martedì 27 luglio 2010

martedì 13 luglio 2010

Lividi - 16

“La signora ha confessato,” gli disse Tudini, quando arrivò in questura. “Sostiene che il signor Righi aveva allungato le mani.”

“Dev’essere una fissazione di famiglia,” commentò Sensi, ma se ne pentì quasi subito.

“Comunque, il caso è stato chiuso a tempo di record. Salvemini sarà contento.”

Sensi non gli fece notare quanto gliene fregava che Salvemini fosse contento, si limitò a grugnire.

“Ma tu come facevi a saperlo, Ermanno?”

Sensi gli rivolse un sorriso veloce. “Tirato a indovinare, come se no?”

Quella sera Carmel arrivò verso le otto. Sensi aveva comprato del sushi al supermercato e aveva messo persino sul piatto del giradischi un romantico Iggy Pop.

“Porque quell’uomo sta abbaiando?” chiese Carmel, appena entrata.

“Perché è arrapato, tesoro,” rispose Sensi, col tono di chi dice un’ovvietà, continuando a disporre gli involtini di sushi su un tagliere.

“Madre de Dios, aiutami tu,” sospirò Carmel.

Sensi allargò le braccia per indicare il capolavoro che aveva fatto nel disporre artisticamente il sushi. “Ta-daa!”

Carmel sorrise e evitò di dirgli che la sua opera d’arte assomigliava a una montagnola semi-diroccata.

“Non dovevi parlarme de qualcosa de muy importante?”

Sensi le saltellò attorno. “Sì, sì, più tardi. Ora mangiamo, ok?”

Carmel sospirò di nuovo. “Non me parlerai proprio de niente, vero?”

Il sorriso di Sensi si allargò, luciferino.

“Forse sì, chi può saperlo?”

FINE.

lunedì 12 luglio 2010

Lividi - 15

Strega. Ogni volta che se lo ripeteva aveva una nuova fitta alla testa. Strega. Ma non riusciva a smettere di pensarci.

Miriam era un bel nome per una strega, ma, checché ne dicesse la madre, non la era. Se l’avessero chiesto alla dottoressa Pagano, lei avrebbe risposto che Miriam non era una strega perché la stregoneria non esiste, ma Sensi non ne era così sicuro.

Nei suoi anni da infiltrato era arrivato ad essere uno degli “stregoni officianti” della setta dei Figli dell’Anticristo. Non che avesse fatto molte cose magiche. Più che altro aveva scopato e si era drogato a spese dello Stato.

Non che avesse fatto molte cose magiche. Diciamo… solo qualcuna.

Una volta arrivato nella galleria Spallanzani, il suo wrangler restò incastrato nel traffico. Era quasi l’una, il mal di testa non demordeva e i bambini stavano per uscire dalle scuole. Sensi non si ricordava se quel giorno Clara usciva all’una o alle quattro, ma tentare non gli costava niente.

Clara non era un granché, come nome da strega, se si escludeva il telefilm degli anni ’60, ma Clara, la maestra, una strega doveva esserla davvero.

Finalmente la coda riprese a muoversi e Sensi riuscì ad arrivare davanti al Due Giugno. Mollò la macchina davanti alla palestra, in tripla fila. Evidentemente i genitori non amavano andare a prendere i figli a piedi.

Tagliò la folla urlante dei bambini che non facevano il tempo pieno, andando a piazzarsi davanti alla classe di Clara. Lei stava consegnando ai genitori gli ultimi scolari.

Non appena lo guardò, Sensi ebbe l’impressione che qualcuno gli tirasse una martellata sul cranio. Clara rimase ferma sulla porta. Per la prima volta Sensi notò i suoi occhi verdi e gelidi, furiosi come quelli di un gatto.

Poi Clara prese la borsa e chiuse la porta. Sensi si spostò verso l’uscita degli insegnanti.

Quando uscì, pochi minuti più tardi, il suo sguardo era ancora freddo e furioso. I capelli rossi le incorniciavano il viso pallido, la lunga gonna da figlia dei fiori le svolazzava attorno alle gambe. Per la prima volta, Sensi non degnò le sue tette di un’occhiata.

“Quindi hai anche il coraggio di farti rivedere?” lo assalì lei, non appena gli fu abbastanza vicino.

“Ho l’impressione che tu sia arrabbiata con me,” rispose lui, inclinando la testa da un lato. Il dolore dietro agli occhi aumentò ancora un po’.

“Santo cielo, devi essere un sensitivo! Qualche idea sul perché?”

“Se dovessi elencarli tutti finirei questa sera. Facilitami il compito e dimmelo tu.”

“Ti do un aiutino: ieri pomeriggio pomiciavi su una panchina con una chica dominicana!”

Sensi sorrise appena. “Immagino che se fosse stata italiana sarebbe stato meglio.”

Lo sguardo di lei raggiunse la temperatura dell’azoto liquido. “Non ci provare, Ermanno. Sai benissimo che non me ne frega niente della nazionalità della tua puttana.”

“Ah, quindi non ce l’hai con lei. Tra l’altro, si chiama Carmel, né chicaputtana.”

“Buono a sapersi,” borbottò Clara.

Il sorriso di Sensi si intensificò. “Sì, i nomi sono importanti.” Tornò serio. “I nomi sono potenti, strega.”

Clara sussultò. “Sei pazzo,” disse.

“Buffo. Un’altra donna avrebbe detto che sono offensivo. Strega non è un insulto?”

“Per voi uomini, forse,” rispose l’altra, con improvvisa fierezza.

Lui si strinse nelle spalle. “No, non era un insulto. Era una constatazione. Come idiota, anche questa è una constatazione.”

Clara fece un mezzo passo indietro.

“Non dirmi che te ne vuoi andare. Proprio adesso, sul più bello? Sai, mi fa incazzare che tu te le sia presa con Carmel. Lei non sa nemmeno che esisti.”

“Dovrebbe interessarmi?”

Sensi sorrise ancora. “No. Guardami.”

“Ti sto guardando. E se vuoi saperlo non capisco come hai fatto a piacermi.”

“Guardami davvero, Clara,” disse lui. E, lentamente, i suoi occhi grigi iniziarono a diventare color sangue, come se una nube li stesse oscurando poco a poco.

“Che cosa…?”

“Guardami, ho detto,” ripeté Sensi e, lentamente, le appoggiò il palmo della mano sulla fronte.

Il viso di Clara sembrò congelarsi.

“Guardami, strega,” disse Sensi, piano, quasi dolcemente. “Io sono il tuo re.”

Clara emise una sorta di singhiozzo e fece un passo indietro. Lo guardò ancora per un istante e i suoi occhi, adesso, esprimevano solo paura.

Poi si voltò e si allontanò in fretta.

Sensi la osservò ancora per un minuto. Il suo mal di testa era sparito ed era sicuro che neanche Carmel avrebbe più avuto problemi. Non se non si fosse strafogata di cioccolata, comunque.

Guardò Clara finché non fu una figurina sullo sfondo, poi si voltò e si avviò verso la macchina.

I suoi occhi erano di nuovo grigi.

Mentre camminava, il suo sorriso si allargò. “Io sono il tuo re,” ripeté, con aria pomposa, e sghignazzò.

Quando salì in macchina stava ancora ridendo.

domenica 11 luglio 2010

Lividi - 14

Alla fine, al Felettino, ci era andato di persona. Il mal di testa non lo mollava, il ginocchio gli faceva male e neanche il sole brillante di mezzogiorno poteva peggiorare la sua situazione.

Era molto strano.

L’uomo all’ingresso del parco che circondava l’ospedale si rifiutò di alzare la sbarra per farlo entrare.

“Sono un commissario di polizia,” disse Sensi, tirando fuori il tesserino.

“Può essere anche Babbo Natale,” rispose l’uomo, “dentro ci sono cinque parcheggi e sono già tutti occupati. La macchina può lasciarla qua fuori.”

Sensi parcheggiò su un viottolo reso rovente dal sole e si arrampicò a piedi verso l’ospedale. Era un edificio per metà cadente e per metà circondato dai ponteggi. I ponteggi, per quel che ricordava, erano sempre stati lì, ma i lavori non erano mai stati conclusi. Adesso dal comune dicevano che al posto del vecchio edificio sarebbe sorto un gigantesco complesso ospedaliero moderno, che avrebbe raccolto tutti i reparti. Lo dicevano da qualche anno, ma per il momento non era ancora sorto niente.

Sensi si infilò nell’atrio ombroso e percorse il dedalo di corridoi che portava alla psichiatria.

Un infermiere particolarmente grosso gli aprì la porta chiusa a chiave e lo scortò verso lo studio della dottoressa Pagano, il primario.

Sensi l’aveva già incontrata in precedenza e, a giudicare dal sorriso che gli rivolse, la psichiatra non aveva conservato un brutto ricordo di lui.

La dottoressa Pagano era molto alta e molto austera, ma quando sorrideva sembrava quasi un essere umano come tutti gli altri.

“Commissario,” lo salutò, facendogli segno di sedersi davanti alla sua scrivania bianca e spartana.

