domenica 22 agosto 2010

Quello che non sai - 21

Aveva passato la notte all’ospedale. Lia Vallambrini aveva fratture multiple alla faccia e un trauma cranico, ma non era in pericolo di vita. Aveva ripreso conoscenza verso le quattro e aveva guardato Sensi dal cumulo di bende che le copriva la testa.

“Ermanno?” aveva detto, solo che il suono che le era uscito dalla bocca fratturata assomigliava di più a “Eanno?”

“Già,” aveva risposto lui.

“I ai salato a ita,” aveva biascicato lei.

“Prima era insipida?” aveva sorriso lui. Poi le aveva raccontato del sequestro a casa Bonanni. “Probabilmente potrai usare i filmati a tuo vantaggio, durante il divorzio. Anche se, ripensandoci, credo che tuo marito non sarà più un problema.”

“Eché?”

“Durante la fuga si è procurato un trauma cranico molto più grave del tuo. Gli hanno dovuto infilare una cannuccia nel cervello o roba del genere. Credo che per un po’ non picchierà più nessuno. Credo che per un po’ avrà dei problemi ad allacciarsi le scarpe. Forse per un bel po’, magari per sempre.”

Dal cumulo di bende che era la faccia di Lia spuntarono due lacrime.

“Ti dispiace?” chiese Sensi, morbido.

Lei emise uno strano suono, un suono che somigliava a una risata. “Coenta,” spiegò.

Sensi si alzò. “Bene. Anch’io,” disse, prima di andarsene.

Il giorno dopo i giornali iniziarono a sparare titoli sull’ultimo scandalo della città, sui video compromettenti sequestrati a un noto criminale, sui nomi illustri, sulle mogli cornificate e sui divorzi prossimi venturi. Sulla Nazione, in esclusiva, uscì l’unica intervista rilasciata dall’artefice del gran casino. La maggior parte delle persone si fece l’idea che il commissario Sensi fosse un gran figlio di puttana, ma a Sensi non importava.

Non sapeva se Bonanni credesse nella spiegazione dell’intrigante poliziotto che circuisce la povera maitresse per bene, ma sperava che lo facesse. Lo sperava per lui.

E, in fondo, lo sperava anche per Tudini, che non aveva ancora perso la speranza di incastrare un Ignazio Bonanni vivo.

In quanto a Sensi, sapeva di avere dentro qualcosa di pericoloso, ma doveva ancora decidere quale fosse.

Tornò in questura il pomeriggio successivo. Salvemini aveva ripreso a ignorarlo, la Riu non aveva mai smesso di detestarlo e Tudini continuava a credere irragionevolmente in lui.

Mainardi, infine, fu quello che appoggiò sulla sua scrivania la denuncia del padre del ragazzo a cui aveva rotto il finestrino della 500.

“Quindi non demorde,” commentò Sensi, e non sembrava molto preoccupato.

“È un viscido bastardo, capo. Pensa che lavora per il fisco.”

Sensi lo guardò, inarcò le sopracciglia e lesse il nome dell’uomo.

“Roberto Lucero,” sorrise.

“Un inutile pezzo di merda,” affermò Mainardi, per sottolineare il suo sdegno.

Ma Sensi non lo stava ascoltando.

Con le lacrime agli occhi, rideva.

FINE.

sabato 21 agosto 2010

Quello che non sai - 20

Sensi si sentiva vagamente raggelato, e non era per l’aria condizionata della sua jeep. Temeva di essere in ritardo. Bonanni, di certo, non sembrava uno che perdeva tempo.

Chiamò Carmel mentre iniziavano a cadere i primi goccioloni di pioggia.

Si informò dettagliatamente sulla sua salute, poi, una volta deciso che non era la sua preoccupazione più urgente, tagliò corto e riattaccò.

La pioggia aveva l’effetto quasi magico di rendere il traffico spezzino peggiore del solito, e solitamente era già un inferno. Ragazze semi-nude, schizzavano via in motorino, rabbrividendo. Gli automobilisti si rendevano improvvisamente conto che dovevano andare da qualche parte e che lo dovevano fare subito.

In quelle condizioni, riuscì ad arrivare sul raccordo solo dopo le otto.

Fu più o meno in quel momento che il suo cellulare si mise a squillare. Il nome sul display era quello di Lia e Sensi ebbe la chiara percezione di essere più in ritardo di quel che credeva.

“Ermanno…” disse la voce ansimante di Lia, quando lui rispose “…mi uccide…”

“Sto arrivando,” rispose Sensi, ma la linea era caduta.

Sensi imprecò. Tirò fuori il lampeggiante e lo fissò sul tetto della macchina, mentre premeva a tavoletta sull’acceleratore.

Chiamò per chiedere rinforzi, ma continuava ad avere la certezza che fosse tardi. Forse troppo.

Fece la galleria per Lerici ai centotrenta. All’uscita diluviava e la strada era scivolosa. Sbandò su una curva e riprese il controllo della jeep un istante prima di schiantarsi contro il guardrail.

Accelerò ancora.

La pioggia gli rendeva la strada quasi invisibile. Attaccò la sirena, sperando che gli altri automobilisti dimenticassero per un istante che dovevano andare da qualche parte e dovevano farlo subito e si levassero di torno.

Alla rotonda per Bellavista sbandò di nuovo. La jeep andò in testacoda e rischiò di finire dentro un fosso. Raddrizzò lo sterzo e continuò, senza decelerare. Il parabrezza era praticamente oscurato dalla pioggia e i tergicristalli sembravano nuotare disperati.

Arrivò davanti alla villa di Lia slittando in frenata. Scese dalla macchina e iniziò ad arrampicarsi sul cancello. La pioggia lo zuppò immediatamente. Da qualche parte iniziò a suonare un allarme.

Corse fino alla porta scivolando sul vialetto a ogni passo. La porta era massiccia, chiusa.

Prese un sasso e lo lanciò contro una finestra. La finestra si ruppe.

L’allarme continuava a suonare.

Si infilò in casa attraverso la finestra rotta. C’era una luce che filtrava da sotto la porta della camera da letto. Sensi estrasse la pistola e corse da quella parte, con la suola degli anfibi che scivolava sul pavimento.

Aprì la porta con un calcio.

Entrò.

Lia era sul letto, riversa su un fianco, con la faccia completamente insanguinata. C’era un uomo che la stava per colpire ancora, un uomo che si era voltato sentendo il rumore della porta che si spalancava, un uomo che assomigliava a un tricheco.

“Stia fermo,” disse Sensi, puntandogli la pistola contro.

L’uomo socchiuse gli occhi. “E tu chi cazzo sei?”

“Commissario Sensi. Si allontani dal letto, signor Vallambrini.”

L’uomo si rimise in piedi e alzò le mani a metà. Sorrise in modo beffardo. “Saresti l’ultimo amante di questa puttana, giusto?”

Sensi si avvicinò di un passo. “Temo che i miei modi formali l’abbiano messa su una falsa pista,” disse e gli tirò un calcio nei coglioni più forte che poteva. Vallambrini si piegò in due, gemendo. Sensi aspettò che si rialzasse abbastanza da tirargli un altro calcio. Questa volta Vallambrini cadde per terra.

Sensi gli passò sopra e si chinò sul letto. Lia era immobile, con il volto tumefatto. Sensi le appoggiò una mano sulla spalla. “Lia?” la chiamò.

Lei mosse appena la testa.

“Ok,” annuì Sensi. “Ok, non ti muovere.”

Si voltò appena in tempo per vedere che Vallambrini si era rialzato e che stava cercando di andare da qualche parte.

Gli mollò un altro calcio nei coglioni e lui ricadde a terra, dove Sensi lo voleva.

Prese il cellulare e chiamò un’ambulanza.

Poi tornò verso il padrone di casa, che gemeva raggomitolato. Si accucciò accanto a lui.

“Sa, i miei colleghi saranno qua da un momento all’altro,” gli disse. Vallambrini gemette più forte.

“Il problema è che non sono molto bravo a resistere alle tentazioni. E un sacco di merda come te steso lì a terra è una tentazione bella grossa.”

Si rialzò e gli tirò un altro calcio, questa volta sulla faccia. Vallambrini sollevò le mani, cercando di coprirsi, ma a quel punto Sensi lo colpì più in basso, sulla pancia.

“È una bella sensazione,” sorrise. “Inizio quasi a capire mio padre.”

“P-per favore…” gemette l’altro.

Sensi saltellò un po’, sciogliendosi i muscoli delle braccia e delle gambe. “Stai zitto. Se stai zitto, può darsi che non mi incazzi,” disse, con una strana voce sognante. La sua ombra, sotto di lui, iniziò a diventare più grossa. Sensi la osservò con un ghigno soddisfatto. “Oh, sì, piace anche a lui.”

All’esterno della casa, delle sirene iniziarono a sovrastare lo scroscio della pioggia.

Sensi fece una smorfia di disappunto e tirò un altro paio di calci a Vallambrini.

Poi lo prese per un braccio e lo sollevò a viva forza dal pavimento. L’uomo continuava a gemere, ma non provava più a parlare.

Sensi lo trascinò con sé verso l’uscita.

“Quanto male che vorrei farti. Ma i buoni sono arrivati a salvarti le chiappe,” commentò, contrariato.

La polizia aveva forzato il cancello e delle volanti stavano percorrendo a bassa velocità il vialetto d’ingresso.

Vallambrini lanciò a Sensi un’occhiata di sbieco e vide che i suoi occhi erano rossi come il sangue. Cercò di divincolarsi per correre verso le macchine della polizia. Sensi lo lasciò andare.

Aspettò che fosse a qualche metro di distanza e poi saltò.

Gli uomini delle volanti che assistettero alla scena testimoniarono in perfetta buona fede che il sospettato aveva cercato di fuggire e che il commissario Sensi aveva dovuto immobilizzarlo con la forza.

