lunedì 26 ottobre 2009

Clamidia - 39

Si risvegliò sentendo il suono di una voce femminile.

“Carmel?” biascicò, come uno scemo. Quella voce, ovviamente, non era di Carmel. La buona notizia era che, quantomeno, non era più su una barca, a meno che non fosse una barca magnificamente immobile.

Socchiuse gli occhi e ne ebbe conferma. Era sdraiato per terra, su un moletto della Guardia di Finanza. Il cielo era color indaco, screziato di nuvole bianche.

“Il suo telefono, signore,” disse, di nuovo, la voce femminile, e questa volta Sensi la identificò subito come quella della Riu.

Si frugò in tasca e tirò fuori il cellulare.

“Sì?” mormorò, con voce impastata, tirandosi a sedere.

“Caro collega!” gli giunse la voce gutturale di Schneider. “Abbiamo arrestato la ragazza del Voigt! Per essere ucciso la giovane Hannele!”

“Ah. Bene.”

“Io la ringraziavo, caro collega, per sue importanti indicazioni! E le auguravo ottima fortuna per suo caso di Mafia!”

“Io non… credo che l’abbiamo risolto, Polizeiobermeister, grazie.”

“Bene! Bene molto! Io ora la saluto, sì? Grazie ancora per aiuto!”

“Di niente,” biascicò Sensi. Gli sembrava di avere lo stomaco in bocca.

“Quando lei torna a Berlino passi a salutare! Noi mettiamo foto sul muro!”

“Che bello…”

“Bene! Arrivederci, dunque!”

Schneider concluse la telefonata e Sensi si rimise il cellulare in tasca. La Riu lo guardava con sguardo inquisitivo.

Sensi si rialzò lentamente.

“Sa quel caso di clamidia?” disse, spolverandosi le ginocchia. “Sembra che i nostri colleghi tedeschi l’abbiano risolto con successo.”

“Scusi, ma la clamidia non è una malattia venerea?”

“Certamente. E a quanto pare anche l’omicidio.”

Poi Sensi si avviò barcollando verso il cancelletto che dava sul molo Italia, eliminando dalla sua mente Hannele, i ladri e anche la voce della Riu.

Attraversò i giardini pubblici e risalì lentamente via Prione. Iniziava a essere affollata di teen-ager e c’erano ormoni impazziti che schizzavano da tutte le parti. Sensi camminò fino in piazza Brin. Camminò visto che non aveva idea di dove avessero portato la sua macchina e camminò per schiarirsi le idee.

Nel Bar Brin le luci erano accese, da dentro proveniva una tenue musica latino-americana e il rumore di una partita di calcio.

Sensi entrò e si andò a sedere su uno sgabello, al bancone.

Carmel si voltò e lo guardò senza dire niente.

“Sai il molo del Porto Mirabello?” disse Sensi. “Ci sono stato, non è niente di eccezionale.”

Carmel si limitò a continuare a guardarlo.

“E sono proprio uno stronzo,” aggiunse, allora, lui.

FINE.


venerdì 23 ottobre 2009

Clamidia - 38

Sensi stava per vomitare. Non capiva perché erano dovuti salire sulla seconda lancia della Guardia di Finanza e gettarsi all’inseguimento dell’Arsenio anche loro.

La lancia sussultava paurosamente, come se ogni onda che incrociavano desse un pugno sotto la chiglia. Sensi, aggrappato con entrambe le mani al parapetto, era verdastro.

“Fatemi scendere…” implorò, a bassa voce. La Riu, che era accanto a lui in equilibrio perfetto senza bisogno di sorreggersi da nessuna parte, gli tirò una gomitata nelle costole per invitarlo al silenzio.

Sensi si piegò fuori bordo e vomitò.

“Quel Mars era il mio unico pranzo in due giorni…” si lamentò, risollevandosi. Poi si chinò di nuovo e vomitò un po’ di acidi gastrici.

“Li hanno quasi raggiunti, signore,” lo informò la Riu.

Sensi provò a guardare.

Davanti a loro l’Arsenio creava una doppia scia bianca nel mare cupo del tramonto. Immediatamente dietro, la lancia grigia della Guardia di Finanza gli era quasi addosso, a sirene spiegate..

“Fermate immediatamente quest’imbarcazione!” disse una voce, da un altoparlante.