“Sono venuto a sentire se avete apprezzato il pacco dono,” disse Sensi, lasciandosi cadere sulla sedia metallica che l’altra gli aveva indicato. “Sono anche venuto a vedere se avevate qualcosa di veramente forte contro il mal di testa.”

La dottoressa inclinò la testa da un lato, con espressione da sfinge. “Forte quanto?” si informò.

“Più forte di un’aspirina, di un sinflex e di due oki tutti insieme.”

“Sembra che resti solo la morfina,” disse lei, con un sorriso. “O una giornata di riposo.”

“Se me lo scrive su un foglio sarà mia premura trasmettere immediatamente la sua prescrizione al questore.”

La Pagano non ci cascò. “È qua per Miriam Rossetti, giusto?”

Sensi annuì.

“E ha una richiesta di chiarimenti di un giudice,” aggiunse l’altra. Non era una domanda, ma Sensi annuì lo stesso. Tirò fuori dalla tasca del giubbotto il fax stropicciato che gli aveva dato Tudini.

La Pagano si mise sul naso un paio di occhialetti a mezzaluna attaccati a una catenella d’oro e lesse il foglio con attenzione.

“Bene, Miriam Rossetti è arrivata qua ieri sera in stato confusionale acuto. Sosteneva di essere stata molestata da un numero imprecisato di persone, ma nonostante questo la visita ginecologica del pronto soccorso non aveva accertato niente del genere. Però aveva dei lividi su un polso.”

“Quelli glieli ho fatti io,” disse Sensi. “Ci ho guadagnato un’accusa di stupro, tra l’altro.”

La Pagano inarcò le sopracciglia.

“Mai formalizzata,” chiarì Sensi. “L’ho bloccata mentre tentava di aggredirmi, sotto gli occhi di un’ispettrice, ma questo non le ha impedito di accusarmi di averla violentata.”

La dottoressa scosse la testa. “È un caso piuttosto triste, commissario. Ha solo sedici anni.”

“Sono d’accordo. Il problema è che è anche una picchiatrice. Picchia la madre, forse il padre, di certo le compagne di scuola e altri ragazzi.”

“Sì, i genitori me l’hanno detto.”

“Sono in suo ostaggio,” disse Sensi.

“Sì, ho notato anche questo. Il padre sembra incline a credere che siano… com’è che ha detto? Ragazzate. Ma la madre non mi sembra della stessa opinione.”

“E lei di che opinione è? Sono ragazzate?”

“No, Sensi. Sono i sintomi di un disturbo di personalità. O quello che molto probabilmente diventerà un disturbo di personalità. È ancora troppo giovane per formulare una diagnosi stringente, ma questo è quello che suggerisce il quadro.”

La Pagano lasciò ricadere sul petto gli occhialetti a mezzaluna. “Questa mattina Miriam ha cambiato versione quattro volte. Ha provato a portate dalla sua parte tutti quelli con cui parlava, modificando atteggiamento ogni volta che le veniva opposto un rifiuto. L’episodio delirante di ieri sera è rientrato senza bisogno di farmaci. Il collega le ha somministrato solo un calmante.”

“Quindi, ieri sera, era convinta di essere stata violentata?”

La Pagano si strinse nelle spalle. “Non lo so. Forse. O forse stava solo mentendo.”

“No,” disse Sensi, “ieri sera era terrorizzata sul serio.”

La dottoressa lo osservò per un secondo in silenzio, immobile e inespressiva.

“Lei è turbato,” disse, alla fine.

Sensi fece un gesto vago con una mano.

“Lei è turbato perché Miriam ha immaginato che lei la violentasse e questo la fa sentire come se l’avesse fatto davvero.”

“E dovrò anche pagarle la parcella, alla fine della seduta?” sorrise il commissario.

Anche l’altra sorrise, uno di quei sorrisi improvvisi che la facevano assomigliare a un essere umano come tutti gli altri. “Sa, io non sono una psicoterapeuta, ma so riconoscere una difesa, quando la vedo. In ogni caso, Miriam ha un quadro sintomatico che la candida, nei prossimi anni, a sviluppare pienamente un disturbo di personalità borderline, associato a degli spiccati tratti antisociali e paranoici che la renderanno una ragazzina molto, molto infelice.”

“E si può curare?”

La psichiatra si strinse nelle spalle. “È molto giovane,” ripeté, senza aggiungere altro.

Poi lanciò un’occhiata al foglio che era ancora sulla scrivania e aggiunse: “Le serve altro?”

Sensi si grattò la nuca. “Non lo so. Credo che non procederemo, sempre che non decida di procedere la madre. Ma non credo.”

“Oh, non saprei. Sa come ha definito sua figlia, questa mattina? Strega. Ha detto che Miriam è una strega. Ho cercato di spiegarle che è solo malata. Si sente bene, commissario?”

Sensi, che aveva avuto un’altra fitta alla testa, fece segno con la mano che non era niente.

“È che sua madre probabilmente avrà presto altro a cui pensare,” spiegò, fiacco. “Ora Miriam sta…”

“Meglio? Sì, è abbastanza tranquilla. Ma non credo che dovrebbe vederla.”

Sensi si alzò. “E io non credo di desiderare di vederla,” disse, andando verso la porta.

“Commissario?” lo trattenne la voce della psichiatra, mentre stava già uscendo.

“Sì?”

“Tra l’immaginazione e la realtà c’è sempre una differenza. Altrimenti niente sarebbe reale, non trova?”

Sensi sorrise.

“Già. Ma chi l’ha detto che non sia proprio così?”

sabato 10 luglio 2010

Lividi - 13

Il giorno dopo Sensi si svegliò con un dolore sordo alla testa e con il ginocchio intorpidito. Si lavò e telefonò a Carmel, che gli spiegò che il suo disturbo improvviso era scomparso velocemente com’era comparso. Il mal di testa di Sensi, invece, si intensificò leggermente.

Era strano.

Non che il commissario fosse immune alle malattie, ma non aveva mai sofferto di emicrania, se non in circostanze molto rare.

Forse, finì col dirsi, era solo lo stress. Sensi non era mai stato particolarmente vulnerabile allo stress, come poteva testimoniare chiunque facesse parte della sua squadra, ma non era neanche mai stato accusato di essere uno stupratore di minorenni.

Si infilò una felpa dei Cradle of Filth e il solito giubbotto di pelle nera e caracollò verso la macchina. Il tempo restava inspiegabilmente soleggiato, cosa che non migliorò il suo mal di testa.

Nell’open space della squadra mobile, in questura, c’era un numero sospetto di ispettori, apparentemente impegnati in compiti di poco conto. Tudini stava revisionando la macchinetta sotto l’attenta supervisione di Mainardi, la Riu stava attaccando un ennesimo appello al riciclo sulla porta della sua stanza e Crippa, un ispettore della Digos, fingeva di chiedere informazioni a Bianca Giusti, l’agente-segretaria.

“Non ho stuprato nessuno,” disse Sensi a quest’ultimo, passandogli accanto.

Crippa sembrò cadere dalle nuvole.

“Veramente ero venuto per…” iniziò a difendersi.

“Scoprire se avevo stuprato una minorenne,” concluse Sensi. “Ora lo sai e puoi tornare tranquillo nel regno della paranoia.”

Crippa ebbe il buon gusto di non insistere. Raccolse un paio di fogli a casaccio dalla scrivania della Giusti e scomparve nell’ascensore.

“Una Red Bull,” ordinò Sensi, subito dopo, entrando nel suo ufficio. Il fatto che non fossero stati messi i sigilli alla porta era confortante.

Pochi minuti più tardi Tudini si presentò con una lattina, accompagnato dalla Riu e da Mainardi.

“Ah,” disse Sensi, sollevando lo sguardo su di loro. “Ha tutta l’aria di un assembramento spontaneo.”

“Ci sono delle novità sul caso Righi-Rossetti,” lo informò la Riu, facendo un passo avanti e mettendosi in una militaresca posizione di riposo, con i piedi distanziati e le mani dietro la schiena.

“Sì?”

“Sì, signore. La giovane, Miriam Rossetti, nella giornata di ieri è stata accompagnata al Pronto Soccorso dell’Ospedale Sant’Andrea-”

“Della Spezia, sì,” la interruppe Sensi. “Tanto per completezza. Proceda.”

La Riu continuò in rapportese stretto, come se l’altro non avesse mai parlato.

“Qui è stata sottoposta agli esami di rito per accertare le sue condizioni psico-fisiche. In seguito a detti esami fisici, che hanno compreso un check-up medico completo e una visita ginecologica, la giovane è stata definita in buona salute. Dopo gli accertamenti psicologici, Miriam Rossetti è stata trasferita all’SPDC dell’ospedale Felettino, dove ha accettato il ricovero. La dottoressa Rosa Pagano ha svolto un primo colloquio con la neo-degente e ha refertato un disturbo confusionale acuto. Ulteriori accertamenti verranno eseguiti in mattinata.”

La Riu, finito di fare rapporto, rimase in silenzio, sempre nella sua granitica posizione di riposo.

Anche gli altri tre rimasero in silenzio, cercando di decifrare quello che avevano appena sentito.

“Mainardi, può tradurre?” chiese, alla fine, Sensi.