Nessuno degli uomini riuscì a vedere con chiarezza l’azione, a causa della pioggia.

Sensi aveva spiccato un salto in avanti particolarmente lungo e aggraziato, piombando sopra Vallambrini come un giocatore di football sulla palla. L’aveva buttato a terra con il suo stesso peso, e Vallambrini aveva battuto violentemente la testa sul terreno.

Che il sospetto si fosse ferito gravemente era una casualità che nessuno avrebbe potuto prevedere.

venerdì 20 agosto 2010

Quello che non sai - 19

Quella sera, sotto casa sua, incontrò Bonanni. Indossava una camicia a mezze maniche e dei pantaloni beige e la sua testa calva era vagamente sudata, anche se, in quel momento, non faceva caldo.

Il cielo aveva promesso pioggia per tutta la giornata e l’aria si era leggermente rinfrescata. Da via Prione proveniva la voce triste di una soprano, che cantava arie d’opera per gli ultimi passanti serali.

Bonanni lo aspettava sotto il suo portone. “Commissario,” lo salutò, inclinando leggermente la testa.

Sensi lo osservò per un istante. “Già finito, con le scartoffie?” rispose, evitandosi la fatica di fingere di non conoscerlo.

“Se ne sta occupando il mio avvocato.”

“Magnifico,” commentò Sensi, cercando le chiavi di casa, “quindi non abbiamo altro da dirci, credo.”

Bonanni si spostò davanti al suo portone. “Ero curioso di vedere in faccia il tizio che ha organizzato questo scherzetto.”

“Ah, sì? E le piace?”

“Ha un suo non so che. Sa, credo di averla già vista. Per caso frequenta piazza Brin?”

“A volte,” rispose Sensi, in tono casuale.

“Ma certo. Lei è un tipo che non passa inosservato. Giurerei che è un cliente affezionato del BB.”

Sensi lo guardò con espressione innocente. “Mi piace l’atmosfera.”

Bonanni sorrise. “Anche a me, anche se non ci vado spesso. È un bel posticino. Ben gestito. Conosce Carmel, credo, la barista?”

“E chi non la conosce?” rispose Sensi, sempre vago.

“È una brava ragazza.”

“Falla anche cattiva,” commentò l’altro.

Risero entrambi, come se il commissario avesse detto qualcosa di divertente.

“Ma non tutte le ragazze sono brave come lei,” aggiunse Bonanni, quando ebbe finito di ridere.

Sensi fece oscillare la testa. “Alcune sono meno sveglie, più che altro. Impressione personale, è chiaro.”

“A essere poco sveglie, alcune finiscono per mettersi nei pasticci.”

“Una triste verità,” commentò Sensi, sentenzioso. “Trovare uno stronzo è dannatamente facile.” Poi si diede una pacca sulla fronte e rimise le chiavi in tasca. “È stata una conversazione interessante, ma mi sono ricordato che devo fare una cosa.”

Bonanni si spostò da un lato. “Sono certo che ci vedremo ancora.”

Sensi sorrise. “Sì, lo spero anch’io. Arrivederci e… legga il giornale, domani.”

“Lo farò senz’altro,” rispose Bonanni, alle sue spalle, mentre lui se ne andava.

giovedì 19 agosto 2010

Quello che non sai - 18

Salvemini stava tornando nel suo ufficio. Era vagamente preoccupato. Era mezzogiorno e Sensi non si era ancora fatto vedere. Non si era fatto vedere neanche il giorno prima e anche se questo non era strano, era strano che non avesse almeno telefonato per accampare scuse improbabili per la sua assenza.

Uscì dall’ascensore, ancora pensieroso, e si diresse verso l’anticamera del suo ufficio.

Sensi era lì, pallido e nerovestito come suo solito – anzi, osservandolo con attenzione, un po’ più pallido del solito.

La sua segretaria stava cercando di ignorarlo.

“Entri,” disse Salvemini, senza dimostrare nessuna preoccupazione.

Sensi lo seguì all’interno silenzioso come un’ombra.

Quando Salvemini chiuse la porta, l’altro prese un pacchetto dalla tasca posteriore dei pantaloni e glielo diede. Non disse niente, neanche “buon compleanno”.

Salvemini si sedette alla scrivania e aprì il pacchetto con il suo tagliacarte d’argento. Erano due dvd e su ognuno c’era scritto il suo nome. Salvemini non sospirò di sollievo. Non era diventato questore sospirando di sollievo come una scolaretta. I suoi baffi a forma di mosca restarono immobili accanto alla sua bocca.

Aprì lo sportello del lettore cd del suo computer e infilò il primo dvd. Eliminò l’audio. Lo fece partire.

Dopo aver osservato la ripresa per qualche secondo, estrasse il dvd e ripeté la procedura con il secondo.

Sensi era ancora in piedi davanti alla sua scrivania, più pallido e macilento del solito. Salvemini notò che aveva una mano bendata.

“Non…” disse Salvemini, cauto, “non ce ne sono altri?”

Sensi scosse la testa. “Che io sappia, no.”

“Riceverò un’altra denuncia con il suo nome sopra?”

Di nuovo, Sensi scosse la testa, ma non sorrise.

“Si accomodi.”

Sensi si lasciò cadere su una delle scomode poltroncine di design davanti alla sua scrivania.

Salvemini lo osservò per qualche instante. Sembrava terribilmente stanco.

“Pensavo che non l’avrei mai detto, ma dovrebbe andare a dormire, commissario.”

L’altro scosse di nuovo la testa. “Mi passerà.”

“Gli altri dvd sono ancora nelle mani di Bonanni, presumo.”

Ancora una scrollata negativa. “A quest’ora dovrebbero essere nelle mani della polizia, veramente,” rispose.

Salvemini inarcò le sopracciglia.

“Tudini si è fatto firmare dal gip un ordine di perquisizione. I dvd saranno depositati come prove.”

“Come prove.”

Salvemini non aveva bisogno di far notare a Sensi che lui non sapeva niente dell’intera operazione, che non l’aveva autorizzata e che non era regolare. Era sicuro che l’altro lo sapesse benissimo.

“Già. Vede, secondo la legge sulla privacy…”

“Sensi, mi sta dicendo che stiamo perseguendo Bonanni per violazione della privacy?” fece Salvemini. “Capisco che Al Capone fu arrestato per avere evaso il fisco, ma sa quali sono le sanzioni per violazione della legge sulla privacy?”

“Non ne ho idea,” ammise Sensi, stringendosi nelle spalle.

“Ma io sì. E anche il gip. È ridicolo.”

“Apparentemente il gip non la pensa come lei.”

Salvemini lo guardò fisso. “Io non credo che il gip, quando ha firmato l’ordine di perquisizione, sapesse che cosa avrebbe trovato,” disse, piuttosto lentamente.

“È questo il punto di una perquisizione. Non sai mai che cosa trovi.”

“Sensi, quei dvd…”

“Sono una prova, ormai.”

Salvemini tornò a fissarlo, con le labbra serrate.

“Alcune volte non riesco proprio a capire che cosa le frulla per la testa. Ha consegnato a un magistrato dei filmati che metteranno in grave imbarazzo delle persone influenti con l’unico scopo di fare incazzare un malavitoso.”

“Bonanni non mi interessa.”

“Oh, questo lo so. E so che non le interessano neanche quelle persone influenti. Sarei solo curioso di sapere che cos’è che le interessa.”

Sensi scosse la testa.

“Perché, vede, così a prima vista, sembra che lei abbia deciso di far incazzare un malavitoso e delle persone influenti all’unico scopo di sostenere la causa di divorzio di una…” Salvemini si interruppe, cercando la parola giusta.

“…ricca ninfomane?” concluse Sensi, al posto suo.

“Ecco, una cosa del genere è eccessiva persino per lei.”

Sensi scrollò le spalle, con un lieve sorriso auto-indulgente.

“Non ha pensato che le avrebbe semplicemente aizzato contro Bonanni?” lo incalzò il questore. “Oppure c’è anche un ordine di protezione testimoni di cui io non so niente?”

“Oh, no,” rispose Sensi, come se l’idea di fare qualcosa alle spalle dell’altro lo sgomentasse.

“Ma qualcosa ha combinato. Che cosa?”

Era una domanda diretta e il questore sapeva che Sensi gli avrebbe risposto. Quello che non sapeva era se la risposta gli sarebbe piaciuta e questo era uno dei motivi per cui cercava di non fare mai domande dirette, specialmente a Sensi.

“Ho rilasciato un’intervista,” disse l’altro.

“A chi?”

“A Grassi, della Nazione.”

“Le deve un favore?”

Sensi sorrise di nuovo. “Ora ne devo io uno a lui.”

“E chiederle qual è l’argomento dell’intervista sarebbe troppo?”

“Qualche soffiata sul caso. Uscirà domani, insieme alla notizia della perquisizione.”

“Immagino che metterà favorevolmente in luce l’operato delle forze dell’ordine.”

Sensi inclinò la testa da un lato.

“No?”

“Qualcuno potrebbe avere l’impressione che abbiamo estorto con l’inganno delle informazioni a una certa signora,” ammise Sensi.

Salvemini lo fissò. “Lei è un gran figlio di puttana,” disse.

“Di qualcuno devo essere figlio anch’io, no?” sorrise Sensi, alzandosi.

Salvemini gli lanciò un’occhiata dal basso in su.

“Si è innamorato di lei?” chiese, con una vaga espressione di disgusto.

Sensi rise e andò verso la porta.

“Oh, no, non si preoccupi,” ridacchiò, mentre usciva. “Noi 007 non lo facciamo.”

mercoledì 18 agosto 2010

Quello che non sai - 17

Forse a causa di un dosaggio imperfetto o del fatto che aveva dimenticato qualche termine mistico, la mistura funzionò solo a metà. Ne aveva bevute due sorsate abbondanti all’angolo di via Torino, dopo essersi assicurato che in giro non ci fosse nessuno.