“È quello che dico anch’io,” borbottò Sensi, aggrappandosi disperatamente al parapetto.

Dall’Arsenio provenne un colpo di pistola, che passò sibilando sopra la prima lancia e si conficcò senza danni subito sotto il bordo del parapetto della barca in cui erano Sensi e i suoi uomini.

“Merda,” disse la Riu, estraendo l’arma di ordinanza.

“Ispettrice, non faccia pazzie,” protestò debolmente Sensi.

“Ma ci stanno sparando!”

“Sì, me ne sono accorto. Stanno già rispondendo i finanzieri là davanti.”

In effetti dalla prima lancia si erano levati alcuni colpi di pistola.

“Sono troppo lontani!”

Sensi soffocò un altro conato di vomito. “Se sono troppo lontani loro, figuriamoci noi. E poi, senza offesa, lei ha una mira di merda.”

La Riu aggrottò la fronte, un po’ offesa. Lei si esercitava diligentemente al poligono ogni mese, la sua mira era più che decente.

“Allora spari lei!” ribatté, inacidita. Bisognava ammettere che almeno una cosa quell’uomo inutile la sapeva fare, ed era usare una pistola. Non che si fosse sforzato per ottenere quel risultato, era semplicemente uno dei molti doni che la natura aveva distribuito senza pensare.

“Fossi scemo. Non mi convincerà a staccarmi da questo coso. Potrei essere sbalzato in mare.”

“Non mi dica che non sa nuotare!”

“Non è che non so nuotare, è che galleggio male… va be’, forse potrei sdraiarmi lì davanti, se qualcuno mi tiene per i piedi.”

Nel frattempo vari proiettili continuavano a passare sopra le loro teste. Sensi non era preoccupato di questo: erano alti e imprecisi, e chiaramente i ladri avevano una mira anche più merdosa di quella della Riu. Quello che lo preoccupava era di finire in mare. Non era un tipo marino.

L’ispettrice gli staccò una ad una le dita dal parapetto e lo portò quasi di peso verso prua. Sensi cadde senza grazia in ginocchio, poi si lasciò scivolare con la pancia sulla coperta.

“Okay… qualcuno può dirmi che cosa dovrei colpire?” chiese, cercando di far aderire la guancia alla vetroresina bianca del ponte. Gli schizzi d’acqua gli avevano già bagnato i capelli e il suo nuovo ruolo da polena non gli piaceva per niente.

“Becchi uno qualsiasi di quei tizi!” propose Mainardi, entusiasta. Era praticamente cementato a un giubbotto di salvataggio.

“Sarebbe meglio se sparasse alla barra del timone, signore,” intervenne un finanziere.

Sensi tirò fuori la pistola ed esplose un colpo. “Sarebbe quello?” chiese.

Il finanziere fece una strana espressione. “No, signore. Quello è il mezzo-marinaio. Il timone è quella sorta di cloche un po’ più a destra… no, ora c’è davanti un uomo…”

“Così va bene?” chiese Sensi, sparando di nuovo.

“Non proprio, signore. Anche se credo che il radar gli servisse. No, è quell’oggetto… assomiglia a un joystick.”

“Poteva dirlo subito, no?” si lamentò Sensi, e sparò ancora. “Per favore… adesso mi fate scendere?”

La Riu lo aiutò a tornare a poppa, mentre l’Arsenio, davanti a loro, abbassava i giri del motore e, ormai senza possibilità di manovra, si arrendeva ai finanzieri.

Un paio di barchette da diporto, nelle vicinanze, iniziarono ad avvicinarsi per assistere alla scena.

L’ultima cosa che Sensi vide fu, in lontananza, una tizia tettona in un minuscolo bikini che saltellava eccitata sopra a una barca.

Chissà come fa a non cadere, si chiese, mentre il suo campo visivo diventava nero.

Clamidia - 37

Gila Hoffmann non aveva esattamente opposto resistenza all’arresto, quando Baumann e la Vogel le avevano detto di sapere che era stata lei a uccidere Hannele Sculte. Ma era fatta come un babbuino, e convincerla camminare si rivelò quasi subito un problema.

Era così fatta che purtroppo anche tutte le sue dichiarazioni di colpevolezza al processo non sarebbero state ritenute valide. Baumann e la Vogel non provarono nemmeno a registrarle, era fatica sprecata.