Mainardi annuì. “La ragazza era vergine, capo. È vergine, per quel che ne sappiamo.”

“E l’hanno portata in psichiatria, giusto?”

“Giusto.”

Sensi si grattò il mento. “Ha denunciato qualcuno per molestie?”

“Alla fine no, capo.”

Sensi si alzò, fece il giro della scrivania e si andò a mettere davanti a Mainardi.

“E comunque è matta come un cavallo,” aggiunse Mainardi.

Sensi gli tirò un ceffone, abbastanza forte, a mano aperta. Mainardi, stupito, emise un lamento e si coprì la guancia.

“Stavo giusto aspettando che lo dicesse, ispettore,” commentò Sensi, aprendo e chiudendo la mano con cui l’aveva colpito. “Lei è un imbecille. Un imbecille sventato e pericoloso. Se prova ad allontanarsi un’altra volta con una sospetta minorenne e a esporsi al rischio di una querela troverò quel cazzo di modulo, dovessi metterci un giorno intero, e le farò rapporto.”

“C-capo!” balbettò Mainardi, che tutto si era aspettato meno che di prendersi una sberla.

“Cazzo, ispettore,” continuò Sensi, soffiando come un toro. “Cazzo,” ripeté.

Non c’era altro da aggiungere e Mainardi abbassò gli occhi, mortificato.

Sensi si massaggiò le tempie con una mano e si appoggiò alla scrivania. “Riu, mi spieghi come sono andate le cose. Senza rapportese. E possibilmente senza cercare di tenermi sulle spine con un’accusa di stupro.”

La Riu si rilassò leggermente. “La Rossetti era in uno stato confusionale,” ammise. “Da quando siamo arrivate al pronto soccorso aveva accusato di molestie anche me. Tra l’altro, tengo a precisare che, nonostante la luce spenta, ho visto perfettamente come si è svolto il colloquio che avete avuto ieri pomeriggio e avrei testimoniato in suo favore.”

“Non so come ringraziarla,” disse Sensi, sarcastico.

“Una volta al pronto soccorso le hanno fatto un kit dello stupro, dal quale è emerso che non aveva mai avuto rapporti sessuali, che non c’erano tracce di liquido seminale, abrasioni o altre evidenze di violenza. A questo punto Miriam era piuttosto agitata. Il ginecologo ha richiesto un consulto psichiatrico e dopo un po’ è arrivato il medico di turno all’SPDC, che ha disposto il ricovero. I genitori, avvisati dei fatti, sono andati all’SPDC e credo che abbiano avuto un incontro con la figlia, che ha deciso di restare per la notte. La dottoressa Pagano ha detto che se vuole parlarle può contattarla al termine delle visite, verso mezzogiorno.”

Sensi guardò l’orologio. Era mezzogiorno meno un quarto.

“Tudini?” chiese.

L’ispettore capo tirò fuori un taccuino e sfogliò qualche pagina. “Ho risentito gli inquilini del palazzo. Il signor Righi andava d’accordo con tutti. Era un signore di buon carattere, così mi è stato detto. Andava d’accordo anche con i Rossetti, specialmente con la signora, che a volte lo aiutava con i lavori domestici.”

“Hanno qualche ipotesi sull’omicidio?”

Tudini scosse la testa. “Quella prevalente è che si sia tentato di un furto finito male.”

“Mh,” fece Sensi, con aria dubbiosa.

“So quel che pensi, Ermanno. Non c’erano segni di effrazione e i soldi erano ancora sotto il materasso… ma a questo punto…”

“Certo,” disse il commissario. “Un ladro suona alla porta fingendosi un fattorino, il signor Righi apre, le cose degenerano, il ladro colpisce Righi con il ferro da stiro e, sconvolto, si dà alla fuga. Portandosi dietro il ferro da stiro.”

“È possibile,” convenne Tudini.

“Sì, certo, come no. Vai ad arrestare la signora Rossetti, va’.”

Le folte sopracciglia di Tudini si inarcarono fino a toccarsi. “La signora Rossetti?”

Sensi sospirò. “Interrogala. Non mi sembra il tipo da negare a oltranza.”

“Ma, Ermanno…”

Lui riprese a massaggiarsi le tempie. “Righi non ce l’aveva nemmeno, un ferro da stiro.”

“Eh?”

“Vedrai. Era la signora Rossetti a fargli i lavori in casa. Finché lui non ha detto qualcosa, ha fatto qualcosa, chi lo sa. La signora Rossetti era stanca di prenderle. La figlia la malmena e il marito non fa niente per proteggerla. La signora Rossetti non ce la faceva più, ecco cosa.”

“Non ci sono prove, Ermanno.”

Sensi sospirò di nuovo. “No,” ammise. “Be’, puoi sempre sequestrarle il ferro da stiro.”

venerdì 9 luglio 2010

Lividi - 12

Carmel si aspettava di trovarlo allegro e pronto a una nottata di sesso priva di confessioni. Di solito l’umore di Sensi andava su e giù come uno yo-yo diverse volte al giorno e se c’era una cosa che non faceva mai era mantenere quel che aveva promesso. Non se doveva dire qualcosa di sé.

Ma Sensi, contrariamente alle sue aspettative, non era affatto allegro e sembrava pronto a una nottata di sesso più o meno come uno zombie.

Invece era al buio, rannicchiato sul divano in posizione fetale, scalzo e con i capelli neri che gli spiovevano sulla faccia.

“Manno?” chiese, entrando nel sottotetto. La porta era stata aperta, quindi in qualche momento nei minuti precedenti Sensi doveva essersi alzato.

“Ho avuto giornate migliori,” disse lui, con voce debole. non accennò a muoversi. “Ho un mal di testa bestiale, ho già preso quattro diversi antidolorifici. Mi fa anche male un ginocchio.”

Carmel lasciò la borsa sul tavolino laccato che era di fronte al divano e si sedette accanto a lui.

“Avrai preso l’enfluenza,” disse, accarezzandogli delicatamente i capelli.

“Oggi mi sono scontrato con una pazza che sostiene che l’ho stuprata. Continua, ti prego. Mi piace.”

“Cos’è che sostiene?” ribatté Carmel, che si era fermata di scatto e non aveva intenzione di ricominciare.

“Che l’ho stuprata. Mentre la Riu guardava. Evidentemente non sa che la Riu è capace di farti cadere il cazzo con un solo sguardo, come Medusa.”

“Medusa petrificava tutto e non faceva cadere niente, Manno.”

“Hai capito.”

“Ma porque sostiene esto?”

“Perché è pazza, te l’ho detto.”

Carmel si sfilò le scarpe e allungò le gambe sul divano, prendendosi in grembo la testa di Sensi.

“Allora non le crederanno, no?”

“E che ne so io? Quando l’avrei stuprata c’era la luce spenta e la Riu è talmente stronza che potrebbe anche dire non aver visto niente. E la testa sta per esplodermi, quindi forse non ha importanza.” Gemette e si voltò verso di lei, guardandola con gli occhi socchiusi, come se nella stanza ci fosse una forte luce. “Mi baci?” chiese, con un mezzo sorriso.

Carmel si chinò e lo baciò sulle labbra.

La sua pancia emise un gorgoglio. “Ou!” fece lei.

Sensi sorrise. “Hai fame?”

Carmel scosse la testa, mordendosi le labbra. “Mal de pancia,” ammise. Poi fece un’altra smorfia. “Mucho mal de pancia.”

Sensi ridacchiò. “Il bagno sai dov’è.”

“Ora me passa. Te preparo un po’ de tè, vuoi?”

“Guarda che quella col mal di pancia sei tu.”

Carmel fece un’altra smorfia e schizzò via dal divano.

“Appunto,” commentò Sensi, vedendola correre nel bagno. La porta sbatté, segno che la signora era di fretta.

“Carmel?” chiamò Sensi, dopo qualche minuto. I rumori che venivano dal bagno tendevano al raccapricciante. Sensi doveva ammettere che avrebbe fatto a meno di sentirli, tutto considerato. Il suo forse-amore non era preparato a quella prova di corporeità.

Dal bagno provenne un gemito. Poi si sentì lo sciacquone e il rumore dell’acqua che scorreva nel lavandino. Alla fine Carmel riemerse, con la faccia pallida e sudata.

“Fino a un istante fa stavo bene,” borbottò, barcollando verso il divano. Sensi le fece un po’ di posto accanto a lui. “Che coppia di moribondi,” disse, accarezzandole la pancia.

Carmel si limitò a rannicchiarsi contro di lui, con la testa appoggiata sul suo braccio. Chiuse gli occhi.

“Non dovevi raccontarme una storia?” mormorò.

“Vuoi che lo faccia ora?” chiese lui, continuando ad accarezzarla. Così rannicchiata assomigliava a una bimba. Una bimba con delle gambe lunghissime, ma non per questo meno innocente.

Sensi fu quasi sul punto di dirle che era innamorato di lei. Aprì la bocca… E poi Carmel si rialzò di scatto e corse di nuovo verso il bagno.