Aveva poi recitato sottovoce un altro po’ di formule mistiche, anche queste esatte più nel senso che nella forma.

Poi era scomparso.

Be’, quasi.

La sua ombra era ancora lì, perfettamente delineata dall’illuminazione stradale. Non solo era ancora lì, ma si stava stiracchiando in modo preoccupante.

A Sensi venne in mente all’improvviso un possibile effetto collaterale della sua momentanea perdita di immagine corporea. Gli venne anche in mente che ormai era un po’ troppo tardi per porre rimedio e si affrettò a salire sul tetto della sua jeep. Si sentiva un po’ strano, come se si fosse fumato una canna, ma non sapeva se imputare la sensazione alla mistura che aveva ingerito o al fatto che la sua cena era stata solo una lattina di Red Bull. Dal suo punto d’appoggio, dalla sua testa al balconcino di Bonanni c’era circa un metro. L’altezza era un’altra cosa a cui non aveva pensato.

Raccolse tutte le sue forze (la sua ombra stava diventando pericolosamente grossa) e spiccò un salto. Mancò le sbarre della ringhiera del balcone di qualche centimetro e ricadde sul tetto della jeep con un tonfo.

Aggiunse mentalmente alla lista di effetti collaterali della sua impresa un’altra voce: carrozziere.

Saltò di nuovo e questa volta riuscì ad afferrare una sbarra. Rimase a penzoloni per qualche secondo, poi cercò di far forza sugli addominali per issarsi.

Gli addominali protestarono debolmente.

La sua ombra, che evidentemente aveva un istinto di autoconservazione più spiccato del suo, si era già avviticchiata alla ringhiera.

Sensi fece di nuovo forza sui propri addominali e, a quel punto, anche sulla propria ombra e riuscì ad arrampicarsi sul balcone. Rimase fermo ad ansimare per qualche minuto.

Tirò fuori il coltello a serramanico e forzò la persiana. Sperava che la finestra fosse aperta – in fondo faceva un caldo bestiale – ma non la era. Era chiaro che Bonanni amava il piacere piccolo borghese dell’aria condizionata.

Si ingegnò per qualche minuto attorno alla chiusura della finestra.

Vedendo che non riusciva a venirne a capo, sospirò e si piantò il coltello a serramanico nel palmo della mano sinistra. Tanto, rifletté, sapeva che si sarebbe di nuovo arrivati a quello. Quando iniziavi una carriera nel paranormale non ti dicevano mai che saresti diventato una banca del sangue. E del seme, per quel che contava. Almeno per aprire la finestra non aveva dovuto farsi una sega.

Appoggiò la mano sulla serratura, lasciò che il sangue ci gocciolasse dentro e udì lo scatto della maniglia che girava.

Entrò nella casa. La prima stanza era pericolosamente buia. La sua ombra si disperse immediatamente, correndo chissà dove, a fare chissà cosa. Sensi tentò di richiamarla, ma scoprì di avere su di lei una presa piuttosto fiacca. La lasciò zampettare in giro; tanto, alla fine, sarebbe tornata.

Si spostò cautamente verso la camera da letto, rabbrividendo per l’aria condizionata. La porta era socchiusa, così Sensi le diede una spintarella ed entrò. Nella camera da letto, fortunatamente, filtrava un po’ della luce dei lampioni stradali. Sensi ritrovò la sua ombra, che copriva la faccia di Bonanni come una maschera assassina. Ogni tanto, pensò, riusciva persino a rendersi utile. In quanto a Bonanni, dormiva nel suo letto, da solo, del tutto ignaro.

Sensi si spostò lungo i muri. Sollevò un quadro, aprì l’armadio, guardò sotto il letto. Alla fine individuò la cassaforte sotto un altro quadro.

Si riaprì la ferita sulla mano e la appoggiò sulla serratura.

Non era una serratura semplice come quella della finestra. Sensi ne sentì ogni ingranaggio, cercando di capire come funzionava. Obbiettivamente, avrebbe finito per dissanguarsi.

Lanciò un’occhiata veloce alla sua ombra, che continuava a divertirsi a fare il face-hugger, e provò a concentrarsi. La cassaforte si aprì.

Non riusciva a vedere all’interno, così andò a tastoni. Poi si pose il problema delle impronte digitali. Un corpo invisibile lasciava impronte digitali invisibili? Considerando che il suo sangue era già gocciolato ovunque, non gli sembrò un interrogativo così degno di nota.

Prese un pacco di dvd e li portò vicino alla finestra. Vedere dei dvd che fluttuavano nell’aria faceva una certa impressione. Su ognuno c’era una scritta a pennarello, i nomi della lista di Lia. Ne prese uno e se l’infilò in tasca, poi rimise gli altri nella cassaforte e la richiuse.

Andò ad aprire il cassetto del comodino, ma dentro c’era solo una pistola. La scaricò e si infilò i proiettili in tasca, soltanto per dispetto.

Aprì l’altro comodino. Qua c’erano dei dvd, ognuno con un’etichetta. Quello che cercava era proprio in cima. Lo prese.

A quel punto la sua missione notturna poteva dirsi finita.

Osservò la sua ombra che cercava di soffocare Bonanni nel sonno e meditò brevemente di lasciarle terminare il lavoro. Decise che non era il suo tipo di cosa.

Si sentiva debole, intontito e vagamente nauseato.

Aveva sanguinato parecchio. Stava per perdere il controllo della sua ombra. Era il momento di andarsene.

Con la mano ferita prese la propria ombra per le gambe e tirò. Non sembrava intenzionata a staccarsi dal suo pasto. Tirò più forte e sentì una specie di strappo.

Si era strappata l’ombra o il suo corpo? Non era sicuro.

Barcollò fino alla porta d’ingresso e uscì nelle scale. Aveva delle difficoltà a stare in piedi, forse per la schifezza che aveva bevuto, forse per la perdita di sangue o forse perché era stato diviso dalla sua ombra troppo a lungo. Quasi rotolò giù dai gradini un paio di volte.

Di nuovo in strada, provò a ricordarsi l’ultima formula arcana della giornata.

La recitò sottovoce.

Scomparire era stato pressappoco indolore, ma ricomparire non lo fu.

Per prima cosa vide che ai suoi piedi si era formata una pozzanghera di sangue. Poi sentì un forte dolore alla gamba destra, come se qualcuno gli avesse slogato una caviglia. Infine gli sembrò che il suo corpo fosse insopportabilmente pesante.

Guardò verso l’alto, preoccupato, ma la finestra semi-aperta dell’appartamento di Bonanni era pulita.

Prese una bottiglia d’acqua dal bagagliaio e la versò sopra alla pozza di sangue ai suoi piedi, facendola scorrere via nella cunetta.

Si appoggiò alla sua jeep per non cadere.

Le orecchie gli ronzavano, la testa gli girava forte.

Riuscì ad arrivare al posto di guida, strinse il volante più forte che poteva e partì.

martedì 17 agosto 2010

Quello che non sai - 16

Sensi la definiva stregoneria da supermercato. Quando potevi procurarti la maggior parte degli ingredienti all’Esselunga e ti bastava conoscere le parole giuste.

In un certo senso, era un po’ come cucinare. La buona notizia era che non ti servivano strani oggetti o strani posti, la cattiva era che lui era sempre stato un pessimo cuoco.

Così come tutte le volte che aveva provato a fare un risotto gli era venuto fuori senza sale o mezzo bruciacchiato, tutte le volte che si era cimentato in una stregoneria da supermercato qualcosa era andato storto.

Osservò l’assortimento di generi alimentari sul bancone della sua cucina e si maledisse per non essersi portato un taccuino, a Medesano.

Si riallacciò i pantaloni e appoggiò in un angolo il bicchierino da grog pieno a metà di sperma. Sperma e sangue erano due ingredienti ricorrenti, nelle stregonerie da supermercato. Si chiedeva perché all’Esselunga non avessero ancora creato un reparto apposta.

Buttò giù un po’ di Red Bull, visto che la produzione di sperma gli aveva causato una certa sonnolenza.

Accese un fornello e iniziò a mescolare il contenuto puzzolente della sua unica pentola col fondo d’acciaio. Ovviamente nemmeno la lavastoviglie sarebbe riuscita a eliminare i resti, avrebbe dovuto buttare via tutto, pentola compresa.

La definizione “a fuoco lento” l’aveva sempre lasciato un po’ perplesso. Che cosa voleva dire “fuoco lento”? Il fuoco non si muoveva, restava solo lì, attaccato al fornello.

Mescolò un altro po’.

Doveva aggiungere del sale grosso. Sale marino. Ne buttò una cucchiaiata nella pentola, consapevole del fatto che il sapore della zuppetta non ne avrebbe tratto alcun giovamento.

Mescolò ancora.

Fece partire il microonde. Latte di capra caldo, diceva la ricetta. O era latte di capra appena munto? Come se uno potesse andare all’Esselunga e comprarsi una capra viva e con le mammelle piene. Tirò fuori il latte di capra dal microonde e lo versò nella mistura. L’odore continuò a essere raccapricciante.

Uno alla volta, buttò nella pentola anche gli altri ingredienti. Mescolò, osservò la poltiglia giallastra che bolliva piano piano e aggiunse anche il succo del suo corpo, come i veri occultisti amavano definire il prodotto di due o tre seghe.

Osservò ancora la schifezza che bolliva in pentola. Sperava solo che l’odore non si propagasse troppo, altrimenti la signora Vettori sarebbe venuta sicuramente a lamentarsi.

Tirò fuori il coltello a serramanico e si fece un taglio su un dito della mano sinistra. Si arrivava sempre a quello, pensò, vagamente infastidito. Il suo sangue gocciolò lentamente nella pentola maleodorante.