“So che è stata lei… come mai aveva di nuovo la sua medaglietta, altrimenti?”

“Quale medaglietta?” chiese Baumann, stancamente. “Dovrebbe proprio cercare di alzarsi, signorina.”

“Quella che le aveva dato lui, no? Ying e Yang.”

“Forse voleva dire Yin e Yang,” commentò Baumann, cercando di tirarla in piedi.

“Se l’era ripresa… me lo ricordo. Ma poi ce l’aveva di nuovo… era proprio quella, ma gliel’aveva presa Gunter!”

“Se adesso potesse venire con noi alla macchina…”

“Quella puttana! Gunter era mio… mio…”

“Mi creda, la sua confessione spontanea mi riempie di gioia, ma sarebbe meglio se la rilasciasse durante un interrogatorio formale. Forza, si alzi.”

Alla fine riuscirono a scortarla alla macchina.

Gila continuò a biascicare insulti contro la Sculte ancora per qualche minuto, poi si addormentò sul sedile posteriore.

Sembrava una bambina con l’influenza.

mercoledì 21 ottobre 2009

Clamidia - 36

Sensi masticava alacremente una barretta di Mars, mentre Mainardi cercava di avanzare nel traffico di Viale Italia. L’alone bianco si era trasformato di nuovo in puntini e anche l’aria condizionata aiutava.

La Riu era sulla sua macchina e aveva già allertato i rinforzi.

Sensi detestava ammetterlo, ma per una volta il fatto che fosse una velista pazza si era rivelato utile. Il bar era il Bar Luonge Twami, e era nel nuovo Porto Mirabello, cosa che ovviamente la Riu sapeva.

Sensi non ricordava con esattezza che cosa ci fosse stato prima dell’imponente complesso turistico ancora in via di costruzione. Probabilmente una lingua di terra brulla.

Per una volta la maggioranza della cittadinanza era stata d’accordo con lui nel sostenere che una lingua di terra brulla era molto più gradevole di un enorme porticciolo turistico, ma ovviamente il porticciolo si era fatto lo stesso.

Sensi c’era stato, una sera, con Carmel, ovviamente prima che Carmel iniziasse a tirargli contro i bicchieri e a gridare che lo odiava.

Era l’inizio dell’estate e lei aveva insistito per andare a vedere la nuova meraviglia cittadina. Avevano lasciato la macchina all’inizio di Viale Amendola e avevano proseguito a piedi lungo la strada che portava al porto.

La strada costeggiava il Lagora, il canale artificiale che scorreva, limaccioso e puzzolente, sotto il muro di cinta dell’arsenale militare. Sensi aveva passeggiato con un braccio sopra le spalle nude di Carmel, piuttosto soddisfatto.

Certo, la strada non finiva più. E, certo, dal Lagora provenivano degli strani rumori umidi. Carmel, nell’acqua scura, aveva avvistato due topi e una biscia e Sensi aveva prudentemente cambiato lato, visto che non si vergognava ad ammettere che Carmel, riguardo agli animali acquatici, era molto più coraggiosa di lui.

Poi c’era anche l’odore di fogna, che non era gradevolissimo. E poi, ovviamente, c’era che Sensi avrebbe voluto semplicemente planare in un letto con Carmel sopra, piuttosto che passeggiare in prossimità di animaletti acquatici ributtanti con Carmel come unico scudo.

Comunque avevano passeggiato. Alla fine della strada si apriva un bel parcheggio, circondato da costruzioni di cemento ancora da completare.

Sensi aveva rimpianto ancora una volta la vecchia lingua di terra brulla, quella che non aveva mai visto.

Lui e Carmel avevano attraversato il parcheggio. I tacchi di lei facevano un rumore piacevole sull’asfalto, Sensi lo ricordava perfettamente.

Uffa, Sensi si ricordava perfettamente che anche tutto il resto era di lei era piacevole. Si prese un appunto mentale di andare a strisciare per chiederle perdono.

Mainardi, nel frattempo, era riuscito ad arrivare in prossimità dell’imbocco della strada.

“Entriamo con la macchina, capo?” chiese.

“Assolutamente sì. Ci sono creature striscianti della palude, in quel canale.”

Mainardi superò il punto di guardia senza che nessuno gli chiedesse niente e proseguì fino al parcheggio, con la macchina della Riu dietro.

