in siciliano.

“Quanto la devo tenere?” aggiunsi io, che stavo già cominciando a fatturare mentalmente.

“Un altro poco, Pierrot. Un altro poco. Mille dollari al giorno da ora, ti sta bene?”

“Certo.”

“E smettila di fotterla.”

“Ok.”

“Sul serio, eh? Se ritorna indietro deve ritornare praticamente intera. È una questione di principio, capisci?”

“Certo. Me lo terrò nei pantaloni, Don Giuliano. Sono un professionista.”

Don Giuliano sospirò. “Sì, lo so. Tu sì.” E riagganciò il telefono.

Credo che, prima di rientrare, rimasi ancora un bel pezzo sulla spiaggia a ridere.

martedì 8 novembre 2011

Pierrot - 9

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Me ne rimasi tutto il giorno sul letto, molto impegnato a guarirmi. Ogni mezz’ora mi spalmavo di crema antibiotica alla calendula, il che mi dava un certo sollievo. Ma più di tutto mi dava sollievo che Liz se ne stesse fuori dalla mia vista, con quel suo corpo perfetto appena coperto dal vestito leggero che aveva indossato.

Quando mi portò da mangiare scappò subito via e io rimasi là, sdraiato a pancia in su a leggere.

Ora immagino che penserai che io avessi qualche disfunzione o perversione o chissà cosa. Non saprei cosa risponderti, onestamente, se non che le donne mi sono sempre piaciute, ma nessuna mi aveva mai fatto ribollire il sangue come questa.

Se mi avessero chiesto qual’era il mio più alto desiderio, in quel momento, avrei risposto senza esitazione che avrei voluto rimanere dentro di lei per sempre. Semplice.

Non era dignitoso, me ne rendevo conto. Era praticamente un handicap.

Dalla sera, per parlar franco, il mio arnese era guarito, più o meno, ma mi facevano male le palle a forza di fugaci erezioni e faticosi afflosciamenti.

A ogni modo il mal di palle me lo sarei tenuto ancora un po’.

La notte mi infilai sotto le lenzuola e provai ad addormentarmi, malgrado Liz che mi dormiva accanto e che, ti giuro, mi uccideva il sistema nervoso.

Credo che rimasi metà della nottata con un palo dolorosamente eretto tra le gambe e le mani incrociate sul petto per non cadere in tentazione.

La mattina successiva, col primo raggio del sole che illuminava uno spicchio della sua guancia, mollai il colpo e le saltai addosso.

Fu l’ennesimo smacco, ma mi fece sentire ugualmente meglio.

Non mi ricordo quante volte le venni dentro, che fosse la sua fica, il suo culo o la sua bocca. So solo che, semplicemente, non riuscivo a fermarmi.

Liz gemeva piano, sbattuta come un cencio, strizzata, palpata, morsa. Credo che non avesse mai lavorato così tanto in vita sua.

Le venni sulla faccia, sulle tette, sul culo e sulla fica. La montai mentre era a terra, in ginocchio, con le chiappe al vento e stesa su un lato. Le allargai le gambe fino a farla piangere e quando non ci riuscivo io la penetravo con tutto quello che trovavo.

Fu un assedio, una guerra di trincea, un lento e metodico torturarla, non ci sono altre parole per dirlo.

Le feci tutto quello che mi passava per il cervello, usandola come un pupazzo oscenamente bello, che rischiava di rompersi ogni volta.

Continuai finché non urlò pregandomi di smettere, e dopo continuai ancora, finché non mi sentii ogni osso rotto, finché non fui di nuovo spellato e sanguinante, davanti e dietro, anch’io.

E ti giuro che anche il maledetto John Holmes ne avrebbe avuto abbastanza a quel punto.

Avevo portato il sesso fino alla nausea, fino alla ripugnanza e oltre. Non c’era assolutamente più niente che potesse farmelo venire duro, nemmeno la bocca della Madonna.

Nel caos che era diventata la mia stanza da letto, mi addormentai con la bocca sopra al cuscino.

lunedì 7 novembre 2011

Pierrot - 8

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Mi svegliarono i raggi del sole e il caldo della casa. Le lenzuola erano ancora fresche, in alcuni punti, così mi rigirai nel letto. Liz respirava lentamente, leggera, stesa sopra al letto nella sua abbagliante, nuda bellezza.

Ancora una volta provai l’impulso di possederla, malgrado non mi fossi ancora ripreso dalla sera precedente. Mi si induriva a metà, poi il dolore lo faceva afflosciare, poi si induriva di nuovo. Alla fine prevalse il desiderio e, pronto, le saltai sopra e le affondai dentro con una spinta.

Questa volta urlai.