Recitò la formula arcana meglio che poteva, cercando di compensare le eventuali dimenticanze con un tono ispirato e mistico.

Concluse con un “Funziona o mi incazzo,” che a suo parere dava sempre degli ottimi risultati. Tranne che tutte le volte precedenti, ovvio.

Alla fine spense il fuoco e coprì la pentola. Quello nella ricetta non c’era, ma se doveva aspettare che la pappetta si raffreddasse era meglio che lo facesse senza impestare ulteriormente l’ambiente.

Accese lo stereo e si sedette sul divano, aspettando.

lunedì 16 agosto 2010

Quello che non sai - 15

Lorenzo Cervi se n’era andato e anche Sensi non vedeva motivo di restare. Erano passate quasi due ore ed era stanco. Stanco, nauseato e preoccupato. Il gatto lo aveva riempito di peli.

Si alzò in piedi.

“Vorrei pagarti,” disse ad Aldino, tirando fuori il portafogli.

Aldino annuì, entusiasta. Non sembrava stanco, anche se era rimasto in piedi per tutto il tempo, dondolando sulle sue ciabatte di gomma. “Cinquanta sacchi. È un prezzo equo, no? Anche quaranta sono ok.”

Sensi tirò fuori una banconota da cento. “Non sei molto bravo a contrattare.” Appoggiò la banconota sulla poltrona.

Aldino si affrettò a intascarla. “Non ho il resto,” disse, velocemente. “I gatti mangiano molto.”

Sensi tirò fuori un’altra banconota da cento. “Per i gatti,” disse.

Poi iniziò ad andare verso la porta, cercando di spolverarsi i pantaloni.

“Posso usarlo, eh, capo?” gli trotterellò dietro Aldino. “Vado in banca e BAM! Eh? Posso?”

Sensi smise di spolverarsi e lo osservò in silenzio per qualche istante. “Meglio di no, amico. Potresti farti male.”

Aldino sembrò deluso. “Oh,” disse. Poi si voltò di scatto alla sua sinistra. “C’è una ragazza, capo.”

Anche Sensi si voltò, come se si aspettasse di vedere qualcosa. Ma ovviamente non c’era niente. Solo la stanza disordinata e sporca di Aldino e i gatti che ronfavano piano.

“Una ragazza?” chiese, con aria incerta.

“Bella figliola, capelli neri. Roba vecchia. Scusa, amica. Deceduta da un po’,” si corresse, con un certo sussiego.

Sensi deglutì.

“Ti guarda strano,” disse Aldino.

Sensi aprì la bocca. La richiuse. Deglutì ancora. “Nadia?” sussurrò, facendo un mezzo passo indietro.

“Dice: ti amavo,” riportò Aldino, solerte.

La mascella di Sensi ebbe un lieve tremito.

Deglutì ancora una volta, ma non aveva più saliva.

“Dille…” iniziò “…dille che anch’io…”

“Se n’è andata. Non era sicura,” interruppe Aldino. “A volte lo fanno. Solo qualche istante. Una volta c’era un tizio. Lo trovavo sempre sulla tazza del bagno. E poi, puff. Ha continuato per un bel pezzo. Ho comprato anche il viacal, hai visto mai. Aveva un odore tremendo. Il viacal, dico.”

Sensi cercò di sorridere.

“Ah, sì,” balbettò, “molto meglio tenersi il calcare.”

Poi prese la porta e schizzò fuori come se avesse il diavolo alle calcagna.

sabato 14 agosto 2010

Quello che non sai - 14

Si era svegliato tra le cazzo di lenzuola di marca. Almeno non aveva sognato. Aveva paura, di sognare. Era scivolato giù dal letto in silenzio, si era lavato in un bagno con i rubinetti di marca e si era rivestito.

Era uscito nel giardino recintato della villa. Faceva caldo. Voleva una Red Bull.

Aveva guardato la macchina di Lia, parcheggiata accanto alla sua. Be’, Salvemini avrebbe apprezzato il dettaglio. Aveva guardato ancora la macchina.

Era rientrato, aveva lasciato un biglietto e aveva preso le chiavi dal gancio.

Era partito sulla Maserati Gran Turismo, con l’aria condizionata al massimo.

In autostrada toccò i centosettanta senza neanche accorgersene. Il signor Vallambrini poteva permettersi un autovelox, probabilmente. Se poi non poteva permetterselo, poteva sempre vendere un altro pezzo di sua moglie.

Arrivò a Medesano in quaranta minuti. Erano le dieci del mattino e lì faceva ancora più caldo che a Spezia.

Parcheggiò e chiuse le portiere col controllo a distanza.

“Bella macchina,” gli disse un tipo che portava a spasso il cane.

“È che avevano finito le Aston Martin,” rispose Sensi, con un sogghigno. Si diresse verso l’indirizzo di Aldino.

Era una villetta nascosta dagli alberi, con la facciata tutta scrostata.

Il campanello emise un suono gracchiante. Un attimo dopo la porta si aprì e Sensi vide un tizio cicciotello, sui cinquant’anni, con una maglietta sformata, degli spessi occhiali e pochi capelli.

Il tizio lo guardò e fece un passo indietro.

“N-no…” mugolò, spaventato.

Sensi inarcò le sopracciglia. “Sono un amico di Dario. E non ho intenzione di farti del male.”

L’ometto indietreggiò ancora, ma non chiuse la porta. “N-non tu… è lui a farmi paura.”

“Non uscirà,” spiegò Sensi, tranquillo. “Mi serve il tuo aiuto.”

“N-non credo che…”

“Mi serve sul serio. Devo salvare una donna in difficoltà. Sei Aldino, giusto?”

L’altro annuì. Poi fece uno scatto in avanti per bloccare il gatto che cercava di uscire.

“Okay, entra,” disse, tenendo stretto l’animale.

Sensi avanzò nella penombra. C’era un salotto con delle poltrone spaiate, un camino spento, qualche cartaccia sul pavimento, delle scatole piene di libri e almeno altri quattro gatti, tutti grassi e semi-addormentati.

“Scusa per il disordine,” disse Aldino, appoggiando per terra il felino che aveva in braccio. “Sai, sono matto.”

Sensi sorrise. “Me l’hanno detto.”

“Vuoi qualcosa da mangiare?”

“Se non è friskies.”

Aldino lo guardò un secondo, poi rise, come se avesse capito solo in quel momento che era una battuta. Aveva ai piedi delle ciabatte di gomma, che strusciarono sul pavimento mentre andava in cucina. “Un kinder delice va bene?” urlò dall’altra stanza.

“Benissimo,” confermò Sensi.

“No, non vuole parlare con te,” rispose l’altro, a voce più bassa.

“Uh?” fece Sensi.

Aldino ritornò in salotto con in mano una merendina ancora incartata. “Niente,” disse, “allora, con chi vuoi parlare?”

Sensi prese la merendina, la scartò e iniziò a mangiarla a grandi morsi.

“Ti puoi sedere su quella poltrona, se vuoi. Spostati, Remo.”

Sensi si aspettava di vedere un gatto, ma sulla poltrona non c’era niente, se non qualche pelo grigiastro.

“Devo parlare con Lorenzo Cervi,” disse, cercandosi una posizione comoda. Aveva assistito a qualche seduta spiritica, e tendevano a essere faccende lunghe e noiose.

“Lorenzo Cervi,” ripeté Aldino, ondeggiando leggermente. Non diede segno di volersi sedere. “Hai qualcosa di suo?”

Sensi inclinò la testa da un lato. “Non ti agiterai, vero?”

L’altro ridacchiò. “Non posso saperlo, sono matto.”

Sensi annuì. Aveva senso. “L’ho ucciso,” disse. “Ho questo, di suo.”

“Oh, sì. Oh, sì. Lorenzo è arrabbiato, con te,” cantilenò l’altro, guardandosi attorno. “Dice: che cazzo vuoi. L’ha detto lui,” aggiunse, quasi a scusarsi.

“Lorenzo è qua?” chiese Sensi, leggermente stordito. Un gatto gli saltò in grembo e iniziò a fare le fusa. Poi tutti i gatti iniziarono a fare le fusa, contemporaneamente, e i peli delle braccia di Sensi si rizzarono.

“Dice: che cazzo vuoi.”

“Voglio che mi spieghi come sei riuscito a scomparire,” rispose Sensi, cauto.

“Ride. Dice: no-no-no-no-no. Dice: mi ricordo di te. Ride. Dice: perché dovrei. Mi sta facendo un po’ paura, capo.”

“Non preoccuparti. È una mezza sega. Dimmi come hai fatto, Lorenzo, o ti farò cercare. Non importa dove sei. Non sarai mai al sicuro.”

Aldino ondeggiò ancora un po’ sulle sue ciabatte di gomma. “Aspetta, più piano,” disse, a qualcun altro. Poi scosse la testa e aggiunse: “Non ti crede. Non vuoi trovarlo.”

“Sono giorni che faccio cose che non voglio fare,” rispose Sensi.

“Dice: me ne vado.”

“Guardami.”

Aldino guardò in un punto alla sua destra e Sensi immaginò che lo spirito di Lorenzo Cervi fosse più o meno lì. “Dimmi questa cosa e ti lascerò in pace.”

“Ride. Dice: pace. Pace. Pace. Non sai cos’è.”

“Ma so che cos’è il suo contrario. Adesso parla, prima che lo metta sulle tue tracce.”

Aldino sobbalzò. “Capo, avevi detto che non l’avresti fatto uscire.”

“Be’, forse mentivo. Dipende tutto da questa mezza sega.”

Aldino si voltò verso la sua destra. “Non ho i soldi per pagare i danni, amico. È meglio che gli dici quello che vuole.”

I gatti iniziarono a miagolare. Tutti insieme, verso il punto in cui guardava Aldino. Poi cominciarono a soffiare, con i peli dritti sul collo.