Dall’interno provennero dei rumori non meno raccapriccianti di quelli di prima. Questa volta Sensi si alzò. Gli sembrò che qualcuno gli spaccasse la testa in due con un colpo d’accetta. Barcollò leggermente e si avvicinò alla porta.

“Carmel? Vuoi che chiami la guardia medica?”

Dall’interno provenne il rumore dello sciacquone.

“No… no. È meglio se vado a casa,” rispose debolmente lei.

“Ti accompagno,” si offrì Sensi. Il carnefice invisibile che si stava accanendo contro la sua testa sferrò un altro colpo. Il ginocchio che già gli faceva male diede un’altra fitta.

Carmel uscì dal bagno.

“No, stai male. Ce la faccio,” disse, andando verso le proprie scarpe.

“Almeno lascia che ti chiami un taxi,” disse, vagamente sollevato.

Carmel fece un cenno di assenso con la mano e Sensi iniziò a cercare il numero sull’elenco.

Mentre aspettavano il taxi, Carmel corse in bagno un’altra volta e il mal di testa di Sensi aumentò ancora.

Poi, non appena Carmel se ne fu andata, iniziò ad alleviarsi, senza però scomparire del tutto.

In quanto a Carmel, quando arrivò a casa si accorse di stare di nuovo bene.

giovedì 8 luglio 2010

Lividi - 11

Alla fine fu la Riu ad andare a prendere Miriam. Convocata nell’antro scuro di Sensi, aveva dovuto ammettere che le compagne di classe confermavano le ipotesi del commissario e delle insegnanti. Miriam aveva un “brutto carattere”, litigava facilmente e in varie occasioni aveva fatto a botte con altre ragazze, qualche volta anche con dei ragazzi.

Sensi aveva ricevuto la Riu in un ufficio completamente in ombra, lamentandosi di un dolore sordo dietro l’occhio destro. La Riu gli aveva fatto notare che il suo stile di vita insalubre gli stava presentando il conto.

Stile di vita insalubre o meno, quando l’ispettrice tornò con la ragazza il dolore non se n’era ancora andato. Sensi credeva fermamente nella farmacologia e aveva già preso un’aspirina e un sinflex, ma senza trarne nessun giovamento.

Miriam non sembrava preoccupata, al massimo sembrava leggermente incazzata.

Sensi la invitò a sedersi dove meglio credeva, senza accendere la luce.

“Ma si è rotta la lampadina?” chiese lei, spostando senza tante cerimonie una pila di fascicoli e buttandola per terra.

“Ho un dolore dietro l’occhio, la luce mi infastidisce” spiegò Sensi. “Ti ho chiamata per informarti che picchiare la gente è reato,” aggiunse, voltando la poltroncina verso di lei.

Miriam si mise a ridere. “Oh, fantastico! Quindi adesso mi dirai che il tuo sbirro ha fatto bene a provarci!”

“No, penso che abbia fatto malissimo, ma in una certa misura gliel’hai già spiegato tu. Non mi riferivo a Mainardi, lo sai.”

“Be’, tanto per essere chiari, il tuo amichetto ha provato a toccarmi le tette. Potrei anche denunciarlo, lo sai?”

“Sì, okay, denuncialo,” disse Sensi, che non sembrava particolarmente colpito.

“Come se qualcuno gli facesse qualcosa. Perché, a quelli che hanno pistato i manifestanti a Genova gli hanno fatto qualcosa?”

Il dolore dietro l’occhio di Sensi si stava estendendo, lentamente ma inesorabilmente, anche all’altro occhio.

“Ripeto: mi riferivo agli altri episodi. Vuoi denunciare Mainardi perché non ha provato a toccarti le tette? Accomodati. Non mi interessa. Ora possiamo parlare delle risse con le altre ragazze e delle botte che hai dato a tua madre?”

Miriam saltò in piedi. “Quella puttana! Te l’ha detto!”

Esattamente in quel momento a Sensi iniziò a far male anche un ginocchio. Provò a massaggiarselo al di sopra dei jeans aderenti e neri che costituivano il suo abbigliamento standard.

“Aveva dei lividi. In ogni caso… il tuo comportamento aggressivo ti mette automaticamente al primo posto nella lista dei sospetti per l’omicidio di Righi. Quel foglio lì è il tuo avviso di garanzia, ti arriverà a casa domattina. Qualcosa da dire?”

“Stronzo!” strillò Miriam e si catapultò verso di lui. Era una ragazza forte, atletica, e Sensi non dubitava che Mainardi avrebbe avuto i lividi per un pezzo. Le afferrò un braccio con una mano, glielo passò dietro la schiena e la bloccò contro la scrivania.

“Bastardo,” sibilò lei, cercando di divincolarsi. Smise quasi subito, vedendo che non otteneva niente.

“Devi sempre mettere in conto che ci può essere qualcuno più forte di te, fisico debilitato dallo stile di vita insalubre oppure no.”

“Figlio di puttana, lasciami.”

“Tra un istante.”

“Lasciami o dirò che mi hai molestata!”

“Dillo. C’è un’ispettrice di polizia che sta guardando dalla serratura, tanto perché tu lo sappia.”

“Me ne fotto dell’ispettrice! Hai il cazzo duro, lo sento! Questa è una molestia!”

“No, questa è un’allucinazione, oppure è una menzogna. Spero per te che sia una menzogna. Ora ti lascerò, se prometti di sederti di nuovo su quella sedia e di non provare più a fare la wrestler.”

“Bastardo…” singhiozzò Miriam. “Mi stai facendo male, mi stai molestando, vuoi stuprarmi.”

“No,” ribadì Sensi, che tra il dolore alla testa e quello al ginocchio non avrebbe potuto stuprare nessuno neanche volendo. “Sto per lasciarti, va bene?”

“No!” singhiozzò lei.

“Piangi?” chiese Sensi, allentando leggermente la stretta.

“Bastardo…” ripeté lei.

“Che cosa succede?” domandò Sensi, allentando ancora un po’ la stretta.

“Bastardo, me l’hai messo dentro… non se n’è accorto nessuno, non mi aiuterà nessuno, non mi crederà… nessuno.”

La porta si aprì e la Riu accese la luce. A Sensi sembrò che qualcuno gli avesse accoltellato entrambi gli occhi. La lampadina sul soffitto tremolò leggermente, come se fosse stupita che qualcuno, dopo averla ignorata per anni, ora pretendesse che funzionasse.

“Signore,” disse la Riu.

Miriam sgusciò via dalla stretta ormai lasca di Sensi e si buttò verso di lei. La Riu sobbalzò e fece involontariamente un passo in dietro, ma la ragazza si limitò ad abbracciarla e a singhiozzare sopra la sua spalla. La Riu guardò Sensi, che si stava massaggiando le tempie come se sperasse di scacciare così il mal di testa.

“Ispettrice, che cosa facciamo?” chiese, con voce fiacca.

La Riu accarezzò la testa della ragazza. L’accarezzò un po’ troppo forte, come se non sapesse bene come si faceva. “Ho chiamato un’ambulanza,” disse. Poi si rivolse a Miriam, che continuava a singhiozzare contro la sua spalla. “Credo che dovresti andare in ospedale, Miriam.”

Lei alzò gli occhi su di lei, occhi pieni di lacrime e sinceri. “Mi ha violentata,” singhiozzò.

“Cristo d’un Dio,” borbottò Sensi, lasciandosi cadere sulla su una sedia.

“Tesoro, ora andiamo in ospedale, ok?” disse la Riu.

“Voglio che mi esaminino. Così vedranno che mi ha violentata.”

La Riu le accarezzò di nuovo la testa. “Shh… andrà tutto bene, ok? L’ambulanza sarà qua a minuti.”

E, per una volta, l’ambulanza fu lì a minuti davvero. Due paramedici entrarono nell’ufficio di Sensi e scortarono via Miriam, seguiti dall’ispettrice Riu.

Sensi era intimamente sollevato per non aver dovuto firmare un ricovero coatto, specialmente perché non aveva idea di dove fosse il modulo per richiederlo.

A parte questa lieve sensazione di sollievo, tutto il resto era una completa merda.

mercoledì 7 luglio 2010

Lividi - 10

Mainardi ricomparve spontaneamente verso le tre del pomeriggio, con la camicia spiegazzata e l’espressione contrariata.

“Stavamo per chiamare le squadre di ricerca,” lo raggiunse la voce di Sensi, beffarda, non appena mise piede nel proprio ufficio. Era seduto tranquillamente sopra la scrivania della Riu e lo guardava con un mezzo sorriso.

“Ah, capo, che cosa…”

“Visto che è scomparso per circa quattro ore con una minore, sa com’è.”

Mainardi arrossì bruscamente.

“Spero che almeno abbia un’idea precisa di dove si trovi Miriam Rossetti, perché dovrà andarla a riprendere.”

L’altro aprì la bocca senza emettere un suono. “Credo che sia tornata a casa,” disse, alla fine. Poi si sedette sulla sedia della sua scrivania come se le gambe lo avessero piantato in asso. “Credo di aver fatto un casino, capo.”

Sensi scivolò giù e si andò a sedere di fronte a lui. “Fino a che punto, Mainardi?” chiese, semplicemente.

Mainardi scosse la testa.