Lei aprì gli occhi, presa alla sprovvista dall’improvvisa intrusione, e guardò la mia faccia contratta e sofferente. Ma non potevo farci niente, dovevo continuare, appena il dolore scemava davo un colpo, poi gemevo, poi davo un altro colpo.

Anche lei soffriva, lo vedevo da come stringeva gli occhi, ma era più abituata di me.

“Che male…” le soffiavo nelle orecchie. “Che cazzo di male… questa maledetta fregna mi ammazzerà prima che ti ammazzi io… stronza di una troia bellissima… e stronzo di un assassino arrapato… merde!”

Merde!” ripetei. “Nom de dieu de putain de bordel de merde de saloperie de connard d'enculé de ta mère!

E poi ululai di dolore, mentre mi svuotavo dentro di lei, e ognuna delle sue contrazioni mi faceva vedere l’inferno.

Uscii e mi guardai il membro, preoccupato. Era di un brutto colore rosa acceso, leggermente insanguinato.

“Cazzo…” mormorai, tornando all’inglese. “Devo assolutamente metterlo a mollo nell’acqua dolce.”

Liz mi guardò e rise, la puttana.

“Vieni con me,” mi disse, scendendo dal letto e prendendomi per un polso. Le barcollai dietro e se dovessi giurare che le sue chiappe che si muovevano mi lasciavano indifferente mentirei di brutto.

Mi portò in bagno e aprì l’acqua nella doccia. Questa scese tiepida, per essere stata sotto al sole, nella cisterna.

Mi pulì con attenzione (facendomi un male cane). Lampeggiavo di dolore, ero gonfio e contuso, eppure rischiavo a ogni istante di ricascarci. Mi lasciò sotto la doccia e tornò con una pomata. Me la stese con mani leggere sul membro e sentii una piacevole freschezza invadermi.

“Però devi startene fermo per un po’, okay?” mi sorrise.

“Amore, non posso. È una maledetta tortura, ma guardalo…”

Lei mi baciò sulla pancia. “Te lo prenderò in bocca” disse. “Ma piano piano.”

Mi appoggiai contro le piastrelle del bagno mentre lei lo faceva. Usò solo la lingua e solo sulla punta, e davvero pianissimo, ma venni lo stesso.

Iniziavo a pensare di essere malato. Era un comportamento semplicemente autodistruttivo e dovevo assolutamente piantarla.

E, cazzo, so cosa stai pensando, ma non volevo ucciderla senza prima averla fottuta almeno una volta per bene, con tutti i crismi e senza ululare di dolore.

“Perché non mi hai uccisa, ieri sera?” mi chiese lei, come se mi leggesse nel pensiero. Ma naturalmente non lo faceva.

“Hai avuto paura,” mentii.

“E non hanno sempre paura, le tue vittime?”

“Tu non ne avrai.”

“Ed è normale che tu continui a chiacchierare con me, a diventarmi amico ?”

Io risi, questa volta genuinamente divertito dalla sua ingenuità.

“Sono gli amici quelli che si uccidono con più gusto, amore mio.”

domenica 6 novembre 2011

Pierrot - 7

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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In cucina stappai due bottiglie di birra, e gliene tesi una. Lei la prese e bevve una lunga sorsata dal collo. Gocciolavamo per terra, così uscimmo di nuovo e andammo a sederci sulla veranda. Io stesi un asciugamano pulito sul pavimento di legno e mi accomodai lì, con la schiena contro il muro caldo della casa.

“Sei un uomo incomprensibile, lo sai Pierre?” mi disse lei.

“Sì,” risposi.

“Scommetto che ognuno dei tuoi omicidi è un capolavoro,” aggiunse, lei.

“No, questo non è vero. Ho ucciso tanta gente senza nessuna ispirazione.”

“Che cosa intendi per ispirazione?”

Sorrisi. “Quando senti che quello è esattamente il momento giusto e il posto giusto e il modo giusto.”

“E se non è il momento, e il luogo, e il modo giusto?”

“Allora li accoppo lo stesso.”

“Mi ucciderai solo quando avrai l’ispirazione?” chiese lei, titubante.

“Ma l’ho già avuta, amore mio. In albergo. Non ci pensare. Quando sarà il momento lo saprai da sola.”

Lei chiuse gli occhi e, credimi, era ancora più bella.

“Non riuscirei mai a uccidere qualcuno. Ci ho pensato, sai? Ma non ne sarei capace.”

“Lo so,” sussurrai. “Tu sai solo morire. Sarà quello il tuo capolavoro.”

“Forse sono già morta. Molto molto tempo fa.”