“Un solo punto d’accesso,” borbottò. “Forse non sono così furbi.”

“Mainardi?” disse Sensi. “Hai notato che davanti a noi c’è quella cosa chiamata mare?”

“Embé?”

“Niente, io la considererei una possibile via di fuga, non so tu.”

“Merda.”

Lasciarono la macchina alla fine del parcheggio. Sensi ricordava perfettamente che la volta precedente era arrivato fin lì guidato dall’assordante musica da discoteca. Il Twami, un piccolo bar con cannicciata, emetteva musica come se fosse un night di Riccione, ma era semi-deserto.

Lui e Carmel l’avevano superato per andare a passeggiare sul molo affollato di barche lussuose, ma non li avevano fatti entrare. Due tizi della sicurezza, antipatici come merde, gli avevano detto che potevano accedere solo quelli che avevano lo yacht ormeggiato lì.

Sensi avrebbe voluto protestare, ma Carmel l’aveva tirato via.

Adesso precedette Mainardi verso il molo, eroicamente incurante dei puntini bianchi che continuavano a ballargli davanti agli occhi.

“Signori, non si può entrare. Vedete, c’è scritto su quel cartello,” disse, quasi immediatamente, uno dei due tizi in divisa blu, all’ingresso.

“Qua, invece, c’è scritto che possiamo entrare,” rispose Sensi, mettendogli il distintivo a un centimetro da naso. “Ci serve una barca arrivata quattro o cinque giorni fa, con a bordo almeno quattro uomini tra i trenta e i quarantacinque,” aggiunse, senza provare nemmeno a farla sembrare una richiesta.

I due sorveglianti si lanciarono un’occhiata. “Non avete bisogno di un mandato?”

“Per parlare con un sospetto? Non esageriamo.”

I due ripeterono la faccenda dell’occhiata tra loro. “Okay, dovrebbe essere l’Arsenio, quella barca bianca e blu.”

Sensi scosse la testa, divertito. “Che sobrietà,” commentò, “non ci hanno nemmeno aggiunto il Lupin, eh? Riu, proceda.”

L’ispettrice, che era comparsa accanto a loro qualche secondo prima, si mosse verso la barca in questione come un carroarmato.

Era l’ultima di una fila di yacht di piccola stazza, se si potevano considerare di piccola stazza delle barche più lunghe dell’appartamento di Sensi.

Mentre la Riu si avvicinava un uomo comparve in coperta, sbucando dalle cuccette. Se Sensi non aveva un’aria particolarmente poliziesca, la Riu e Mainardi avevano praticamente scritto “sbirro” in fronte.

L’uomo si mosse con velocità sorprendente. Accese il motore e sciolse la cima che teneva la barca legata al pontile, poi saltò come un capriolo verso prua, dove sciolse anche l’altra cima.

“Presto!” gridò, e un’altra testa emerse nel pozzetto.

“Riu, si sbrighi!” sbraitò Sensi, iniziando a correre. Non che fosse del tutto sicuro che, una volta arrivato alla fine del molo avrebbe avuto il coraggio di saltare nel vuoto per salire sulla barca dei ladri.

La Riu si era messa a correre a sua volta, ma non era molto veloce, anche perché aveva le gambe corte. Sensi la raggiunse quasi subito e la superò a lunghe falcate.

Quando arrivò in fondo, la barca dei ladri era già decisamente lontana dal molo, almeno tre metri e mezzo, il che lo metteva nella gradevole posizione di non dover dare prova di eroismo.

La Riu si fermò accanto a lui ansimando e pochi secondi più tardi arrivò anche Mainardi.

“Vede quello che vedo io, ispettrice?” chiese Sensi, osservando l’Arsenio che se ne andava.

“Intende la riga tra le chiappe di quel tizio?”

“Pensavo di avere un’allucinazione. Mi conferma che ci stanno mostrando il culo, quindi?”

“Sì, signore.”

Sensi fece una pausa, prendendo fiato. “Lei che conosce bene il regolamento, dice che sarebbe contestabile se gli sparassi esattamente nel buco del culo?”

“Temo di sì, signore. Ma ho già allertato la Guardia di Finanza. Se permette, ora li richiamo e gli chiedo di arrestare quei quattro stronzi.”