“Dice: ok. Dice: l’ultima volta. Dice: una domanda, una risposta.”

Sensi si sistemò meglio il gatto sulle ginocchia e si appoggiò allo schienale della poltrona. Come prevedeva, ci sarebbe voluto un po’.

“Quando sei scomparso, sei per caso diventato cieco?” iniziò.

venerdì 13 agosto 2010

Quello che non sai - 13

Lenzuola di marca. Lingerie raffinata. Sesso appassionato. Sensi si rivoltò sulla pancia e pensò che, in fondo, la vita avrebbe potuto andargli peggio. Peccato solo che non ci credesse neanche lui.

Le lenzuola gli sembravano ridicole. La lingerie non gli interessava. Il sesso era disperato, non appassionato.

“Ti regalerò un paio di lenzuola dell’ipercoop,” borbottò, cercando il cuscino sul pavimento.

“Non capisco perché le detesti così tanto,” rispose lei. Aspettò che lui si sistemasse meglio e iniziò ad accarezzargli i capelli. “Sei sposato?” chiese, di punto in bianco.

“Starai scherzando.”

“Conosco un sacco di uomini che non portano la fede.”

Lui sorrise. “Che non la portano in tua presenza, vuoi dire.”

“No, intendevo… che non la portano e basta. Ne conosco anche un bel po’ che la portano. Non è un cerchietto d’oro che fa la differenza. Volevo soltanto sapere se eri sposato, tutto qua.”

“Non sono sposato.”

“Ma hai una compagna,” insistette lei.

“No,” disse Sensi.

“Libero come l’aria. Mi piace. Cioè… chissà com’è.”

Lui si voltò dal suo lato. “Non ho detto che sono libero come l’aria.”

“Quindi c’è una donna.”

“Dove c’è un problema c’è sempre una donna,” rispose lui. Poi si corresse: “Oppure un uomo.”

“Hai capito,” non lo lasciò svicolare, lei.

“Anche tu,” sorrise lui.

Lei si alzò a sedere e si accese una sigaretta. “Voglio lasciare mio marito,” disse, sbuffando un po’ di fumo.

“Sì?”

Lei aspirò di nuovo. “So che non ti interessa, ma è una persona schifosa.”

“Non ho mai detto che non mi interessa.”

“Be’, è una persona schifosa. Ti sembrerà contorto, ma se io fossi un uomo non vorrei che mia moglie si sbattesse tutti quelli che passano per farci sopra dei soldi.”

“Ci hai fatto dei soldi sopra anche tu.”

Lei diede un altro tiro. “Non quanti lui. E poi non è giusto. È sempre stato lui a decidere chi dovevo scopare.”

“Tranne Roberto Lucero.”

“Be’, non solo. Ci ho provato qualche altra volta, ma poi lui si arrabbiava e mi picchiava. Oppure mi costringeva ad andare a letto con lui. Questa è un’altra cosa che non ti interessa, immagino.”

“Immagini male,” disse Sensi.

Si alzò a sedere a sua volta. “Solo che, vedi, mi fa incazzare. Irragionevolmente. E non vuoi vedermi incazzato, te l’assicuro.”

“Incazzato con me?” chiese lei.

Sensi scosse la testa.

“Allora incazzato con lui.”

“Odio le violenze domestiche, di qualunque tipo siano.”

Lia si sporse verso di lui. “Non l’ho mai vista in quest’ottica. Mi è sempre sembrato il pedaggio per vivere in questa casa, per avere una bella macchina e dei bei vestiti. Quando l’ho sposato sapevo che non era l’uomo che volevo. Sapevo che aveva qualcosa di cattivo. Ed è sempre stato bruttissimo.”

Sensi la prese e se la tirò sopra, sperando che smettesse di parlare, ma lei non lo fece.

Invece continuò, in un sussurro veloce, con le labbra nei suoi capelli: “Per i primi due anni l’ho sopportato. Poi ho conosciuto un tizio. È diventato il mio amante. Lui l’ha scoperto. È stata la prima volta in cui mi ha picchiata. Ho pensato che avesse ragione.”

“Non aveva ragione,” mormorò Sensi, limitandosi a tenerla sopra di sé.

“Dopo un po’ ha comprato l’attrezzatura video. Non quella che hai visto tu. Dell’altra, più vecchia. Una sera ha portato qua un suo amico e ha iniziato a raccontargli che ero una puttana. Che mi piaceva andare a letto con tutti. Ero andata a letto solo con un altro. Comunque gli ha detto che mi piaceva scoparmi chiunque, gli ha fatto capire che poteva farlo anche lui. E così è successo. Mio marito riprendeva, di nascosto.”

Sensi la baciò, sperando che tacesse, ma lei scostò le labbra e continuò a parlare.

“Poi capitò di nuovo. Altre volte. Poi mi disse che potevo fare da sola. Intanto ero rimasta incinta. Disse che dovevo abortire, perché la gravidanza mi avrebbe sciupato la linea, il parto mi avrebbe sciupato la figa. Così ho abortito.”

“Basta, per favore,” mormorò Sensi.

“Non l’avevo mai detto a nessuno,” rispose lei. Rimase sopra di lui, respirando vicino al suo orecchio. “Scusa,” aggiunse, dopo un po’. E poi: “Che cosa fai, piangi?”

“In questo periodo è un continuo.”

“Non ho mai visto un uomo che piange.”

“È perché non mi conosci da molto tempo,” sorrise lui.

“Perché piangi?”

Sensi scosse la testa.

“Non me lo vuoi dire?”

Lui la baciò ancora.

“Mi baci per non dirmelo,” disse lei.

“Già.”

“Ma io voglio saperlo. Se non me lo dici penserò che ti faccio solamente pena.”

“Mi fai pena,” mormorò lui.

“Non voglio.”

“Non posso scegliere. La prima volta che ti ho vista ho pensato che assomigliavi a mia madre. Neanche quello potevo sceglierlo.”

Lei sorrise appena. “E tua madre mi assomiglia?”

Sorrise anche lui. “No.” Ci ripensò. “Sì, solo che non ti assomiglia esteticamente.”

“Dev’essere bella, tua madre. Tu sei bello.”

Lui rise, poi tornò serio. “Non lo so. Non so se mia madre sia mai stata bella. Forse sì. Quando ero piccolo non la era già più. Quello bello era mia padre, così diceva lei.”

“Non sei d’accordo, mi pare.”

“Volevo ucciderlo. Per tutto quello che faceva passare a lei. Mia madre è alta un metro e quaranta. Quante botte puoi dare a una donna alta un metro e quaranta?”

Lia gli scostò i capelli dalla faccia. Sensi guardava il soffitto e aveva smesso di piangere.

“E l’hai ucciso? Sembri il tipo da farlo.”

Lui scosse la testa. “No, è scomparso molto prima che ne avessi la forza. Spero che sia morto per conto suo. No, spero che sia un vecchio invalido e che nessuno si prenda cura di lui. Spero che muoia solo come un cane, nel suo stesso piscio. Ecco che cosa spero. Come vedi, neanch’io sono una bella persona.”

“Sì, invece,” affermò lei.

Lui rise.

“Allora diciamo che sono un tipo.”

giovedì 12 agosto 2010

Quello che non sai - 12

Era stato di pessimo umore tutto il giorno. Il papà del ragazzino a cui aveva rotto il vetro della macchina l’aveva denunciato e, per di più, il video in cui prendeva un pugno era finito su internet. Aveva smesso di contare i colleghi che lo salutavano con una finta alla faccia.

Aveva smesso di preoccuparsi dell’alone giallastro che aveva ancora sotto l’occhio.

Aveva passato l’intera giornata a evitare Salvemini e a cercare di non pensare a quella sera. Almeno a evitare Salvemini ci era riuscito, anche se l’aveva avvistato un paio di volte e aveva un’aria più nera della sua. Tudini sembrava incazzato e questa era un’altra cosa alla quale Sensi aveva cercato di non pensare.

Poi era arrivata la sera e si era ritrovato a incrociare nel parcheggio dell’Unieuro mangiando i pop-corn che aveva comprato al multisala lì vicino. Un sacco di pop-corn, che in seguito aveva vomitato dietro un cespuglio.

Poi aveva bevuto della pepsi.

Poi aveva camminato ancora, avanti e indietro, avanti e indietro.

Poi era andato nel bagno del multisala a pisciare, dopo aver scoperto che per entrare doveva comprare il biglietto di uno spettacolo.

Poi era uscito di nuovo nel parcheggio e aveva ricominciato a camminare avanti e indietro, avanti e indietro.

Stava quasi per andarsi a comprare un pacchetto di sigarette che non avrebbe fumato, quando finalmente arrivò la macchina che aspettava. Era una Maserati Gran Turismo color fumo e non passava propriamente inosservata. Si fermò accanto alla sua jeep come una balena spiaggiata.

Lia scese un istante dopo, con addosso un completo-pantalone di lino bianco che la faceva sembrare una missionaria. Rossetto color corallo, occhi dalle lunghe ciglia contornate di nero.

“Me l’ha dato!” rise, allegra come una bambina, mostrandogli un dvd dalla custodia rigida.

Sensi la osservò in silenzio.

“Ehy, ti ho detto che…”

“Stai bene?”

Lei rise, una risata da bambina. “Non è stato per niente difficile. Aveva già capito che questo filmato non gli serviva a niente. È stato molto… educato.”

Sensi annuì.

“Raccontami che cos’è successo,” disse.

“Qua? In questo squallido parcheggio?”

“Abbi pietà.”

Lei sorrise e gli si avvicinò di un passo. “Oookay, amore, ma più tardi…”

“Non baciarmi,” disse lui, facendo un passo indietro. “C’è gente.”

Sulla fronte di Lia si formò una piccola ruga verticale. “Che cosa c’è? Adesso hai paura che ti scopra la tua ganza? Mi ero fatta un’idea diversa di te.”