Risi, ma senza allegria. Qual’era quella canzone? I thought, you died alone… a long long time ago…

La canticchiai tra i denti, credo, perché lei aggiunse: “Già. L’aveva già detto David Bowie.”

“E io non perdo mai il controllo,” dissi, spolverandomi via un po’ di sale secco dalle gambe. “Davvero pensi di essere già morta?”

“Perché no? Magari non me ne ricordo e basta. E poi perché dovrei sopravvivere? Sono utile solo agli altri. Ogni uomo che mi monta si sente il padrone del mondo.”

Mi sorrise. “Se posso scoparmi lei posso fare tutto.”

“A dire il vero avevo l’impressione che bastasse pagare. A volte neanche quello, basta prenderla una donna come te. Non si lamenta, si limita a rifulgere di bellezza, come un tizzone di stella che esala gli ultimi bagliori nel tuo letto.”

“Sei poetico, Pierre. Poetico e triste, come un Pierrot. Potrebbero chiamarti così, sai?”

Io risi forte, questa volta. “Mi ci chiamano già!”

Lei si voltò a guardarmi, i suoi occhi allungati che scintillavano, dello stesso blu del cielo. “Non assomigli a Pierrot,” disse. “Assomigli ad un lupo biondo e affamato. A un predatore intelligente, che trotterella leggero dietro alla sua preda.”

Risi di nuovo.

“Sai cosa dicono dei grandi felini della savana? Che la gazzella li guarda in silenzio, forse per mezzo secondo, affascinata dalla loro bellezza. Rimane… a bocca aperta, no? E in quel mezzo secondo il leone le salta al collo e la uccide. Mi piacerebbe assomigliare a un leone, invece sono solo un vecchio lupo affamato, col pelo sciupato e le costole sporgenti. La gente mi fissa e non rimane un attimo a guardarmi. Pensa: questo mi uccide. Subito.”

Liz mi fissò in silenzio.

“Dev’essere gradevole,” disse, alla fine.

“Immagino che sia più gratificante che veder scorrere negli occhi di chi ti guarda la voglia folle di mettertelo dentro.”

“Ma io non servo a nient’altro, Pierre. È esattamente quello che sono: un ricevitore. Sono nata per avere il vostro cazzo dentro, e per nessun altro motivo. Perché Dio mi avrebbe fatta così desiderabile, se no? Se mi guardi bene non sono bella, ho milioni di difetti. Ma se mi guardi ti è già diventato duro, e non te ne accorgi più.”

“Adesso non ce l’ho duro,” risi.

“Solo perché ti fa male. Ma ce l’hai duro nel tuo cervello.”

Dovevo ammettere che era vero. Non potevo guardarla senza avere superbe erezioni mentali.

“In ogni caso, vedi…” continuò lei, tranquilla “… se dovessi invecchiare e perdere questa mia strana bellezza, non servirei più a niente. Da un certo punto di vista, quindi, è giusto che tu mi uccida ora, o tra poco, prima che questo accada.”

Mi venne voglia di accarezzarle una guancia, ma mi trattenetti.

“Oh, stai sicura che Clyde e Lester, e Romano, e forse anche Santos, mi odieranno, per averti ammazzato. Non ci sarà pietà, per l’assassino, come è giusto che sia. Per aver distrutto la tua bellezza.”

“E cosa te ne importa? Nessuno di loro mi avrà posseduto, e tu sì.”

Scossi la testa, divertito.

“Buffo modo di possederti, non trovi? Distruggendoti.”

Lei si strinse nelle spalle. “È sempre stato così. Non è stato Napoleone a saccheggiare l’Egitto? Tuo connazionale.”

“Ci hanno provato un po’ tutti, da Cesare in su,” risposi. “Ti paragoni all’Egitto, ora?”

“A quello che è stato saccheggiato, non a quello che è rimasto.”

Mi limitai a guardarla, chiedendomi se Cleopatra assomigliava a lei. Forse sì. Doveva essere così, pensai, non c’era altra soluzione.

Lei si scostò i capelli dal collo e capii che me lo stava offrendo.

Scivolai verso di lei e le salii sopra, le mani che le si stringevano attorno alla gola, salde ma carezzevoli. Lei mi guardava e i suoi occhi tranquilli mi incitavano a rubarle il respiro.

E poi, per un istante, lei ebbe paura, una gran paura. Le ciglia le si riempirono di lacrime e provò a respirare. Allentai la stretta e le accarezzai le spalle, le baciai le labbra.

Ci unimmo ancora, stesi a terra su un asciugamano, sulla veranda, con grande dolore.

sabato 5 novembre 2011

Pierrot - 6

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Esattamente tre ore dopo eravamo con le chiappe appoggiate su due lussuose poltrone di prima classe, diretti verso sud. Liz aveva ancora gli aderentissimi jeans bianchi senza sotto la biancheria, io ancora i miei sdruciti jeans blu, con sotto un’altra erezione.