“Facciamo così… io le espongo la mia ricostruzione dei fatti, lei annuisce se ci azzecco. Si può fare?”

Mainardi annuì.

“La ragazza era molto disinvolta. Diciamo pure che lei ha pensato che stava flirtando. Diciamo pure che la ragazza flirtava. Palesemente.”

Mainardi annuì.

“Da vero coglione – questa è la definizione ufficiale che useremo da adesso in poi – lei ha pensato di portarsela a letto.”

La testa di Mainardi ondeggiò lateralmente, né negando del tutto né ammettendo del tutto l’accaduto.

“Con la larvale idea di portarsela a letto, e visto che la macchinetta del caffè aveva dato forfait, da vero coglione l’ha invitata a prendere un caffè al bar. Non mi sono spinto a chiedere informazioni qua all’angolo, ma credo che se lo facessi Romeo mi confermerebbe la cosa senza esitazioni.”

Mainardi, abbattuto, annuì.

“A questo punto entriamo nel campo delle ipotesi più spinte. Ha portato la ragazza da qualche parte. Visto che è un vero coglione, probabilmente si trattava di un luogo appartato, visto che non è così coglione voglio sperare che non fosse il suo appartamento.”

Di nuovo Mainardi annuì, sempre senza guardarlo.

“Miriam sembrava il ritratto dell’assoluta disponibilità.”

Altro cenno d’assenso.

“Lei ci ha provato.”

Movimento basculante.

“Lei ha iniziato a provarci, ma poi si è fatto prendere dagli scrupoli perché la ragazza è minorenne.”

Un unico movimento secco di assenso.

“La ragazza, anziché apprezzare la sua premura, si è incazzata come una biscia e, probabilmente, l’ha malmenata.”

Mainardi restò immobile.

“Mainardi?”

“Capo, quella ragazzina è una furia!” sbottò l’ispettore. “Mi ha preso a pugni, a calci, mi ha persino sputato!”

Sensi cercò disperatamente di non sorridere. “Capisco,” disse, coprendosi la bocca con una mano.

“Io a riprenderla non ci torno,” concluse l’ispettore, incrociando le braccia e puntando di nuovo lo sguardo a terra. “È una psicopatica.”

Sensi aspettò che l’altro tornasse a guardarlo.

“Sì,” disse.

martedì 6 luglio 2010

Lividi - 9

Sensi era confuso. Mentre parlava con Salvemini gli era venuto improvvisamente in mente qualcosa, un ricordo che col caso non c’entrava niente e che non voleva ricordare.

Ma l’aveva ricordato, e questo lo rendeva vagamente infelice.

Parcheggiò il wrangler sull’angolo di piazza Brin e si diresse lentamente verso il bar di Carmel. Nel corso del tempo, Carmel, per Sensi, era diventata una sorta di scrigno. Era uno scrigno trascurato, in cui ogni tanto lasciava cadere delle parti di sé che trovava difficoltose. Carmel non era particolarmente felice di essere diventata il ricettacolo delle mezze allusioni, dei ricordi incompleti e delle paturnie assortite di Sensi, ma non riusciva a farlo smettere, proprio come non riusciva a far smettere il suo corteggiamento a singhiozzo, fatto di coiti improvvisi e rarissimi momenti di reale contatto.

Quando entrò nel Bar Brin, Carmel si stava togliendo il grembiule, mentre suo fratello Santos si era già piazzato dietro il bancone per darle il cambio. A quell’ora del giorno, la mezza appena passata, i clienti erano pochi e un barista bastava e avanzava.

Sensi rimase in piedi, in silenzio, vicino all’ingresso, aspettando che Carmel lo vedesse. Non aveva voglia di parlare con Santos, di scambiare con lui facezie virili o chiacchiere sul quartiere. Non voleva che Santos gli offrisse una birra e lo coinvolgesse in una conversazione mono-direzionale sul campionato di calcio italiano.

Non era con lui che voleva parlare del fatto che, improvvisamente, gli era venuta in mente sua madre.

Alla fine Carmel lo vide. Alzò gli occhi al cielo, in silenzio anche lei, prese la borsa e lo raggiunse.

“Come un brutto pensiero,” commentò, passandogli accanto per uscire. Sensi le si affiancò.

“Ero venuto a chiedere scusa, credo,” disse.

Carmel rise. “E de cosa? Te lo ricordi, almeno?”

Sensi si strinse nelle spalle. “Allora diciamo che volevo vederti.”

“Ma non te domandi mai se io voglio vedere te?” replicò lei, allungando il passo. Sensi aveva l’impressione che non sapesse neanche lei dove stava andando, che volesse solo allontanarsi da lui. Il fatto che si stesse allontanando in direzione della sua macchina probabilmente era solo un caso.

All’improvviso si sentì stanco. Si fermò e si sedette su una delle panchine della piazza, messa in ombra solo parzialmente da un alberello piantato da poco.

Carmel continuò a camminare per qualche metro, poi si voltò, lo guardò un istante e tornò indietro. Si fermò davanti a lui, con una mano su un fianco.

“Non lo so,” disse Sensi, chiudendosi le ginocchia tra le braccia come un adolescente in crisi. “Faccio già fatica a capire che cosa voglio io.”

“Manno, non puoi spuntare ogni volta che sei in crisi o che hai voglia de tener sexo.”

Sensi sorrise controvoglia. “Be’, in questo momento non ho voglia di tener sexo, come dici tu. Avevo semplicemente voglia di vederti.”

Carmel si sedette accanto a lui, con la borsa sopra le gambe. “E così eccoce qua. Sei in crisi.”

Sensi sbuffò.

“Ma siccome non puoi ametterlo, cercherai di convincerme a scopare, così il tuo cattivo umore desaparirà par magia da qualche parte tra le mie cosce, no?”

“Sembra incredibilmente facile,” ammise lui.

“È incredibelmente stupido, Manno.”

“Le cose facili lo sono spesso. Senti, volevo solo vederti, non possiamo limitarci a questo?”

“Porque, volevi vedermi, quindi?”

Sensi si voltò verso di lei e la guardò in silenzio per un po’. Carmel ricambiò lo sguardo accigliata.

“Non so. Perché sei bella?” sorrise lui.

“Non stiamo progredendo.”

“Forse, allora, perché mi sei… cara?”

Carmel si mise a ridere. “Excepcional! Se continui così presto me dirai che me vuoi bene!”

Sensi mise il broncio. “Sì, certo,” borbottò, irritato. “Uffa, certo che ti voglio bene. Non volevo parlare di questo.”

“Volevi parlare de te, ovviamente.”

“Be’, ecco…”

Carmel alzò un dito ammonitore e rise ancora. “Ma senza parlarne! Ingenioso!”

Si mise a ridere anche Sensi. Era quella la magia di Carmel, dopo tutto. Per quanto acuta e irritante potesse diventare, gli faceva sempre venir voglia di sorridere.

“Sai com’è, confidarsi con i baristi è un classico.”

“E che cos’è che dovevi confidarme?” non lo lasciò deviare il discorso lei.

Sensi smise di sorridere. “Una vecchia storia che mi è tornata in mente. Ma non te ne voglio parlare qua, su una panchina.”

“No, me ne vuoi parlare a letto, ovviamente.”

Lui inclinò la testa da un lato. “Non necessariamente. Diciamo che te ne parlerò stasera a cena? A casa mia? Alle otto e mezza?”

Carmel aprì la bocca per rispondere qualcosa, oltraggiata, ma Sensi glielo impedì allungandosi per baciarla. Carmel lo lasciò fare. Era difficile non lasciarlo fare, quando voleva davvero qualcosa. Per fortuna non succedeva quasi mai.

Quando il suo io più che trentenne gli disse che la limonata stava durando un po’ troppo a lungo senza che almeno uno dei due fosse adolescente, Sensi si staccò, sorrise, si alzò e si diresse verso la macchina.

Se solo fosse stato un pochino più attento avrebbe visto una donna ferma all’angolo della piazza, con i capelli rossi e gli occhi verdi e furenti come quelli di un gatto.

lunedì 5 luglio 2010

Lividi - 8

Mainardi era scomparso. Aveva interrogato Miriam Rossetti, la figlia del non-così-probabile malmenatore, era stato visto insieme a lei davanti alla macchinetta del caffè, guasta, e poi più niente.

“Il cellulare è spento,” comunicò Tudini, abbassando la cornetta del telefono della sua scrivania.

L’ispettrice Riu era appoggiata al muro con le braccia conserte e l’espressione torva. “Avevamo giusto bisogno di un altro latin lover, in squadra,” commentò, acida.

Sensi inarcò un sopracciglio. Nessuno l’aveva mai definito “latin lover”, forse perché aveva l’aspetto latino di uno svizzero o, per essere più precisi, di un transilvano.

“Ispettrice, lasci che le ricordi che Mainardi potrebbe essere in compagnia di una ragazzetta piuttosto pericolosa. Ha chiamato la scuola della Rossetti?”

L’ispettrice grugnì.

“E ci potrebbe cortesemente dire che cosa ha scoperto?”