Sensi scosse la testa. “La ganza non c’entra niente. Raccontami che cosa è successo.”

Lei sbuffò. “Sei una tale palla quando diventi tutto ligio. Va be’.” Si avvicinò di nuovo, ma questa volta non cercò di baciarlo, si limitò ad abbassare leggermente il tono della voce. “Dunque, sono andata in via Torino, ho citofonato…”

“La versione breve,” la interruppe Sensi.

“Mi ha fatto entrare in casa…”

“Com’è fatta?”

“La casa?”

“Mh.”

Lei ci pensò un attimo. “Ho visto solo il soggiorno, ma c’erano altre quattro o cinque porte. Il soggiorno non era niente di speciale. Mobili del Mercatone, roba così. Una grossa tv, dozzinale.”

“Ok.”

“Gli ho detto del dvd e lui mi ha chiesto perché lo rivolessi. Ho fatto la sentimentale, mi riesce bene.”

Sensi sorrise. “Questo è vero.”

“Alla fine ha detto che me l’avrebbe ridato. È andato a prenderlo nella seconda stanza a destra. Non ho visto bene, ma credo che fosse la camera da letto.”

“Ok.”

“Poi gli ho chiesto se ce n’erano delle altre copie, e lui ha risposto di sì. Gli ho chiesto se potevo avere anche le altre e lui ha fatto per tornare nella stanza di prima, ma poi ha cambiato idea. Ha detto che gli avrebbe fatto piacere tenerne una, per uso personale. Ha detto proprio così: uso personale. Allora ho sorriso e gli ho detto che poteva. Mi ha salutato gentilmente.”

“È tutto?” chiese Sensi.

“Pensi che ci sia andata a letto?” replicò lei, leggermente innervosita.

“Te lo sto chiedendo.”

“Perché avrei dovuto farlo?”

Sensi si limitò a inclinare la testa da un lato.

“Sei proprio stronzo.”

“Al massimo, curioso. Ma, no, non sono curioso. Semplicemente, mi serve saperlo.”

Lei guardò verso il cielo, sbuffando. “No, non ci sono andata a letto. Non vado a letto proprio con tutti, va bene?”

“Ok,” si limitò a ripetere, lui.

“Lo sai che sei incredibile? Non vuoi che ti baci in pubblico, ma poi ti arrabbi se pensi che sia andata a letto con un altro.”

Sensi rise. “No, credo che tu non abbia capito.”

“Ah, quindi non sono solo una puttana, sono anche scema,” replicò lei, gelida.

“Ecco, non penso nessuna delle due cose.”

“E che cosa, pensi, allora?”

Lui sorrise. “Ho due biglietti per un filmaccio d’azione.” Li tirò fuori dalla tasca e glieli mostrò.

“Mi vuoi portare al cinema?” fece lei, incredula.

“Se ti va.”

“Ma non ti posso baciare.”

Lui fece segno di no con la testa.

“Quindi perché non possiamo andare a casa mia e fare l’amore?”

Sensi sbloccò le portiere della sua jeep. “Non ho mai detto che non possiamo.”

mercoledì 11 agosto 2010

Quello che non sai - 11

Quella sera fece una telefonata. Era una telefonata che non voleva fare e si chiese silenziosamente perché, nell’ultimo periodo, si era trovato a fare così tante cose che non voleva fare.

Per Salvemini, poi.

Il telefono suonò a vuoto per qualche secondo, poi una voce maschile rispose: “Sì?”

Sensi si lasciò cadere sul suo divano rosso. “Dario?” chiese.

“Sì, chi…?”

“Ermanno.”

Ci fu un silenzio.

“Ermanno? Quell’Ermanno?”

“Già,” rispose Sensi. “La tua voce non è cambiata.”

L’altro rise. “Neanche la tua. Da quanto… porca merda, saranno dieci anni.”

“Già.”

“Ho ricevuto i tuoi libri.”

Ci fu un altro silenzio.

“Avrei voluto fare di più,” finì col dire, Sensi.

“Non potevi fare niente. Non potevi, giusto?”

“No,” ammise Sensi.

“Sono felice di risentirti. Ho sentito dire che hai ammazzato uno del vecchio giro.”

Sensi chiuse gli occhi. “Ho dovuto.”

“Lorenzo era un pazzo.”

“Già.”

“Ermanno, come stai? Hai una voce strana.”

Lui sorrise. “Sto piangendo. È per questo che ho una voce strana.”

“E perché piangi?” chiese Dario, con quel suo lieve accento torinese che lo faceva sembrare sempre più gentile di quanto fosse davvero.

“Non so. Forse perché sono contento di risentirti. Forse perché sono preoccupato. Forse così, senza motivo. C’è una cosa che ti devo chiedere.”

Dario rimase in silenzio.

“Forse mi servirà uno spiritista. Uno vero.”

L’altro rise. “Niente meno. Be’, fammi pensare…” Passò un altro po’ di tempo. “C’è una tizia, a Siracusa…”

“Un po’ più vicino?”

“Allora Aldino, a Medesano.”

“Sarebbe?”

“Vicino a Parma.”

“Aldino,” ripeté Sensi. “Non lo conosco, giusto?”

Dario rise. “Non lo conosci. È un mezzo matto, anzi, un matto tutto intero. Uno da salute mentale.”

“Ma è uno spiritista.”

“Diciamo che coi morti ci parla come se fossero nella stanza. Non vorrai chiamare Nadia, vero?”

Sensi scosse la testa. Poi, visto che l’altro non poteva vederlo, disse, con voce strozzata: “No.”

“Davvero?”

Sensi sorrise. “Sì, davvero. Sai, le parlo anche troppo.”

“Ancora?”

Sensi sorrise di nuovo. “A volte. Grazie, Dario.”

“Oh.oh. Ho toccato un argomento proibito, vero?” rise l’altro.

“È la tua specialità.”

“Mi richiamerai?”

“Se posso, no.”

“Che la tua volontà sia sempre rispettata, signore delle ombre,” rise Dario. Poi tornò serio. “No, ci sentiremo ancora, forse ci rivedremo, ma non adesso. Ti do l’indirizzo di Aldino.”

“Grazie,” disse Sensi e si alzò per prendere una penna.

Dario gli diede l’indirizzo.

“Addio,” lo salutò. “Non metterti nei casini.”

“Già fatto,” rispose Sensi e chiuse la chiamata.

Poi si appallottolò sul divano e restò lì per un po’. A parlare con Nadia. A chiederle scusa ancora una volta.

martedì 10 agosto 2010

Quello che non sai - 10

Sensi era triste e nervoso, più triste e nervoso del solito. Non si voleva occupare di quel caso, il che era abbastanza normale. Non gli era mai successo di volersi occupare di un caso. Ma questa volta non se ne voleva occupare in modo più pronunciato. In effetti, avrebbe preferito accollarsi due casi di omicidio, piuttosto che occuparsi di quella faccenda.

Per quale motivo, poi? Perché gliel’aveva chiesto Salvemini.

Aveva lasciato la questura subito dopo la chiacchierata con Tudini, verso mezzogiorno, e si era diretto verso Bellavista con l’aria condizionata al massimo.

Non voleva rivedere Lia, eppure si preparava a farlo. C’era qualcosa di triste e di tragico, in lei, qualcosa che a Sensi non piaceva. Per qualche motivo incomprensibile, gli ricordava sua madre.

Be’, non gliela ricordava abbastanza da non poter andare a letto con lei, comunque, per cui avrebbe fatto anche questo, anche se era un’altra cosa a cui non teneva molto.

Ma la cosa che voleva fare meno di tutte, e che avrebbe fatto lo stesso, era chiederle di esporsi ulteriormente.

Scacciò il pensiero, schivò il motorino che cercava di farsi investire e infilò nello stereo un cd dei Bauhaus. Tanto, più giù di così non poteva sentirsi.

Dopo l’immancabile controllo al video-citofono, Lia lo accolse in un’inedita mise indianeggiante.

“Fossi in te, aggiungerei anche un turban…” iniziò a dire, scendendo dalla jeep. Lia gli tappò la bocca baciandolo come se fossero stati sbalzati improvvisamente dentro Via col vento.

“Mi sei mancato,” gli sussurrò, allontanandosi giusto di qualche millimetro.

Sensi, a disagio, chiuse a chiave la jeep senza che ce ne fosse bisogno. Non era molto probabile che qualcuno venisse a rubargliela nel giardino della villa. Non con una Maserati parcheggiata lì accanto, comunque.

Poi Lia lo trascinò all’interno, verso la frescura della camera da letto.

“Sarei venuto per…” riprovò a dire qualcosa, Sensi, ma fu di nuovo bloccato da un bacio passionale.

“Non che io abbia qualcosa contro l’essere un uomo oggetto, ma…”

Lia lo spinse sul letto e iniziò a slacciargli i pantaloni. “Zitto,” disse.

Sensi sospirò. Quando lei gli slacciò gli anfibi sospirò di nuovo. Sospirò anche quando gli sfilò la maglietta.

“E smettila,” lo rimproverò lei, salendogli sopra. “Sembri un condannato a morte.”

“È solo che volevo chie…”

Ma lei aveva iniziato a leccarlo e Sensi non aveva più le idee molto chiare. Le labbra rosso Chanel di Lia salivano e scendevano. Sensi chiuse gli occhi. C’era qualcosa che voleva chiederle… che cosa?

Sentì Lia che lacerava una bustina di plastica. Le sue labbra furono sostituite dalla stretta viscosa di un preservativo. Poi la sentì sopra di sé. I suoi piccoli seni sopra il petto, le costole contro le costole, l’osso pelvico contro la pancia. Lei iniziò a muoversi come un’onda, così aderente a lui da farlo sudare. Riaprì gli occhi. Lei lo guardava. Le sue labbra rosso Chanel sorridevano appena, si separavano leggermente, si avvicinavano alle sue.