L’hostess, molto gentilmente, finse di non farci caso quando mi versò da bere.

A parte questo io avevo anche due passaporti nuovi, uno per me e uno per Liz. Quando si spensero le luci le chiesi se poteva liberarmi del mio imbarazzo infilando la testa sotto alla coperta. Fu un altro smacco per la mia virilità.

Cambiammo volo altre due volte, e alla fine salimmo su una barca privata che ci avrebbe accompagnato alla mia isoletta.

Durante tutte le dieci ore di viaggio avevamo scambiato forse dieci parole: una all’ora.

La mia isola era più o meno tonda, più o meno di un chilometro di diametro, sabbiosa, con tre palme, quattro cespugli d’agave, un molo, una barca a motore e una casa.

La casa era di legno di tek, e possedeva quattro stanze: una cucina, una stanza da letto, una biblioteca e un salotto. Come avrai già capito di solito non vengo qua in compagnia.

Liz aspettò che mollassi le casse coi rifornimenti in cucina prima di farmi la domanda che aveva in mente da dieci ore.

“Chi sei Pierre?”

Io la guardai un istante, poi mi strinsi nelle spalle, come a dire: uno stronzo qualsiasi.

Lei buttò a terra il sacco che si era trascinata fin là. “Dai,” insistette. “Chi sei perché il vecchio ti paghi per venire a letto con me?”

“Che mi paghi per questo io non te l’ho mai detto,” risposi.

“Appunto.”

La guardai di nuovo. I suoi splendidi occhi color antracite iniziavano a tradire i primi segni di paura.

“Un assassino,” le risposi, a quel punto per tranquillizzarla. In un certo senso funzionò. Liz capì tutto al volo. Sospirò, accettando il suo destino con stoicismo.

“Non avrebbe potuto semplicemente sfregiarmi?” chiese, ma con voce fiacca.

“Non chiederlo a me,” risposi, stringendomi di nuovo nelle spalle. Poi iniziai a sbottonarmi la camicia.

“Ovviamente,” aggiunsi, lanciandola da un lato, “sai già quale potrebbe essere la tua unica via di scampo.”

Lei si sfilò il maglione, che fino a quel punto l’aveva solo fatta sudare, e anche tutto il resto. La guardai spassionatamente, alla ricerca di un qualunque difetto. Non ne trovai.

Uscii e andai a recuperare la mia sdraio in camera. La trascinai fuori. Il sole era caldissimo, ovviamente, ma dal mare tirava un bel vento fresco. Si stava benissimo. Osservai, lontana sull’orizzonte, l’isola di Barbados. Sapevo che la stava osservando anche lei, magari insieme alla mia barca.

“Il motore ha un codice di sblocco,” comunicai, aprendo la sdraio sulla sabbia, vicino al bagnasciuga.

Mi ci stravaccai sopra. Dio, se si stava bene. Liz si accucciò tra le mie gambe, nuda, e mi slacciò i pantaloni. La guardai dall’alto, con gli occhi socchiusi, mentre me lo prendeva in bocca. Ancora una volta fu uno smacco, ma questa volta lei non si fermò.

Scoccia ammetterlo, ma venni ben tre volte in un’ora, il che, come capirai, non è proprio un gran record. Il sole mi abbronzava e abbronzava anche lei, rosolandoci a fuoco lento.

Quando finalmente calò sull’orizzonte mi scrollai di dosso pantaloni e puttana e mi avviai mollemente verso il mare. Entrai nell’acqua fino alla vita e Liz, fedele, mi venne dietro, con un lieve ondeggiare di seni.

Fare il gran maiale per il momento era piuttosto soddisfacente, se te lo stai chiedendo.

In acqua, Liz si guardò intorno con viso inespressivo, osservando i colori del tramonto.

“Be’,” mormorò, “almeno è un bel posto per morire, eh?”

Due lacrime quiete le scivolarono giù per le guance, bellissime come tutto il resto di lei.

“Uno dei più belli,” concordai. “Se dovessi scegliere, questo sarebbe il mio preferito.” La accarezzai sulla schiena. “Guarda come il sole si tuffa nell’acqua all’improvviso.”

“Fin quando mi terrai in vita?” mi chiese lei.

“Fin quando non mi sarò stancato,” le risposi, sincero.

“E se non ti stancassi?”

“Allora non moriresti. Non ne abbiamo già parlato?”

Lei chinò la testa. “Scusa,” mormorò.