La Riu strinse le labbra, segno che Sensi aveva avuto più ragione di quanto le facesse piacere ammettere. “Ha avuto diversi problemi di condotta. Le insegnanti la considerano imprevedibile e violenta, ma non sono riuscita a farmi raccontare un episodio specifico.”

“Vada a interrogare le compagne,” sospirò Sensi.

“In poche parole pensi che sia stata lei a picchiare la madre?” intervenne Tudini, con le spesse sopracciglia inarcate.

“E forse anche il padre,” disse Sensi. “Quei due sembrano conigli in trappola.”

Si stropicciò gli occhi e aggiunse: “Vai a sentire di nuovo i vicini di Righi, Tudini. Gli altri vicini, intendo. Cerca di capire in che rapporti fosse con la famiglia Rossetti.”

La Riu si staccò dal muro. “Non crederà che l’abbia ucciso la ragazza?”

“No. Ma ne sarebbe capace? Forse sì. Meglio controllare. Buon lavoro a tutti,” concluse, e scivolò fuori dalla stanza.

“E ha detto che cosa avrebbe fatto lui?” disse la Riu, roteando gli occhi.

Tudini sorrise. Non aveva bisogno di rispondere.

domenica 4 luglio 2010

Lividi - 7

Tudini lo stava aspettando al varco e questo era preoccupante. Se c’era qualcuno pronto a soprassedere sulle deficienze lavorative di Sensi questo, di solito, era Tudini.

“Abbiamo un problema con il signor Righi, Ermanno,” esordì, passandogli la lattina di Red Bull che avrebbe comunque iniziato a pretendere molto presto.

“Bene,” rispose Sensi, che non aveva idea di chi fosse il signor Righi, ma che apprezzava sempre un energy drink al mattino.

“Il signor Righi è il cadavere che hanno trovato a Fossitermi,” spiegò Tudini. “È anche un lontano parente del sindaco,” aggiunse.

“Quanto lontano?” si informò subito Sensi.

“Abbastanza. Un prozio da parte di padre, pare.”

“E il sindaco è diventato improvvisamente consapevole del bene che gli voleva, giusto?”

“Non credo che il sindaco voglia bene a qualcuno,” disse Tudini, con la sua agghiacciante mancanza di senso dell’umorismo, “forse alla città.”

Sensi diede una sorsata e inarcò un sopracciglio. “Dev’essere per questo che fanno concerti di musica disco in piazza del Bastione ogni due sere.”

“Questa mattina ha avuto un colloquio con il questore Salvemini,” andò al punto Tudini.

“E Salvemini, in seguito, ha avuto un colloquio con te, presumo.”

“Informalmente. Ne avrà uno con te tra cinque minuti, inoltre. Formalmente.”

Sensi sospirò. La pessima idea che aveva avuto la sera prima si era trasformata in una nottata da incubo intervallata da momenti gradevoli, ma non era pronto a vedere il questore.

Guardò distrattamente dalla parte dell’ascensore.

“Immagino che la Riu non abbia risolto il caso stanotte, vero?” chiese, tanto per sicurezza.

“La Riu ha passato la mattinata a interrogare un condomino. Sarà già una fortuna se il condomino non sporgerà denuncia.”

Le nubi già cupe che Sensi vedeva profilarsi all’orizzonte si fecero plumbee. Avrebbe piovuto (merda) sulla sua testa e avrebbe piovuto (merda) abbondantemente.

Tornò a guardare verso l’ascensore, ma ormai era troppo tardi. Le porte si stavano aprendo sulla figura massiccia del questore, fasciato in un abito color tortora che per qualche ragione lo rendeva ancora più massiccio.

Diede un’altra sorsata di Red Bull e gli andò incontro stoicamente.

“La stavo aspettando,” disse, con un veloce sorriso.

“È appena arrivato,” ribatté Salvemini, che non era diventato questore cadendo in trucchetti psicologici da due soldi.

Il sorriso di Sensi si allargò. “Questo significa che non mi lascia giocare in casa?” chiese, indicando col pollice la porta del suo ufficio. Salvemini detestava l’antro buio di Sensi. Detestava non riuscire a vedere in faccia il suo interlocutore e doversi incastrare tra il ciarpame che ingombrava ogni centimetro delle seggiole e della scrivania. E più di ogni altra cosa, Salvemini detestava avere la sensazione di essersi inoltrato in un territorio sconosciuto e ostile, che era esattamente la sensazione che provava ogni volta che metteva piede nell’ufficio di Sensi.

“Non ci vorrà molto,” disse, quindi, rientrando in ascensore. Il commissario lo seguì con la sua solita aria tranquilla e vagamente indisponente.

Salvemini gli fece strada fino alla gigantesca sala luminosa ed elegante dalla quale dirigeva il suo regno.

“Tudini le avrà detto che questa mattina ho ricevuto una telefonata dal sindaco,” andò velocemente al punto, sedendosi sulla sua poltrona di pelle naturale e allungando le mani sulla sua scrivania ampia e ordinata.

“Il signor Righi è un suo lontano parente, mi dicono.”

Sensi si era comodamente stravaccato su una delle poltroncine degli ospiti. Visto che le poltroncine dall’ineffabile design erano appositamente concepite per essere scomode, Salvemini ammirò in silenzio lo stile del suo sottoposto.

“Esatto. È inutile dire che il sindaco raccomanda una soluzione del caso veloce e pulita.”

“L’ispettrice Riu è alacremente al lavoro,” disse Sensi, col viso inespressivo.

“L’ispettrice Riu ha passato la mattinata torchiando un possibile colpevole di violenze domestiche,” rettificò Salvemini, “mentre l’ispettore Mainardi era pienamente avvinto nell’interrogatorio della figlia minorenne del suddetto sospetto.”

I baffetti grandi come mosche del questore quasi non si erano mossi. Ora si posarono ai lati della sua bocca come se fossero pronti a voler via al minimo impulso.

Sensi sorrise di nuovo. “Ovvero la reale perpetratrice delle violenze domestiche,” disse, in tono sicuro.

Salvemini aprì la bocca e la richiuse di scatto, dando l’impressione che i suoi baffi-mosca avessero fatto una falsa partenza.

“Lei sta tirando a indovinare, Sensi,” disse, alla fine.

“Sì, certo,” ammise l’altro, di buon grado.

“Anche supponendo che lei abbia ragione, qualcosa le fa supporre che la ragazza sia anche un’assassina?”

“No,” disse Sensi.

“Ma ha l’impressione che potrebbe esserla?” aggiunse il questore, con un’impercettibile punta di speranza.

“No,” ripeté Sensi.

Salvemini si passò una grossa mano sulla pelata scintillante. “E si è formato un’impressione di qualsiasi tipo su chi potrebbe essere l’assassino?”

Sensi stava per dire ancora una volta “no”, ma non lo fece. Invece aggrottò le sopracciglia e borbottò qualcosa che Salvemini non riuscì a comprendere.

“Cosa dice?”

Sensi scosse la testa. “Niente, questore. La terrò informato.” E, senza che Salvemini trovasse altro da chiedere, si alzò fluidamente dalla scomodissima seduta e si avviò verso l’uscita.

sabato 3 luglio 2010

Lividi - 6

Nella sua carriera di investigatore non-così-in-ascesa, Sensi aveva incontrato un certo numero di donne vittime di violenza domestica. In quel caso non tornava niente.

Il marito ingannevolmente gracile non era una prova conclusiva, ma la figlia palesemente sicura e sprezzante lo era. Quando un padre picchiava una madre, Sensi poteva testimoniarlo personalmente, i figli non erano mai sicuri di sé. I figli erano educati, silenziosi, mimetici.

Mentre la madre le prendeva dal marito, loro sviluppavano problemi di apprendimento, iniziavano a drogarsi o, semplicemente, facevano del loro meglio per essere perfetti.

La figlia dei Rossetti era il ritratto della salute. Era alta, tonica, probabilmente un’atleta di qualche tipo. L’autorità non la metteva in soggezione.

In una parola, non tornava.

Stava cercando di mettere a fuoco che cosa, con esattezza, non tornava, quando il suo cellulare riprese a suonare. Erano le dieci passate e stava finendo di consumare una cena non completamente scongelata nel suo sottotetto in vico Cerniai.

Sul display c’era scritto di nuovo “maestra tettona”.

Normalmente, Sensi era dell’idea che tagliare una relazione di netto fosse sempre la scelta preferibile. Non c’era niente che gli interessasse di Clara, tette a parte, e non era ansioso di avere un altro tête-à-tête con i suoi genitori.

Ma i casi di violenza coniugale, al contrario di quelli di omicidio, avevano il potere di deprimerlo.

Rispose.

La voce di Clara era molto meno incazzata di quello che si aspettava. Era gentile, quasi preoccupata.

“Oh, ciao, Ermanno. Ho provato a chiamarti anche prima e…”

“Ero al lavoro,” la interruppe lui, forse un po’ troppo seccamente.