“Lei, oggi, ha un’idea migliore dell’altra.”

Clamidia - 35

Schneider aveva chiamato Baumann e gli aveva riferito il contenuto della telefonata con Sensi. Baumann non era sembrato entusiasta. Non avevano prove, aveva detto.

La verità era che non si fidava dell’italiano. Schneider non riusciva a dargli torto: come fidasi di un tizio con quei baffetti inquietanti?

In ogni caso gli aveva ordinato di approfondire la questione.

Baumann aveva guardato la Vogel e le aveva riferito tutto.

La Vogel aveva fatto una strana smorfia.

“Ecco che cos’era che non mi tornava,” aveva detto. “Gila ha parlato della Sculte al passato. Ma come faceva a sapere che era morta?”

martedì 20 ottobre 2009

Clamidia - 34

Schneider riuscì a telefonare proprio mentre la segretaria più racchia e timida del mondo stava iniziando a spiegare di essere stata lei a dare la macchina ai ladri.

“Scusi per telefonare,” esordì il Polizeiobermeister.

“In effetti sono un po’ occupato,” rispose Sensi, mentre Mainardi lo guardava incuriosito, la Riu seccata e la segretaria terrorizzata. “Ma faremo presto. Mi sono informato sul conto di questo Voigt. Pare che nell’ambiente fosse ben conosciuto. Un vero pezzo di merda. Hannele, per un periodo, è stata una delle sue ragazze.”

“Ah, come lei sa?”

“Non me lo chieda e non le racconterò delle palle. Ma penso che potrebbe essere stata lei a ucciderlo, o forse sapeva chi era stato. Non saprei dirle perché, ma propendo per la prima ipotesi. Ora tutto quello che vi resta da fare è trovare qualcuno che avesse un motivo per vendicare Voigt. Se fossi in voi partirei dai dintorni della stazione dello zoo.”

“Fraulein Sculte è stata vista là!” esclamò Schneider, sorpresissimo.

“Già. Chissà dove voleva andare. Chissà chi le aveva chiesto di andarci. La saluto, Polizeiobermeister. Mi tenga informato.”

“Santo cielo…” mormorò la segretaria, non appena Sensi concluse la telefonata. Evidentemente non aveva avuto alcun problema a seguire la conversazione.

Sensi le sorrise. “Non si tratta di un caso locale,” provò a tranquillizzarla. “Ci stava dicendo di essere stata lei a noleggiare l’auto.”

“Sì,” disse lei, con un filo di voce. “Erano due uomini… hanno semplicemente chiesto una macchina cinque posti. Gli ho elencato le auto disponibili.”

“Tra cui la Brava.”

La segretaria annuì timidamente.

“Le hanno fatto domande sul colore?”

“Sì, commissario… ma lo fanno tutti.”

Sensi si stropicciò gli occhi. Iniziava a vedere dei puntini bianchi per la stanchezza.

“Capisco. Le hanno chiesto altro?”

“Niente di insolito, mi dispiace. Gli ho spiegato le condizioni di utilizzo e gli ho dato una delle nostre mappe della città. Hanno ringraziato. Poi gli ho mostrato la vettura.”

Sensi si appoggiò con una mano sullo schienale di una sedia. “Le dispiace se mi siedo un attimo?” chiese.

“Capo, stai bene?” disse Mainardi.

“Vedo dei puntolini bianchi,” rispose Sensi, fiaccamente.

“Hai mangiato?”

“Non negli ultimi due giorni, se escludiamo tè e Red Bull. Perché, tu sì?”

Mainardi deglutì. “Be’, sì. Ma ti vado a comprare qualcosa da mangiare. Ho visto un bar, un po’ più in giù.”

“Signore!” esclamò la segretaria. Probabilmente riteneva di aver parlato a voce molto alta, ma era stato poco più di un sussurro. “Mi è appena venuto in mente qualcosa! Uno dei due aveva un sacchetto… ci ho pensato per via del bar…”

A Sensi girava mortalmente la testa, ma cercò di metterla a fuoco. “Sì?” la incoraggiò. Poi aggiunse: “Mainardi, vammi a prendere della cioccolata. Qualsiasi tipo di cioccolata. Basta che non sia bianca.”

“Vedo se ne trovo al gusto pipistrello, tranquillo,” borbottò Mainardi, e uscì di fretta.