Ora, questo mi fece una certa impressione. Il suo completo abbandono, il fatto che mi chiedesse scusa perché io ero stato stronzo. Mi incuriosì.

Uscii lentamente dall’acqua e mi andai a sdraiare sul bagnasciuga. Lei mi si sedette accanto, la sabbia umida che le si appiccicava dappertutto. Mi tornò immediatamente duro. Dio mio, stava diventando un incubo!

Lei si chinò su di me, pronta a prendermelo ancora in bocca, ma io la scostai. Non potevo continuare a quel modo. Lei si sedette a gambe incrociate, e mi guardò.

“L’hai già fatto prima?” mi chiese. Poi si morse le labbra, come se sapesse che non avrebbe dovuto domandarlo.

“No,” le risposi. “È stata un’idea del momento.” Le accarezzai una coscia. “Mi rendo conto che è un’idea crudele, ma è anche irresistibile,” spiegai.

Lei si morse ancora le labbra, quelle labbra perfette e insolenti, che ora tremavano.

“Come…” deglutì. “Come lo farai?”

Le sorrisi. “Non sentirai niente.”

Liz si asciugò una lacrima. “È tutta una vita che non sento niente. Strangolami lentamente, invece.”

“Sono così brutte le persone che soffocano…” risposi, dolcemente.

“È tutta una vita che sono bella,” disse lei.

Ero colpito. Di nuovo. Continuavo anche ad avere una pulsante erezione tra le cosce, ma non potevo farci niente.

Le infilai lentamente una mano tra le gambe e scavai un po’ nella sabbia per raggiungerla. Non volevo irritarla irrimediabilmente con i granelli ruvidi della sabbia, così rimasi all’esterno. Lei sciolse il nodo che formavano i suoi polpacci e si appoggiò sulle mani per agevolarmi il compito. Non resistetti e le entrai dentro con le dita, piano piano.

Liz mi fissò, senza neanche fingere che per lei facesse qualche differenza. Aveva già rinunciato, e mi dispiacque.

Mi rotolai su un fianco fino a esserle accanto e la feci stendere sulla schiena. Con le mani sporche di sabbia l’accarezzai lentamente ovunque. La solleticai sulle labbra, sulle braccia, sui fianchi. La toccai sui seni e sulle natiche, la massaggiai là dietro, poi le baciai i capezzoli. La sabbia mi entrò in bocca, ma non ci feci caso.

La baciai sulle labbra, le ripulii con l’acqua del mare, ma non c’era lo stesso gusto.

Finii, invece, per cospargerla ancora di più di rena umida, continuando nel mio gioco. Lei giaceva lì, immobile ma disponibile, con le gambe aperte. Mi chinai tra quelle gambe e la baciai, la leccai, titillai in punta di lingua la sua erezione di donna.

Era una questione di principio, vedi? E avevo tutto il tempo del mondo.

La punta del mio pene si conficcava nella sabbia, e lì venni, ma non mi fermai. Ero… infiammato. Continuai e continuai, sfiorandola ovunque, leccandola e – di fatto – mangiando un mucchio di sabbia, finché non la sentii tendersi leggermente verso di me.

Forse si era finalmente dimenticata che stava per morire.

Le sue mani affondavano nel bagnasciuga, ora, lambite leggermente dalle onde, e la sua schiena si inarcava.

Continuai ancora.

Non so per quanto andai avanti, ma alla fine avevo la mascella indolenzita e il cielo era quello blu chiaro dell’inizio della notte. Le salii sopra e la penetrai lentamente, un po’ anche per non farmi male, con la sabbia e tutto.

Lei si strinse a me e decisi di fottermene della sabbia. Ci diedi dentro per bene, con una mano ancorata sul suo clitoride, finché non la sentii venire.

A quel punto lo feci anch’io e fu un’immensa liberazione. Me lo sentivo lampeggiare dal dolore. Qualunque malattia avesse lei io l’avevo sicuramente presa, ma non me ne importava niente. ‘Fanculo, pensavo, tanto quando mai vivrò fino ai settanta?

Mi sfilai lentamente da lei, respirando forte, e mi afflosciai sulla sabbia. Liz piangeva, ma l’aveva fatto tutto il tempo.

“Che male…” mormorai e ebbi quasi voglia di ucciderla subito, non per ripicca, ma perché non ce l’avrei fatta mai più.

Lei sorrise. “Sì, anch’io,” disse.

Mi alzai faticosamente in piedi e le tesi una mano. Lei mi guardò, sembrò riflettere, poi la prese. Credo che pensasse che l’avrei uccisa allora. Be’, l’avevo pensato anch’io, no?

Comunque si issò al mio fianco, pronta.