Sensi rimase praticamente fermo.

C’era qualcosa che avrebbe voluto chiedere, prima del sesso.

Si lasciò baciare, si lasciò accarezzare i capelli, si lasciò guardare. Lasciò che lei lo stringesse fino a fargli male. Lasciò che le sue lacrime cadessero sulla propria faccia. Si lasciò sussurrare dichiarazioni d’amore inappropriate, contro le quali era indifeso.

Lei venne e lui era ancora lì, tramortito, intrappolato.

Sentì di nuovo le sue labbra, ma era anestetizzato.

Si voltò da un lato, scostandola. Lei lo guardò con espressione perplessa.

“Ti ho detto che devo chiederti una cosa, no?” mormorò lui, nel cuscino.

Lei si stese al suo fianco. “Pensavo che potesse aspettare. Avevo voglia di fare l’amore con te.”

“Sì, ok, l’abbiamo fatto, no?”

“Io sì.”

Sensi sbuffò.

“Va bene. Che cosa dovevi chiedermi?”

“Tra i filmati, no? C’è un nome che non capisco. Ho fatto qualche ricerca su Google.”

Lei si limitò a guardarlo.

“Metà non sapevo neanche chi fossero,” spiegò Sensi, vagamente a disagio.

“Sei sicuro di non volere che prima…” disse lei, guardando verso il basso.

“Lascialo perdere. Ascolta me, va bene? Guarda me.”

Lei sorrise. “Ti guardo. Mi piaci.”

“È fantastico, davvero. Ma chi cazzo è Roberto Lucero?”

Lei aggrottò la fronte. “Perché?”

“È un impiegato del fisco, è possibile?”

“Sì, perché?” ripeté lei.

“Perché non conta un cazzo. Che cosa ci faceva, là in mezzo?”

Lei sbatté le palpebre, confusa. “Era carino. Persino gentile.”

“Carino. Gentile.”

“Non carino come te, però,” sorrise lei.

Sensi si appoggiò su un gomito. “Lo supponevo. E tuo marito non lo sapeva, presumo?”

“Che cosa? Non ti capisco, Ermanno. E mi fai impressione, lì a metà strada tra la paranoia e l’orgasmo.”

“Ti ho detto di lasciarlo perdere,” ripeté lui, quasi con urgenza. “Quello che intendevo è: tuo marito non lo sapeva, che Roberto Lucero era solo carino, giusto?”

“Ah. No. Gli ho detto che era ai piani alti dell’ufficio del fisco. Altrimenti mi avrebbe picchiata. Ogni tanto lo fa.”

Sensi ignorò fermamente l’ultima parte delle frase. “Ma l’hai filmato lo stesso.”

“Per ricordo.”

“E adesso il filmino è in mano a Bonanni.”

“Sì, ma continuo a non capire.”

Sensi raccolse le energie per qualche secondo. “Devi andare da lui. Da Bonanni, intendo, e gli devi chiedere indietro quel dvd.”

Lia sbatté le palpebre, confusa.

“Devi spiegargli che si tratta di un filmato unicamente sentimentale,” continuò Sensi.

“Devo andare da Bonanni,” ripeté Lia, confusa.

Sensi annuì.

“Devo chiedergli indietro il filmato con Roberto.”

Sensi annuì di nuovo.

Lei si strinse nelle spalle. “Va bene,” disse, quasi indifferente.

Sensi si mise a sedere a gambe incrociate. Alcune volte avrebbe voluto che il suo corpo gli rispondesse appena un pochino di più, pensò, indispettito. Era ridicolo, lì seduto con il pisello sull’attenti. Cercò di ignorarlo.

“Bonanni potrebbe chiederti qualcosa in cambio. Ha due figli, ventenni.”

Anche Lia si sollevò, tenendosi in equilibrio su un braccio.

“Ho detto va bene,” ripeté.

“E dovrai insistere perché te lo dia subito, mentre sei in casa sua. Non devi seguirlo, devi solo ricordarti in che stanza entra.”

“Va bene.”

“Devi chiedergli se ce ne sono altre copie. Se ce ne sono, gli chiederai di avere anche quelle. Cerca di capire se sono in casa. Se non sono in casa, gli dirai che non importa. Che ti basta avere una copia. Hai capito?”

“Sì.”

Sensi continuò, impaziente: “Se non ti vuole ridare il dvd, devi lasciar perdere quasi subito, ok? Bonanni non è una bella persona.”

“Non conosco molte belle persone.”

Sensi la prese per un braccio. “Sì, ma da lui ti ci sto mandando io.”

Lei sorrise. “Questo è meglio se non glielo dico.”

Sorrise anche Sensi. “No, meglio di no.”

Lei gli passò un braccio attorno alle spalle e scivolò verso il basso. “Non sentirti in colpa,” mormorò, mentre le sue labbra rosso Chanel scendevano lentamente lungo il suo petto.

Sensi si appoggiò con la schiena contro la testiera del letto e cercò intensamente di non farlo.

lunedì 9 agosto 2010

Quello che non sai - 9

Quella notte aveva fatto un sogno strano. Ci stava ancora pensando quando, la mattina dopo verso le undici, arrivò in questura. Durante la nottata aveva piovuto, così ora l’aria era calda e umida invece che semplicemente calda.

Nel sogno c’era una ragazza nuda legata su un catafalco, ma non era quella la parte strana. La parte strana erano le facce delle persone che le stavano attorno. Erano pixelate, come se facessero parte di una ripresa amatoriale. Solo le facce.

La voce di Mainardi lo riscosse dai suoi pensieri. “Capo, sei su internet.”

Sensi si voltò dalla sua parte. L’ispettore era sulla porta del suo ufficio e aveva un’aria speranzosa.

“Ah, sì?”

“Su You Tube. Uno dei ragazzini ha ripreso la scena. Si vede quando quello coi bermuda a scacchi le dà un pugno.”

“Fantastico. Ora mi mandi Tudini, per favore.”

Facce pixelate, pensò, andandosi a sedere dietro la sua scrivania. Non le avevano tutti?

Tudini arrivò pochi secondi più tardi, con una lattina di Red Bull in mano.

“Siediti, Max,” disse Sensi, aprendola. Tudini spostò per terra una pila di circolari interne e si accomodò sulla sedia che aveva appena liberato.

“Dimmi tutto quello che sai su Ignazio Bonanni.”

Tudini non sembrò stupito di quella domanda fatta di punto in bianco. Tudini non si stupiva facilmente. Invece chiese: “Vado a prendere il fascicolo?”

“Non lo conosci a memoria?”

“Effettivamente,” rispose Tudini, senza sorridere. “Comincio dall’inizio?”

“Dall’inizio,” confermò Sensi, sapendo già che se ne sarebbe pentito.

“Bonanni è nato a Spezia cinquantadue anni fa da Teresa e Camillo Bonanni. Ha un fratello, Marco, che…”

“Magari non proprio dall’inizio,” lo interruppe Sensi. “Diciamo dalle sue prime attività criminose.”

“Verso i quattordici anni è stato processato per furto. La sua casella giudiziaria è stata cancellata alla maggiore età e in seguito non è stato più arrestato.”

“Si è fatto qualche mese di carcere minorile?”

Tudini annuì. “Sì, all’epoca i giudici non erano gentili come oggi. È stato indagato più volte per furto, ricettazione, associazione a delinquere, illeciti edilizi e patrimoniali, banca rotta fraudolenta, corruzione…”

“Ho capito. Processi?”

“Uno, nel ’92. Assolto.”

“Sta in piazza Brin, giusto?”

“In un’ex casa popolare di via Torino. L’ha acquistata con un mutuo a tasso agevolato nel ’99.”

“È bello sapere che lo stato aiuta i cittadini meno abbienti,” commentò Sensi.

“Secondo le nostre valutazioni il suo patrimonio personale ammonta a circa due miliardi di euro.”

“Ma va in giro su una vecchia Punto, lo so.”

Tudini annuì. C’era una luce cupa nei suoi occhi solitamente bovini e Sensi decise di tagliare corto con i dettagli. “Hai degli informatori tra i suoi?” chiese.

Di nuovo, Tudini annuì. Sensi si interrogò silenziosamente sulla profondità del disprezzo del suo vice per quell’uomo. Bisognava essere davvero feccia umana per farsi detestare da Tudini.

“A che livello?” domandò.

“Strada, purtroppo. Bonanni è furbo.”

“Sei sicuro che i tuoi informatori non lavorino per lui?”

La mascella di Tudini si contrasse impercettibilmente. “No,” si limitò a dire.

Sensi sospirò. “Non farti illusioni, Max. Non lo prenderemo. Non per questa… cosa.”

“Non hai intenzione di spiegarti meglio, Ermanno?”

Sensi scosse la testa. “Se Bonanni avesse dei dvd, no? Dvd compromettenti di alcune persone in vista… dove li terrebbe? Dal suo avvocato?”

Tudini ci pensò per qualche secondo. “Non credo,” disse, alla fine. “Non si fida degli avvocati. Non si fida di nessuno, in realtà.”

“Neanche di sua madre?” sorrise Sensi.

“Sua madre ha l’alzheimer, è ricoverata a San Terenzo, in una clinica per anziani.”

“Quindi dove li terrebbe? In casa sua? In banca?”

“Bonanni non si fida delle banche,” fu la prevedibile risposta. “Crediamo che tenga la maggior parte del contante in diversi conti della Coop.”

“Chissà quanti buoni sconto,” commentò Sensi. “Com’è casa sua? Ci sei mai entrato?”

“Certo,” rispose Tudini, senza esitare. “Nel 2005, quando sono andato a prelevarlo per un interrogatorio. È un posto abbastanza comune. Cinque stanze, una tv al plasma enorme. La tv è l’unico dettaglio fuori posto, ma sai come l’ha comprata?”