“Ecco, appunto, volevo scusarmi… lo so che sei sempre reperibile e tutto il resto, sono stata davvero…”

“Non importa,” disse lui. Quindi Clara aveva deciso di illudersi che lui avesse avuto davvero un’emergenza di lavoro ed era arrivata alla logica conclusione di essere stata ingiusta…

“Ah, ok. Era solo per dire che, insomma, non volevo darti l’impressione…”

“…Di esserti incazzata? Be’, me l’hai data. Non lo trovo così irragionevole, visto che ho mollato a metà una cena con i tuoi.”

“Ma no, che cosa dici? I miei hanno capito benissimo! Anzi, mia madre mi ha fatto una lavata di testa che… ma io sono stata davvero pessima, scusa.”

“No problem.”

“E così pensavo… sarebbe tardi per venire a chiedere scusa di persona?”

Sensi sapeva benissimo che era un’idea del cazzo. Evidentemente Clara voleva avere una relazione. Probabilmente Clara voleva addirittura avere una relazione significativa. Sensi, d’altro canto, era semplicemente infatuato delle sue tette e se le sue tette se ne fossero andate in giro da sole per lui non avrebbe fatto nessuna differenza. Clara non gli ispirava pensieri romantici. Clara non gli ispirava alcun pensiero, solo risposte fisiologiche.

“No che non è tardi,” disse, consapevole del fatto che era una pessima idea.

venerdì 2 luglio 2010

Lividi - 5

L’ispettrice Riu sembrò stupita di vederlo comparire sulla scena di un crimine a quell’ora. “Credevo che dopo il calar del sole la sua giornata entrasse nel vivo,” commentò.

“Dopo il calar del sole è tutto molto più pericoloso di quel che pensa,” replicò Sensi, senza badarle. “Ora mi spieghi per quale motivo vuole interrogare di nuovo l’intero condominio.”

“La donna del 2b,” spiegò l’ispettrice.

“Esibisce qualche lampante segno di follia omicida?”

“Cerca di non esibire i lividi che ha sulla gola.”

Sensi sbuffò. “Ah,” disse.

“L’unità familiare è composta da lei, dal marito e da una figlia adolescente,” aggiunse la Riu. “Mi è stato detto che il marito sarebbe rientrato alle sette e mezza.”

Sensi diede un’occhiata all’orologio. “E perché ha lasciato passare più di un’ora?”

“Ho ri-interrogato gli altri condomini,” spiegò l’ispettrice, pazientemente.

“Allo scopo?”

“Seguire la procedura, signore.”

“Al reale scopo?”

“Tenere un po’ sulle spine il malmenatore. Il possibile malmenatore,” aggiunse, per correttezza.

“E magari vedere se nel frattempo malmenava anche la figlia?” ipotizzò Sensi.

La Riu strinse le labbra come quando era infastidita. Visto era che era infastidita molto di frequente cogliere il cambiamento d’espressione non era facile, ma Sensi aveva vari anni d’esperienza a suo vantaggio. La Riu aveva sicuramente stretto le labbra, segno che era più infastidita del solito.

“Mi permetto di far notare,” interloquì Mainardi, che fino a quel momento si era limitato ad ascoltare in silenzio, “che i problemi coniugali della coppia in questione esulano dall’indagine in corso.”

Sensi lo osservò per qualche istante con aria pensierosa. “Sa, Mainardi, quando al telefono le ho detto che venivo a rimediare alla sua scarsa professionalità credevo di dirlo solo per avere una buona scusa per svignarmela dalla cenetta coi suoceri.”

Mainardi, tutt’altro che offeso, si illuminò. “Ah, quindi doveva svignarsela da una cenetta coi… suoceri? Commissario, a me può dirlo… ha fatto qualcosa di irreparabile?”

“L’avrei fatto, se fossi rimasto lì ancora qualche minuto. Bene, andiamo a controllare il caso di violenza coniugale,” concluse.

Il suo cellulare cominciò a suonare.

Il display diceva: “maestra tettona”. Sensi rifiutò la chiamata.

L’appartamento 2b era esattamente sotto a quello dell’anziano deceduto. Aveva anche la stessa piantina, lo stesso tipo di mobilio e le pareti dello stesso colore. Quello che mancava, a occhio e croce, era il cadavere di un anziano e lo spazio vitale per almeno uno degli occupanti.

Visto che le stanze erano solo tre, Sensi immaginò che la figlia adolescente dormisse sul divano del salotto. Fu esattamente su quel divano che lui, Mainardi e la Riu vennero fatti accomodare da una padrona di casa decisamente in ansia, con addosso, notò Sensi, un maglione a collo alto.

“Quello che è successo al signor Gianni è terribile,” asserì, tentando di scarnificarsi un pollice con l’unghia dell’indice. Il signor Gianni era l’anziano deceduto, evidentemente.

“Era davvero un brav’uomo,” aggiunse il marito della signora, seduto accanto a lei sul bracciolo di una poltrona. Non aveva propriamente l’aspetto del bruto, pensò Sensi. Anzi, rispetto alla signora, che doveva pesare quasi un’ottantina di chili, sembrava decisamente fragile.

“Tu hai notato qualcosa?” chiese alla figlia adolescente, ignorando i genitori.

Era una ragazza di sedici-diciassette anni, più simile alla madre che al padre. Al contrario della madre non era in soprappeso, ma, pensò Sensi, la sarebbe diventata appena superati i trent’anni. Per il momento assomigliava a un’amazzone bionda e sprezzante – un’altra vittima di violenze domestiche improbabile.

“Non so,” disse l’amazzone con una scrollata di spalle. “Il signor Gianni non era in cima ai miei pensieri, no?”

“No?”

“Voglio dire, avrà avuto ottant’anni,” spiegò la ragazza, poco diplomaticamente.

“E lei, signor Rossetti?” chiese la Riu, che da quando era entrata non aveva distolto per un istante lo sguardo dall’emaciato pater familias.

L’uomo sembrò rimpicciolire. “Non saprei. Mi alzo presto, rientro tardi…”

“Lavoro?”

“Idraulico.”

“L’ultima volta in cui ha visto il deceduto?”

Il signor Rossetti ci pensò sul serio. “Due sere fa, credo. Ai bidoni della differenziata. Stava bene,” aggiunse, come se l’omicidio iniziasse a vedersi qualche giorno prima come il raffreddore.

“Signora?” chiese Sensi, interrompendo il fuoco di fila dell’ispettrice.

L’opera di scarnificazione del pollice della donna, nel frattempo, aveva prodotto il risultato sperato e vicino all’attaccatura dell’unghia ora c’era una gocciolina di sangue. “Credo di averlo visto questa mattina intorno alle nove. Il signor Gianni andava sempre a fare la spesa al mercato di buon’ora, con l’autobus… l’ho incontrato mentre saliva le scale. Io stavo scendendo, abbiamo scambiato… due parole,” concluse la signora, con voce spezzata. “Gli ho detto qualcosa sul fatto che era mattiniero… ha risposto che non dormiva molto, alla sua età.” Sembrava autenticamente sconvolta, pensò Sensi, il che non escludeva che l’avesse ucciso lei perché i suoi panni stavano gocciolando sulle mutande del marito.

Si alzò in piedi. “È necessario che domani vi presentiate tutti e tre in questura per registrare le deposizioni,” disse, ignorando l’occhiataccia della Riu. “Venite quando vi torna più comodo, saranno registrate separatamente.”

“Era il momento giusto per fare pressione su di lui!” disse la Riu, qualche minuto più tardi, mentre scendevano le scale.

Sensi scosse la testa.

“Mai provato ad aprire un’ostrica?” ribatté. “Stasera quei tre erano come un’ostrica. Domani potrà interrogare Rossetti finché vuole.”

“Domani i lividi sul collo di lei saranno scomparsi!”

Lo sguardo grigio di Sensi restò imperturbabile. L’ombra rossa che gli attraversò gli occhi doveva essere sicuramente uno scherzo della luce.

“Domani, se è fortunata, ce ne saranno di nuovi,” concluse.

giovedì 1 luglio 2010

Lividi - 4

Erano all’ultimo piano di un palazzo di piazza Verdi, il che escludeva le finestre come possibili vie di fuga. Il valore immobiliare dell’appartamento, aveva calcolato Sensi, doveva aggirarsi sul milione di euro, ma forse sottovalutava la metratura.

La sala in cui stavano cenando era larga almeno dieci metri, il tavolo, coperto da una candida tovaglia di lino ricamato, almeno otto, e i suoi coglioni, presi singolarmente, almeno due. Di diametro.

La madre di Clara era una signora sulla sessantina dai capelli albicocca, dalla pelle luminosa e curiosamente priva di rughe e dall’abbigliamento casual-chic, ovvero così costoso da sembrare una cosa qualunque. Il padre di Clara dimostrava una settantina d’anni ben portati, aveva una rigida chioma grigio-ferro, un completo in giacca sartoriale ed era quasi sicuramente amico del questore. Probabilmente andavano in barca a vela insieme.

“E così, commissario, da dove ha detto che viene?” stava chiedendo la madre di Clara.

Lo chiamava “commissario” in continuazione.

Sensi smise di accanirsi contro il gamberone che aveva nel piatto e sorrise vacuamente.

“Gorizia,” rispose, limitandosi all’essenziale.

“Oh, non ci siamo mai stati, vero, Sandro?”