Entrammo insieme nell’acqua e io sperai che nessuno squalo sentisse l’odore del sangue. Mi sciacquai. Abbassandomi il prepuzio quasi gridai dal dolore, ma da vero maschio tenni duro. Che cazzo di idee…

Poi, con grande gentilezza, risciacquai anche lei. Piano, molto piano, finché tutta la sabbia non se ne fu andata. Le lavai i capelli nel mare, splendenti nella notte.

Mi sentivo triste, posso dirtelo?

A ogni modo la lavai tutta e me la riportai verso casa. Credo che a quel punto avesse capito che non l’avrei uccisa quel giorno.

venerdì 4 novembre 2011

Pierrot - 5

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Insomma, ero tutto soddisfatto della mia idea. Mi sistemai le palle nei calzoni, recuperai il cellulare e mi affrettai a incidere un nuovo messaggio sulla mia segreteria telefonica.

Diceva: “Fino alla fine del mese non ci sono.” Semplice e cristallino.

Poi telefonai a Vargas.

E questa fu la nostra conversazione:

“Sono Pierre.”

“Ciao, Pierrot, come stai?”

“Discretamente. Me ne servono due, uno per me, uno per una donna sui venticinque. Passo a portarti una foto.”

“M-mh. E per quando ti servono?”

“Per quando ti porto la foto.”

“Ah. E quando mi porti la foto?”

“Adesso.”

“Ah.”

“Sono da te tra un’ora.”

E così finì la conversazione. Chiusi il cellulare, me lo rinfilai in tasca e gettai un’occhiata a Liz. Si era rivestita. Amavo le donne che non portavano la biancheria intima.

Acchiappai la sua valigia e la appoggiai sul letto. Lei mi guardò confusa mentre la aprivo e ci frugavo dentro. Una serie di articoli interessanti, ma nessuna pistola. Molto bene.

La richiusi e feci lo stesso con il sacco. Anche qua niente di illegale, almeno strettamente parlando. C’era, però, un bustier

Mi caricai il sacco in spalla e dissi: “Andiamo, amore.”

giovedì 3 novembre 2011

Pierrot - 4

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Ecco: questo era quello che sapevo di Liz dopo aver parlato con Don Giuliano. L’altra cosa che sapevo era che lui mi dava diecimila dollari per evitare che finisse di nuovo con uno dei suoi quattro ragazzi d’oro.

Adesso, vorrei chiarire un paio di cose. Di solito i miei contratti partono dai trentamila, ma persino io capivo che far secca una puttana, per quanto mi si dicesse che era bellissima, non era un lavoro da trenta pezzi da mille.

Specialmente visto che stava venendo in taxi nella camera d’albergo che gli uomini di Don Giuliano mi avevano riservato, da sola e disarmata.

Secondariamente Don Giuliano non mi aveva chiesto di ucciderla, solo di tenerla lontana dal cazzo dei suoi rampolli. Il vecchio si rendeva conto che eliminare una puttana disarmata sarebbe stata una macchia sul mio curriculum, così, in pratica, mi stava dicendo che se anche l’avessi imbarcata per un’isola anonima del Madagascar a lui sarebbe andato bene.

E comunque non potevo negare un favore al Don. Non se avessi voluto continuare a farmi i fatti miei in un buon numero di paesi del mondo, in ogni caso.

Quindi, alle tre di un sabato pomeriggio, mi trovai seduto su un letto di una stanza d’albergo, in cerca di ispirazione.

La stanza non era particolarmente adatta alle pensate brillanti, squallida com’era. È ovvio che portare un cadavere fuori dal Ritz è più complicato che farlo uscire da un motel, e questo lo sapevamo benissimo sia io che Don Giuliano.

Le pareti erano color muffa, il letto era tutto un nodo, coperto da una sorta di trapuntina rosa sporco davvero vomitevole.

Avevo dei problemi a appoggiarci il mio culo dentro ai jeans, figuriamoci pensare di dormirci dentro.

Cinque minuti prima avevo avvistato uno scarafaggio che caracollava soddisfatto e tronfio proprio davanti alla porta, come se fosse il padrone della baracca.

Insomma, la classica stanza di sotto-categoria in cui avevo lavorato tante volte, di quelle con la moquette macchiata e stinta, che viene cambiata solo quando io o uno dei miei colleghi la sporchiamo indelebilmente di sangue. E anche allora i proprietari ci pensano un bel po’.

Ammetto che lo scarafaggio mi aveva distratto, così, quando alle tre sentii bussare alla porta stavo ancora cercando ispirazione.

“Avanti,” dissi, dato che avevo lasciato aperto.