“Mi stava dicendo?” chiese Sensi alla segretaria. I puntini bianchi erano diventati una sorta di alone.

Lei si aggiustò gli occhialetti sul naso appuntito. “Aveva un sacchetto di carta. C’era sopra il logo di un bar, solo che non mi ricordo… dunque, il caffè era Bonanni, di questo sono sicura…”

“Chiuda gli occhi, si concentri.”

La segretaria gli lanciò un’occhiata allarmata, ma poi finì per provarci. Sensi ne approfittò per chiudere gli occhi anche lui.

“Sì, c’era un ovale arancione… “bar” era scritto in rosso, con un carattere strano… “bar luonge”, di questo sono sicura. E poi un nome tipo Twiggy, Twiga, Twisty…”

Anche a Sensi quel logo diceva qualcosa, ma non riusciva assolutamente a ricordare che cosa.

La segretaria riaprì gli occhi e scosse la testa. “Mi dispiace. È il meglio che riesco a fare.”

Anche Sensi riaprì gli occhi. “Non si preoccupi, è stata bravissima. E probabilmente non ci avrebbe aiutato molto. Non credo che questi tizi vivano in un bar, dopo tutto.”

L’ispettrice Riu, dietro le sue spalle, emise un grugnito.

“Io so cos’è,” disse.

lunedì 19 ottobre 2009

Clamidia - 33

La sede dell’autonoleggio era su viale San Bartolomeo, un’arteria trafficata che scorreva dietro al porto mercantile della città. Mainardi e la Riu, in piedi fuori dalla porta, si potevano così intrattenere osservando le alte gru in perpetuo movimento dietro la recinzione, l’occasionale vagone tir che passava sulla linea ferroviaria e il traffico ingorgato delle sei e mezza di sera sul viale.

Sempre meglio, avevano deciso, che sopportare l’incessante fiume di parole del signor Cursi, il proprietario dell’autonoleggio.

Erano lì che guardavano scorrere – o meglio, muoversi a passo d’uomo – il traffico e la Riu stava per richiamare il commissario, quando Mainardi fischiò tra i denti.

Scivolando agilmente tra le altre macchine, una Porsche Carrera color argento si era fermata silenziosamente davanti a loro.

La portiera del guidatore si aprì e scese il commissario.

“Capo!” balbettò Mainardi, che era abituato a vederlo sulla sua jeep wrangler nera al punto di non poterlo più immaginare alla guida di nient’altro.

Si aprì anche la portiera del passeggero e scese una tizia alta un chilometro e mezzo, con dei pantaloni di vinile neri praticamente pornografici e un caschetto nero che incorniciava un viso all’altezza del corpo.

“C-capo…” ripeté Mainardi, che apparentemente non era più in grado di controllare i muscoli della mascella.

“Mi hanno rimosso la macchina,” disse Sensi, irritato, come se quella fosse una spiegazione. Poi si voltò verso la stangona. “Se dopo il cavalcavia giri a sinistra, imbocchi direttamente l’autostrada.”

“Ok,” disse lei, accanto al sedile del guidatore.

“E grazie del passaggio.”

Mainardi osservò attonito quell’incredibile figa che sorrideva, strizzava l’occhio e diceva: “De nada. Ci vediamo.”

Poi si chinò leggermente sul commissario (coi tacchi era almeno cinque centimetri più alta) e gli diede un bacino sulle labbra. Smac, fecero quelle labbra rosse e Mainardi iniziò a vacillare.

Un istante più tardi era risalita in macchina e la macchina era stata risucchiata dal traffico.

“Capo, ti prego, dimmi che quella è la tua nuova ragazza!” strillò Mainardi, muovano convulsamente le braccia. Sensi inclinò la testa e osservò per qualche secondo un maschio italiano medio al culmine del suo patetismo.

“No,” si limitò a rispondere, netto e freddo. “Ti ho già detto che hanno rimosso la mia cazzo di macchina? A tradimento? Sotto casa mia?”

Mainardi si ricompose. “Sì, capo.”

“Quando ho parcheggiato non c’era neanche un cartello di divieto.”

“A volte lo fanno,” ammise Mainardi, a cui della jeep del capo non poteva fregare di meno. Quello che voleva sapere veramente era come avesse fatto a conoscere quella tizia, a farsi baciare da lei e, Mainardi ammise a malincuore, probabilmente anche a portarsela a letto.