Il padre di Clara annuì e si diede a elencare con fervore ogni città vagamente vicina a Gorizia in cui lui e la moglie avessero mai messo piede. Erano parecchie, pensò Sensi, spostando da un lato il gamberone e dedicandosi all’insalata.

“E così, come ha deciso di arruolarsi in polizia, commissario?” interloquì la madre di Clara. Tendeva anche a cominciare tutte le frasi con “e così”, notò Sensi.

“Mio padre era un figlio di puttana,” spiegò, in tono conversevole.

“Oh,” disse la madre di Clara, ridacchiando imbarazzata.

“Un vero stronzo,” perseverò Sensi, continuando a brucare tranquillo la sua insalata.

Clara gli tirò un calcio sotto al tavolo. “Ma quale famiglia non ha i suoi difetti?”

La madre di Clara gli lanciò un sorrisetto raggelante. Sensi sperava che l’indagine sulle sue origini fosse finita e che lei e il marito avrebbero ripreso a conversare dei colleghi di lui o dell’estetista di lei. Clara lo guardava ancora male, tra l’altro, segno che, se fosse sopravvissuto alla cena coi suoi (e subito prima di mollarla), probabilmente non gli sarebbe stata data la possibilità di fraternizzare un’ultima volta con le sue gigantesche tette.

“E così,” riprese la signora, decidendo chiaramente di ignorare l’espressione torva di Sensi, “da quanto tempo, insomma, vi frequentate?”

Sensi fu tentato di rispondere che lui e Clara non si “frequentavano”, “scopavano” solo, ma la sua indesiderata fiancéè si rese conto che era meglio precederlo e cinguettò: “Oh, solo da qualche settimana.”

Secondo Sensi doveva trattarsi di meno di una settimana, in tutto sei o sette rapporti sessuali, ma si astenne da qualsiasi precisazione.

“Sembrate molto affiatati,” affermò, inspiegabilmente, la madre.

“È perché sua figlia ha delle tette gigantesche,” stava per rispondere Sensi, ma Clara gli tirò un calcio preventivo al di sotto del tavolo. Sensi si limitò a sorridere vacuamente.

“È molto giovane, per essere un dirigente di polizia, commissario,” fece notare, quindi, la signora. Suo marito si limitava ad annuire distrattamente, una tecnica che Sensi aveva utilizzato a sua volta in più occasioni, l’ultima volta con esiti disastrosi.

“Grazie per il giovane,” sospirò, mentre Clara gli tirava un altro calcio, tanto per sicurezza.

Doveva assolutamente scappare da quella casa, da quella sala e da quella gente. Forse l’appartamento non era così in alto. Forse poteva sopravvivere a una caduta dall’ultimo piano. C’erano casi documentati di persone che si erano buttate dal quarto piano e si erano solo rotte qualche osso.

“E così,” esclamò la madre, “la mia bambina si è fidanzata con un dirigente di polizia!”

“E così,” ripeté Sensi, intontito, “la sua bambina si è fidanzata con un dirigente di polizia.”

Forse era un incubo. Forse era nel suo letto e stava dormendo. Forse si era addormentato con Carmel e ora stava facendo un sogno raccapricciante. Forse il suo telefono si sarebbe messo a squillare e lui si sarebbe svegliato. E accanto a lui ci sarebbe stata una donna in relazione alla quale nessuno aveva mai utilizzato il termine “fidanzata”.

Socchiuse gli occhi, colpito da un pensiero improvviso.

“E ho l’impressione che la sua carriera non sia finita qua…” stava profetizzando, la madre. “Mio marito è un buon amico del questore e…”

Sensi registrò distrattamente la conferma ai suoi precedenti sospetti, mentre riaccendeva il cellulare.

Riu, salvami, pregò, disperato. Questo è il momento ideale per farmi notare che sono un dirigente di polizia di merda e che mi sono allontanato dal luogo di un ritrovamento.

Il cellulare lo salutò con una serie di biip. Messaggi. Eccellente.

“Ehm, temo che mi abbia cercato qualcuno,” disse Sensi, con aria fintamente contrita. Iniziò a esaminare i messaggi. Riu. Riu. Riu. Riu. Mainardi.

“Devo fare una telefonata,” si scusò. “Uno dei miei uomini mi ha telefonato mentre il mio cellulare non prendeva.”

Si alzò dalla tavola e si allontanò di un paio di passi. La madre di Clara lo fissava con attenzione, probabilmente subodorando un trucco.

“Mainardi? Mi ha chiamato?”

Mainardi parve immensamente sollevato. “Capo! Sia ringraziato il cielo! La Riu ha deciso di continuare a oltranza! Vuole interrogare di nuovo i vicini! Dice che non dobbiamo lasciare la scena del crimine finché non abbiamo concluso gli accertamenti! La prego, le spieghi che questo è il momento migliore per andarcene!”

Sensi non si lasciò commuovere. Era un caso disperato: o lui o Mainardi.

“Ispettore, starà scherzando!” rispose, in tono stentoreo e autoritario. “È ovvio che non può lasciare la scena del crimine prima del termine degli accertamenti. Per questa volta fingerò di non averla sentita.”

“Capo? Si sente bene?”

“Mai stato peggio. Si renda conto che a causa della sua sciatteria sarò costretto a lasciare una piacevole cena con i genitori della mia fidanzata e a venire a rimediare alla sua scarsa professionalità.”

Dopo di che chiuse seccamente il cellulare e si voltò verso la tavolata con in faccia quello che sperava assomigliasse a un fiero cipiglio. “È incredibile!” esclamò. “Sono costernato, ma devo lasciarvi.”

Poi, senza controllare che la sua affermazione fossa stata presa per buona da tutti i presenti, raccolse la giacca e iniziò a spostarsi verso l’uscita.

“Ma Ermanno!” balzò in piedi, Clara, con espressione non ancora arrabbiata ma certamente sospettosa.

“Mi dispiace tanto,” mentì lui, senza alcun rimorso. “È un’emergenza.”

Soltanto qualche ora prima avrebbe definito il caso una “bassissima priorità”, ma adesso “emergenza” suonava decisamente meglio. Si scusò con i genitori di Clara e sfrecciò verso la porta.

Sfortunatamente Clara lo seguì.

“Ermanno, non penserai che io mi beva…” iniziò, abbandonando completamente l’aria dolce che aveva sfoggiato per tutta la sera.

Sensi poteva non essere un poliziotto particolarmente brillante, ma sul versante ragazze inferocite aveva maturato un certo numero di ore di esperienza.

La sua risposta standard era sorridere e svanire, un metodo che fino a quel momento gli aveva dato molte soddisfazioni. In quel caso fu tentato di utilizzare un altro sistema, qualcosa di leggermente più evoluto e meno meschino. Qualcosa che arricchisse entrambi sul piano personale.

Qualcosa come: “Hai delle tette fantastiche, ma dei genitori raccapriccianti.”

“Non mi aspetto che tu ti beva niente,” spiegò, invece, mentre già correva giù per le imponenti scale di marmo.

Evitò di aggiungere che, dopo sei o sette rapporti sessuali, ne aveva le prove.

Lividi - 3

Mainardi e la Riu non erano fatti per collaborare. Sarebbe bastato guardare come condividevano il loro ufficio in questura per rendersi conto che non erano compatibili. Mainardi aveva sulla scrivania oggetti di ogni tipo, tranne quelli che gli potevano essere utili: un fermacarte fatto come il casco di Darth Vader, una pallina antistress, la Gazzetta dello Sport, dei chewing-gum e, nascosto in un cassetto, un calendario di Belen Rodriguez. La scrivania della Riu a Sensi aveva sempre fatto venire in mente la “terrificante simmetria” della poesia di Blake. Ogni oggetto era perfettamente allineato e utile per il lavoro dell’ispettrice: una matita dalla punta così affilata da poter essere usata come arma, un paio di bic rigorosamente nere, una gomma Staedtler immacolata, un righello e un paio di pinzette da filatelico.

Durante l’inchiesta sulla morte dell’anziano ucciso con un ferro da stiro, la Riu, pur essendo parigrado a Mainardi, assunse immediatamente il controllo delle indagini. Interrogò scrupolosamente i vicini, mentre Mainardi prendeva appunti, parlò col medico legale e tentò incessantemente di mettersi in contatto con il capo, non perché le servisse davvero il suo aiuto, ma perché che se ne fosse andato, semplicemente, non era giusto.

Il telefono del capo era staccato.

Verso le sette Mainardi propose di andarsene a casa.

“Siamo in servizio, Roberto. Non ci si aspetta che dei poliziotti in servizio lascino la scena di un crimine prima che gli accertamenti siano conclusi,” rispose lei, inflessibile.

“Veramente credo che sia esattamente quello che il capo si aspetta da noi,” precisò lui, non prima di aver sospirato. Perché Sensi non c’era mai quando serviva?

“E poi voglio interrogare di nuovo la famiglia del secondo piano,” aggiunse la Riu, che non sembrava né stanca né demotivata.

Mainardi si attaccò al cellulare, sperando che Sensi lo liberasse da quella tortura, ma il capo aveva ancora il telefono spento.