Quella fu la prima volta in cui la vidi, mentre si trascinava dietro una valigia trolley e con un grosso sacchetto di plastica nera con dentro i suoi vestiti. Mi sembrò un po’ stanca oltre che, naturalmente, bellissima.

Indossava un paio di jeans bianchi attillati, degli stivaletti neri col tacco e un maglione blu da marinaio.

Io me ne stavo seduto pacificamente sul letto, con le gambe penzoloni e l’aria vaga. Immagino che sembrassi un perfetto sfigato.

Lei mi guardò un istante, lasciò cadere il sacchetto, mollò la valigia e chiuse la porta.

Poi, senza dir niente, si sfilò il maglione e lo buttò sopra al resto della sua roba. Tranquillamente, si spogliò del tutto.

Mi aggiustai il cavallo dei pantaloni, perché la mia erezione cominciava a farmi male.

“Tu sei Pierre, giusto?” mi chiese lei, con vago accento britannico da sobborgo.

“M-mh,” non mi sbilanciai io.

“Il vecchio mi ha detto che mi ha venduta a te.” Si guardò mestamente intorno, probabilmente pensando che rispetto alle sue ultime sistemazioni era di nuovo caduta piuttosto in basso.

“Veramente mi paga lui,” corressi. Lei era sempre là, nuda davanti a me, hai capito? Devo dire, però, che – erezione a parte – stavo mantenendo un buon contegno.

Lei inarcò le sopracciglia.

“Vuoi dire che lui paga te per scopare me?” chiese, incredula. “E chi cazzo sei, Pierre?”

“Vieni un po’ qua, amore,” le dissi, senza rispondere.

Lei, rassegnata, si avvicinò, appoggiò un ginocchio a destra delle mie gambe, un ginocchio a sinistra, e mi spinse lentamente all’ingiù sulla trapunta lercia. A quel punto l’idea di appoggiarci sopra le mie chiappe nude non mi faceva più particolarmente schifo.

Liz mi sfilò i pantaloni e le mutande e prese in mano la mia erezione senza degnarla di una seconda occhiata. Non so che cosa pensasse esattamente sul mio conto, ma iniziavo a intuire che non mi aveva creduto, prima.

Sapeva di aver causato qualche problema e penso che immaginasse che io fossi qualche sfigato di basso rango a cui era stato fatto un grosso regalo a poco prezzo.

In effetti Don Giuliano mi aveva rifilato una grossa grana mal pagata, che era quasi lo stesso.

A ogni modo in quel preciso istante avevo altre cose a cui pensare. Mi attivai. Scalciai via una scarpa e finii di sfilarmi i pantaloni. Presi un preservativo dal portafogli, me lo infilai velocemente, rivoltai Liz a pancia all’aria e le entrai dentro.

Lei gemette per finta, io gemetti sul serio.

Mi aspettavo un ambiente oltremodo comodo, invece ci stavo piacevolmente stretto. Non una roba da quindicenne cinese, ben inteso, ma una fica da donna navigata media.

Non che avesse importanza. Fu tutto quello che c’era attorno a farmi venire dopo circa venti secondi. Che smacco.

Mi tirai i capelli sudati all’indietro, me la sfilai di dosso, tolsi il preservativo, annodai, sbattei in un angolo e mi tirai su calzoni e mutande in un unico gesto. Flash: l’uomo più veloce del mondo.

E a quel punto, con sotto di me, ancora nuda, calda e con le gambe aperte, quell’incredibile pezzo di figa, ebbi l’ispirazione.

Avrei fatto il gran maiale.

Ossia: mi sarei sputtanato i diecimila del Don in un biglietto aereo per due, completamente riservato, fino alle Barbados. Lì, nella mia bella casetta su minuscola isoletta deserta, mi sarei rifatto dello smacco alla mia virilità in lungo e in largo.

Dopo di che, quando avessi avuto le spalle e le palle strinate dal sole e dalla fica, l’avrei accoppata e me ne sarei tornato a NY.

E questa, se te lo stai chiedendo, è la differenza che corre tra un maiale e un gran maiale. Un maiale e basta non l’avrebbe accoppata, per il bene di tutti gli altri maiali.

Però, anche se ancora non lo sapevo, io ero solo un grandissimo imbecille.

mercoledì 2 novembre 2011

Pierrot - 3

Per le tematiche trattate, si consiglia la lettura a un pubblico adulto.

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Ora lascia che ti racconti come sono finito incastrato. C’entrava una donna, naturalmente, una donna diversa da tutte le altre, come dubitarne? Anche ora che sono incastrato su tutta la linea non posso descrivertela in altro modo.

Il suo nome era Amore. Non che sua madre e suo padre l’avessero chiamata così, ma questo era come avevano finito per chiamarla tutti gli altri.