“La piazza sembra un cimitero. Vuota. Vorrei solo sapere quale altro intrattenimento hanno intenzione di propinarci stasera, per aver dovuto rimuovere tutte le macchine.”

“C’è una serata di musica dance,” si intromise la Riu, palesemente seccata. “Adesso, se non vi dispiace, sarebbe il caso di rientrare.”

“Capo, ti avviso che il signor Cursi chiacchiera che è un piacere,” si sentì in dovere di dire Mainardi. Sapeva che quando il capo era di umore nero – ossia quasi sempre – poteva diventare decisamente intollerante.

“Fantastico,” borbottò, infatti, Sensi. “Direi che questa giornata è iniziata di merda e finirà di merda, se solo mi ricordassi quando cazzo è iniziata la giornata.”

L’interno dell’autonoleggio era così austero da essere spartano. Il pavimento era coperto dalla moquette grigia più sottile che Sensi avesse mai visto. Il bancone era di truciolare bianco, così come bianche erano le pareti.

Dietro il bancone c’era un ometto sulla cinquantina che sorrideva come se avesse appena vinto al superenalotto.

“Buonasera! Lei dev’essere il commissario Sensi!” esclamò, al settimo cielo.

“Lo sono,” rispose Sensi, gelido. “Mi fa dare un’occhiata all’auto che ha noleggiato ai ladri?”

L’autonoleggiatore quasi si strozzò, e perse momentaneamente il buon umore.

“Certo, da questa parte,” disse, serio, quasi funebre. Gli fece strada attraverso gli uffici interni, anche loro bianchi e tristi, fino alla porta posteriore. Qua, in un cortiletto di cemento, erano parcheggiate diverse vetture. “Quella bianca,” disse l’autonoleggiatore, indicando l’unica macchina bianca del gruppo.

Era una Fiat Brava, perfettamente pulita. L’adesivo dell’autonoleggio era al suo posto.

“Siamo sicuri che fosse questa?” chiese Sensi alla Riu.

“Ragionevolmente, signore. La descrizione dei due uomini che l’hanno noleggiata combacia, il modello combacia, i giorni in cui è stata fuori sono quelli dei furti.”

“La targa?”

“La nostra!” disse l’autonoleggiatore. Era così eccitato che saltellava quasi. “Sicuramente l’hanno sostituita per i colpi. Ho osservato che una delle viti è nuova, e prima non la era!”

Sensi lo guardò per qualche secondo. “Lei è molto scrupoloso,” commentò, sempre piuttosto freddamente.

“Mettetela sotto sequestro,” aggiunse, poi. “Fate venire i tecnici delle impronte.” Fece una smorfia. “Ma non troveremo niente. Adesso, signor Cursi, potrebbe farci vedere la documentazione relativa a questo noleggio?”

“Certamente! Da questa parte! La mia segretaria vi mostrerà tutto!” E Cursi saltellò di nuovo all’interno.

Sensi sospirò.

“E… ispettrice?” disse, a denti stretti. “Bel lavoro.”

Clamidia - 32

Baumann era stanco e disgustato. Avevano parlato con Gila Hoffmann, se quella si poteva definire una conversazione. A Baumann era sembrato di cercare di far parlare un manichino. Non che Gila non volesse collaborare, ma era intontita, come se si fosse appena fatta. E probabilmente era così.

Non aveva mai visto Hannele, o forse sì, non se lo ricordava.

Voigt era fondamentalmente la sua anima gemella, o questo era quello che biascicava quando glielo chiedevano.

Certo, non era un tipo semplice. A volte si arrabbiava. Ma aveva avuto un’infanzia tanto difficile…

Baumann quella parte sull’infanzia difficile la detestava.

“Come se tutti quelli che hanno avuto un’infanzia difficile poi fossero diventati dei porci fatti e finiti,” disse alla Vogel, mentre tornavano in ufficio.

“Almeno una parte non è sopravvissuta per raccontarlo,” fu la sua risposta sibillina, e Baumann decise di lasciar cadere l’argomento.

“In ogni caso è chiaro che questa ragazza non ci può aiutare. È una drogata.”

“Già.”

“Quello che non capisco è come ha potuto stare con un tipo come Voigt. Non si rendeva conto che era un… che non era una brava persona?”