“Con i punti della Coop?”

“Quasi. Con una rata triennale all’Euronics di Massa.”

Sensi, suo malgrado, sorrise.

“Una cassaforte?”

“Probabile,” annuì Tudini.

“Se avesse duplicato i dvd, no?” continuò Sensi. “Le copie, dove sarebbero?”

Tudini ci pensò per qualche secondo. “Il suo braccio destro è Rosario Ciccone. Potrebbero essere da lui.”

“Parente di Madonna?”

“No,” rispose Tudini, serissimo. “Ha una casa a Sarbia. Una bella villetta.”

“Fammi indovinare. Rosario è meno furbo di Bonanni.”

“L’abbiamo beccato nel 2003 per abuso edilizio. Si è preso la colpa senza fiatare, ha fatto un anno e mezzo ai domiciliari, è uscito in libertà vigilata, ha finito di scontare la pena quattro mesi fa.”

“E di lui Bonanni si fida,” ipotizzò Sensi.

“Relativamente. Bonanni non si fida…”

“…Di nessuno, ho capito. Ma se avesse una copia dei dvd…”

“…Potrebbero essere da Ciccone, sì. O dal suo avvocato.”

Sensi sospirò. “Perché Ciccone del suo avvocato si fida.”

“Gli ha fatto avere un bello sconto di pena,” spiegò Tudini.

domenica 8 agosto 2010

Quello che non sai - 8

“Abbiamo un problema.”

Salvemini sobbalzò. Era appena entrato nel portone del suo palazzo, un condominio su viale Garibaldi in cui il prezzo al metro quadro aveva da lungo tempo superato il livello “fantascienza”, e stava per accendere la luce, che in realtà avrebbe dovuto già essere accesa, quando aveva sentito la voce.

“Sensi?” chiese, leggermente incerto.

Il commissario accese la luce. “Già. Forse è meglio se andiamo a fare un giro.”

Salvemini annuì e riaprì il portone. Sensi scivolò fuori, le mani in tasca e l’espressione neutra.

“Quindi ha fatto qualche progresso,” disse il questore, mentre si avviavano lentamente lungo viale Garibaldi. Era una via dai larghi marciapiedi, costeggiata dai platani, e a quell’ora della sera riusciva a essere quasi fresca.

“Ho la lista delle persone immortalate nei dvd,” disse Sensi, senza guardarlo, “e so chi li ha in mano ora.”

“Sì?”

“Ignazio Bonanni.”

Salvemini si fermò. “No,” disse, e per un secondo sembrò profondamente angustiato.

“Sì,” ribadì Sensi.

“I ladri lavoravano per lui?”

L’altro si strinse nelle spalle. “Questo non ha importanza. Voleva sapere chi ha i video, no? Be’, li ha lui.”

Salvemini riprese ad avanzare, leggermente più curvo. “E l’elenco dei nomi…”

“Ecco, questo è divertente,” sorrise Sensi. “Metà delle persone su quell’elenco non è particolarmente ricattabile. Alcuni hanno messo in internet le proprie imprese sessuali.”

Salvemini si limitò a guardarlo.

“Gli altri, però,” continuò Sensi, “immagino che non gradirebbero la pubblicità.”

“Come ha intenzione di procedere?” chiese Salvemini, neutro.

“Prendere tutte le vacanze che mi restano non servirebbe a molto.”

Il questore non sorrise. “No, non servirebbe a nessuno. Suppongo che l’elenco dei nomi sia… significativo.”

“Vuole che glieli riferisca?”

“Santo cielo, no. Voglio soltanto sapere che cosa ha intenzione di fare, Sensi.”

Ormai erano arrivati in piazza Garibaldi, ossia in fondo alla strada. Tornarono indietro.

“Dovrò parlarne con Tudini,” disse Sensi.

“Tudini non è…”

“A Tudini non ha mai salvato le chiappe, lo so. Ma è la persona che ne sa di più in assoluto su Bonanni.”

Salvemini, a malincuore, annuì. “Molto bene. Ma non racconti più dello stretto indispensabile. E… Sensi?”

“Sì?”

“L’hanno denunciata per abuso in atti d’ufficio. Lei, ufficialmente, in quel momento non era in servizio.”

Sensi restò in silenzio.

“Non voglio darle un incentivo,” aggiunse Salvemini. “Tanto perché lo sappia.”

“Probabilmente l’avrei preferito,” rispose l’altro.

“L’avrei preferito anch’io. Arrivederci.”

Sensi osservò la massa compatta del questore che si allontanava verso il suo portone. Sembrava preoccupato e questo non era un buon segno.

Quando era quasi arrivato alla porta, Salvemini si voltò. “Un’ultima cosa. Lia.”

Sensi si strinse nelle spalle.

“Sta bene?” chiese Salvemini.

Sensi scosse la testa. “No,” rispose, e se ne andò.

sabato 7 agosto 2010

Quello che non sai - 7

Mangiava ciliegie nudo in un letto con delle lenzuola di marca. Razionalizzare, a quel punto, non serviva più a niente.

“Non capisco che cos’hanno di diverso rispetto alle altre lenzuola,” disse, sputando un nocciolo nel posacenere.

Lia sbuffò un po’ di fumo verso il soffitto. Fumava col bocchino, ovviamente. “Costano di più,” spiegò, un po’ seccata.

“Suppongo che questo valga anche per tutto il resto, no? I mobili, i tappeti, la domestica, i cazzo di fiori secchi…”

“Quella cosa dei fiori secchi devo ancora capirla. Non credevo che ti piacesse.”

“Sculacciare le donne? O i fiori secchi in generale?”

Lei inarcò un sopracciglio. “Tutti e due.”

“Già,” sorrise Sensi, e sputò un altro nocciolo. “Era una tecnica. Avevo il sospetto che mi stessi prendendo ancora per il culo.”

“Sei più divertente quando ti limiti ai preliminari.”

“Sei più dignitosa quando non uggioli a quattro zampe.”

Lei gli lanciò un’occhiataccia. “Hai una vena sadica.”

“Quindi sarebbe corretto dire che tu hai una vena masochista?” replicò lui, mettendo da parte le ciliegie. Si rivoltò sulla pancia. “Oppure possiamo giocare a carte scoperte e dire che sei molto vicina alla disperazione? Abbastanza vicina da metterti a quattro zampe per il primo coglione che fa la voce grossa?”

Lei tolse la sigaretta dal bocchino e la lasciò nel posacenere. “Volevo comprarmi il tuo silenzio.”

Sensi arricciò il naso. “Idea stupida. A quanto hai venduto il pacchetto completo? Mi riferisco ai quadri, ai gioielli, ai dvd… non al resto. Immagino che anche quello abbia il suo prezzo.”

Anche Lia si voltò verso di lui. I suoi occhi blu, per una volta, non erano né fragili né torbidi, solo pensierosi. “È stato mio marito,” disse, alla fine.

“Tuo marito ha venduto i tuoi quadri, i tuoi gioielli e i tuoi filmini porno?”

Lia fece una piccola smorfia. “Già.”

“E perché?”

“Perché siamo al verde. E perché non ci sono più gli uomini di una volta.”

“Gli uomini di una volta sarebbero quelli che hanno paura di uno scandalo?”

“Alcuni di quei filmati sono finiti su internet. Non la versione completa. Quella ridotta che mio marito spediva come prova.”

Sensi si mise a ridere.

“Non c’è niente di divertente,” disse l’altra, secca.

“In un flaccido cinquantenne che si vanta con gli amici virtuali di essersi portato a letto una come te? No, forse no, scusa.”

Lia gli lanciò un’altra occhiataccia. “Non è stato uno spasso, sai? Il tuo caro questore, ad esempio…”

“Preferisco non sapere, grazie. Sono un debole, non credo che potrei resistere alla tentazione di sfotterlo.”

“Non avevo alternative,” disse lei. Ora sembrava leggermente arrabbiata.

“Ma certo che le avevi. Solo che questa era più facile. Non dovresti cercare di convincermi che sei un candido giglio. I candidi gigli mi mettono sempre di pessimo umore.”

“Uffa,” sbuffò lei. “Inizio a pensare di essere stata fregata.”

“Dovevi nascere un secolo fa. Ma torniamo ai fatti. Tuo marito vende il pacchetto completo, ma?”

“Mio marito è un idiota.”

Sensi si allungò verso le sue sigarette, ne prese una e l’accese. “Mai riuscito a prendere il vizio,” disse, dopo aver dato qualche tiro. Spense la sigaretta nel posacenere. “Tuo marito è un idiota, su questo siamo d’accordo. Anzi, tecnicamente potresti denunciarlo, mi sa. Sarebbe un bel processo, degno di un romanzo di John Grisham. Ma gli occhioni blu ti aiuterebbero di sicuro a convincere il giudice che sei sempre stata una povera vittima nelle mani di un perverso sfruttatore. A meno che il giudice non sia uno dei tuoi clienti, s’intende.”

Gli occhioni blu, in quel momento, si serrarono. “Non voglio tornare a essere povera, è così tremendo?”

Sensi le prese il mento. “Guardami. Ehi, guardami.”

Gli occhioni blu si riaprirono, leggermente lucidi.

“E come credi che sia, mio marito? Guarda, lì c’è una foto. Assomiglia a un tricheco. Un tricheco sadico. Ma tu, naturalmente, non mi credi.”

“Che te ne frega, se ti credo? Ho detto che ti aiuterò. Sono costretto ad aiutarti, se vuoi saperlo. Ma, sì, ti credo. Ci credo che un uomo come tuo marito può essere un bastardo. Però non cambia niente. a chi ha venduto i filmati?”

“A Ignazio Bonanni.”

Sensi rimase in silenzio.

Si mordicchiò un labbro.

“Merda,” disse, alla fine.