sabato 14 agosto 2010

Quello che non sai - 14

Si era svegliato tra le cazzo di lenzuola di marca. Almeno non aveva sognato. Aveva paura, di sognare. Era scivolato giù dal letto in silenzio, si era lavato in un bagno con i rubinetti di marca e si era rivestito.

Era uscito nel giardino recintato della villa. Faceva caldo. Voleva una Red Bull.

Aveva guardato la macchina di Lia, parcheggiata accanto alla sua. Be’, Salvemini avrebbe apprezzato il dettaglio. Aveva guardato ancora la macchina.

Era rientrato, aveva lasciato un biglietto e aveva preso le chiavi dal gancio.

Era partito sulla Maserati Gran Turismo, con l’aria condizionata al massimo.

In autostrada toccò i centosettanta senza neanche accorgersene. Il signor Vallambrini poteva permettersi un autovelox, probabilmente. Se poi non poteva permetterselo, poteva sempre vendere un altro pezzo di sua moglie.

Arrivò a Medesano in quaranta minuti. Erano le dieci del mattino e lì faceva ancora più caldo che a Spezia.

Parcheggiò e chiuse le portiere col controllo a distanza.

“Bella macchina,” gli disse un tipo che portava a spasso il cane.

“È che avevano finito le Aston Martin,” rispose Sensi, con un sogghigno. Si diresse verso l’indirizzo di Aldino.

Era una villetta nascosta dagli alberi, con la facciata tutta scrostata.

Il campanello emise un suono gracchiante. Un attimo dopo la porta si aprì e Sensi vide un tizio cicciotello, sui cinquant’anni, con una maglietta sformata, degli spessi occhiali e pochi capelli.

Il tizio lo guardò e fece un passo indietro.

“N-no…” mugolò, spaventato.

Sensi inarcò le sopracciglia. “Sono un amico di Dario. E non ho intenzione di farti del male.”

L’ometto indietreggiò ancora, ma non chiuse la porta. “N-non tu… è lui a farmi paura.”

“Non uscirà,” spiegò Sensi, tranquillo. “Mi serve il tuo aiuto.”

“N-non credo che…”

“Mi serve sul serio. Devo salvare una donna in difficoltà. Sei Aldino, giusto?”

L’altro annuì. Poi fece uno scatto in avanti per bloccare il gatto che cercava di uscire.

“Okay, entra,” disse, tenendo stretto l’animale.

Sensi avanzò nella penombra. C’era un salotto con delle poltrone spaiate, un camino spento, qualche cartaccia sul pavimento, delle scatole piene di libri e almeno altri quattro gatti, tutti grassi e semi-addormentati.

“Scusa per il disordine,” disse Aldino, appoggiando per terra il felino che aveva in braccio. “Sai, sono matto.”

Sensi sorrise. “Me l’hanno detto.”

“Vuoi qualcosa da mangiare?”

“Se non è friskies.”

Aldino lo guardò un secondo, poi rise, come se avesse capito solo in quel momento che era una battuta. Aveva ai piedi delle ciabatte di gomma, che strusciarono sul pavimento mentre andava in cucina. “Un kinder delice va bene?” urlò dall’altra stanza.

“Benissimo,” confermò Sensi.

“No, non vuole parlare con te,” rispose l’altro, a voce più bassa.

“Uh?” fece Sensi.

Aldino ritornò in salotto con in mano una merendina ancora incartata. “Niente,” disse, “allora, con chi vuoi parlare?”

Sensi prese la merendina, la scartò e iniziò a mangiarla a grandi morsi.

“Ti puoi sedere su quella poltrona, se vuoi. Spostati, Remo.”

Sensi si aspettava di vedere un gatto, ma sulla poltrona non c’era niente, se non qualche pelo grigiastro.

“Devo parlare con Lorenzo Cervi,” disse, cercandosi una posizione comoda. Aveva assistito a qualche seduta spiritica, e tendevano a essere faccende lunghe e noiose.

“Lorenzo Cervi,” ripeté Aldino, ondeggiando leggermente. Non diede segno di volersi sedere. “Hai qualcosa di suo?”

Sensi inclinò la testa da un lato. “Non ti agiterai, vero?”

L’altro ridacchiò. “Non posso saperlo, sono matto.”

Sensi annuì. Aveva senso. “L’ho ucciso,” disse. “Ho questo, di suo.”

“Oh, sì. Oh, sì. Lorenzo è arrabbiato, con te,” cantilenò l’altro, guardandosi attorno. “Dice: che cazzo vuoi. L’ha detto lui,” aggiunse, quasi a scusarsi.

“Lorenzo è qua?” chiese Sensi, leggermente stordito. Un gatto gli saltò in grembo e iniziò a fare le fusa. Poi tutti i gatti iniziarono a fare le fusa, contemporaneamente, e i peli delle braccia di Sensi si rizzarono.

“Dice: che cazzo vuoi.”

“Voglio che mi spieghi come sei riuscito a scomparire,” rispose Sensi, cauto.

“Ride. Dice: no-no-no-no-no. Dice: mi ricordo di te. Ride. Dice: perché dovrei. Mi sta facendo un po’ paura, capo.”

“Non preoccuparti. È una mezza sega. Dimmi come hai fatto, Lorenzo, o ti farò cercare. Non importa dove sei. Non sarai mai al sicuro.”

Aldino ondeggiò ancora un po’ sulle sue ciabatte di gomma. “Aspetta, più piano,” disse, a qualcun altro. Poi scosse la testa e aggiunse: “Non ti crede. Non vuoi trovarlo.”

“Sono giorni che faccio cose che non voglio fare,” rispose Sensi.

“Dice: me ne vado.”

“Guardami.”

Aldino guardò in un punto alla sua destra e Sensi immaginò che lo spirito di Lorenzo Cervi fosse più o meno lì. “Dimmi questa cosa e ti lascerò in pace.”

“Ride. Dice: pace. Pace. Pace. Non sai cos’è.”

“Ma so che cos’è il suo contrario. Adesso parla, prima che lo metta sulle tue tracce.”

Aldino sobbalzò. “Capo, avevi detto che non l’avresti fatto uscire.”

“Be’, forse mentivo. Dipende tutto da questa mezza sega.”

Aldino si voltò verso la sua destra. “Non ho i soldi per pagare i danni, amico. È meglio che gli dici quello che vuole.”

I gatti iniziarono a miagolare. Tutti insieme, verso il punto in cui guardava Aldino. Poi cominciarono a soffiare, con i peli dritti sul collo.

“Dice: ok. Dice: l’ultima volta. Dice: una domanda, una risposta.”

Sensi si sistemò meglio il gatto sulle ginocchia e si appoggiò allo schienale della poltrona. Come prevedeva, ci sarebbe voluto un po’.

“Quando sei scomparso, sei per caso diventato cieco?” iniziò.

1 commento:

Skiribilla ha detto...

pure io ho i peli dritti, ora.