“Amore, vieni un po’ qua,” oppure: “Fatti guardare, amore.”

Insomma, alla fine la chiamavano tutti così, tanto che alcune volte persino lei si presentava in quel modo. Se invece vuoi sapere cosa c’era scritto sulla sua patente, allora il nome che cerchi è Elisabeth-Mary.

Liz era nata meno di trent’anni prima in Inghilterra, a Newcastle, da madre irlandese e padre indiano. Come avrai già capito era semplicemente uno schianto.

Aveva i capelli neri e pesanti, lisci come se fossero bagnati e lucidi come la seta, occhi di uno strano colore tra il grigio e il blu, ma così scuri da sembrare quasi neri, sotto alcune luci. Il viso era un ovale perfetto, il naso leggermente all’insù, gli zigomi alti e la bocca piccola e sfrontata. Aveva la pelle bianca di quelli che non sono caucasici, così compatta e priva di imperfezioni da sembrare finta e da farti venir voglia di toccarla solo per sentirne la consistenza.

Le gambe erano lunghissime, le caviglie sottilissime, il sedere piccolo e sodo, i seni sembravano disegnati dalla mano di un grande artista.

Non sto esagerando: Liz era la cosa più bella che si fosse mai vista in circolazione, e lei lo sospettava.

A parte questo quello che sapevo su di lei era:

Era scappata dall’Inghilterra a quindici anni, facendo perdere le sue tracce negli States. Quando era arrivata a New York faceva già la puttana, e la faceva per la strada. Uno che lavorava per Clyde l’aveva “convinta” a passare sotto di lui. Da quel momento in poi Liz l’aveva data via per otto ore al giorno, poi, quando il tizio, folle d’amore, ne aveva fatto la sua donna, aveva iniziato a darla via sempre di meno.

Ma il tizio non era stato in grado di tenersela a lungo, perché il tizio sopra di lui le aveva messo prima gli occhi e poi le mani addosso. Così Liz aveva iniziato a darla solo a lui, finché inevitabilmente non l’aveva vista Clyde.

Come dicevo, Clyde è un bel tipo, oltre a essere pieno di soldi, quindi non ci mise molto a convincerla a scaricare il tizio precedente e a passare con lui.

Per quanto Clyde fosse incapricciato, però, non era uno di quelli capaci di tenerlo dentro ai pantaloni. Aveva sempre un mare di puttane attorno, e tutte gratis.

Al contrario del tizio precedente, inoltre, non era nemmeno geloso, sicché aveva prestato Liz a qualche amico suo, tra cui Lester.

E Lester non ha davvero paura di niente.

Un bel giorno si presenta da Clyde e gli dice: “Mi voglio comprare Liz. Quanto mi costa?”

Clyde non la prende per il verso giusto, non perché a quel punto di Liz gliene importasse qualcosa, ma perché gli sta sul cazzo l’idea che Lester volesse portargliela via.

E qui entro in ballo io.

Lester mi lascia un messaggio in cui mi chiede di fare secco Clyde. Lester è fatto così: impulsivo. Lo richiamo e gli spiego che non è possibile, a meno che Don Giuliano non gli dia il permesso.

Ma Don Giuliano non glielo dà, anche perché nel frattempo Liz se la sta scopando Romano. Lester e Clyde rimangono con un palmo di naso.

“Cazzo,” dice il primo.

“Merda,” dice il secondo.

Poi si stringono tutti e due nelle spalle.

Romano è un tipo preciso, ma suo padre lo tiene per i coglioni. E Don Giuliano è abbastanza vecchio da aver visto succedere un bel po’ di cose, ma che una bottana faccia parte della famiglia non lo vuole davvero vedere.

Così Romano butta Liz sulla strada, più o meno dove l’ha presa, e iniziano a succedere cose di tutti i tipi.

Lester parte da Harlem con la sua spider e Clyde parte dal Bronx con la sua. Santos, però, sta passando di lì col suo SUV BMW e, vedendo una povera ragazza in mezzo a una strada con un sacchetto pieno di vestiti e una valigia in mano, decide di caricarla.

Se la porta a casa e, di fatto, se la scopa anche lui.

Solo che Cora non gradisce neanche un po’.

Santos è molto innamorato di Cora, mentre di Liz non gliene frega niente. Il suo cervello analitico lo convince, quindi, a chiamare Don Giuliano e a chiedere il suo parere.

A chi deve restituire la puttana? A Clyde, a Lester o magari a Romano?

E a quel punto Don Giuliano, che ha già capito che razza di casini si profilano all’orizzonte, risponde: “Sigghioruzz’, a nessuno dei tre: spediscila a Pierrot.”