“Immagino che fosse meglio che non avere nessuno.”

“Sono certo che la faceva battere.”

La Vogel sorrise appena. “Oh, se è per questo credo che gliene abbia fatte di tutti i colori. Uno che campa schiavizzando delle ragazzine non è capace di amare nessuno. Ma immagino che Gila pensasse che gli abusi, le botte e tutto il resto significassero che a lei ci teneva.”

Neanche quelle interpretazioni psicologiche convincevano molto Baumann, ma evitò di dirlo. Secondo lui Gila era solo una prostituta tossica, che si era messa con un suo pari.

“Il fatto è che per ucciderlo avrebbe fatto la fila mezza Berlino. E non abbiamo ancora trovato una connessione con il caso Sculte, ammesso che ci sia.”

“Credi che il poliziotto italiano ci abbia messo volutamente fuori pista?”

Baumann scosse la testa.

“Non lo so. Sembra incredibile, ma non ha ancora fornito una spiegazione chiara sul perché fosse a Berlino e per quale motivo la vittima avesse il suo numero nelle ultime chiamate. E anche questo è incredibile, per come la vedo io.”

“Uno di noi dovrebbe andare in Italia e metterlo alle strette,” disse la Vogel, continuando a guidare.

A Baumann sembrò una proposta decisamente ardita, anche se non priva di senso.

Schneider ci ucciderà, quando glielo chiederemo,” sentenziò.

sabato 17 ottobre 2009

Clamidia - 31

Sensi si era addormentato. Anche Sonia si era addormentata, dopo aver puntato la sveglia alle sei. Quella notte lavorava.

Dormire accanto a Sensi non le dispiaceva. Era uno strano tipo, ma non si poteva dire che lei conoscesse molta gente normale.

La prima volta che l’aveva incontrato, anni prima, le aveva dato l’impressione di essere un amante ideale. Discreto, disinteressato, sufficientemente educato e abbastanza disinvolto da non essere un completo fallimento a letto.

Erano in un locale goth di Torino, durante una serata bondage. Sonia si era esibita sul palco come domina e aveva il resto della serata libera.

Non sapeva che Sensi fosse in una setta, né tanto meno sapeva che era un infiltrato. Non aveva idea di chi fosse.

L’aveva visto broccolare una tizia carina, ma non eccezionale. L’aveva osservato per qualche minuto sorseggiando in silenzio il suo drink analcolico. La tipa ci sarebbe stata, poteva dirlo da come rideva, da come si avvicinava per parlargli sopra il rumore della musica, da mille piccoli segnali corporei che Sonia decifrava per abitudine, senza nemmeno accorgersene.

Si era avvicinata a sua volta, aveva attaccato bottone.

Sensi l’aveva guardata con espressione perplessa, come se si chiedesse che cosa voleva davvero da lui. Più tardi lo aveva chiesto esplicitamente: che cosa ci faceva una come lei a letto con uno come lui?

L’aveva rivisto qualche altra volta, in giro.

Se frequentavi un certo ambiente finivi per rivederti, era inevitabile. Le avevano detto che era stato in una setta, che alla fine li aveva arrestati tutti. Le avevano detto anche altre cose, ma a quelle Sonia non ci credeva.

Ma poteva dormire con lui, se ne aveva voglia.

Sensi non avrebbe messo su famiglia, non sarebbe cambiato. Sarebbe sempre stato disponibile e, nello stesso tempo, non sarebbe mai stato disponibile per nessuno.

Conosceva altri uomini come lui, uomini sfuggenti, i suoi preferiti. Ma era stato lui a chiamarla, quella mattina, e così si era ricordata che erano anni che non cercava nessuno dei suoi amanti. Che erano anni che lavorava e basta, una notte dietro l’altra, una serata dietro l’altra, una convention dietro l’altra.

Così aveva preso la sua Porsche Carrera ed era andata. Cento chilometri scarsi, meno di un’ora.

Per fare sesso con qualcuno che non voleva essere frustato, non veniva mentre gli facevi un clistere e a cui non interessava leccarle i piedi per ore.

Uno nel cui letto poteva addormentarsi, perché non gli importava.

Letto singolo, ovviamente. Sonia ne conosceva diversi, di uomini a cui piaceva il sesso ma che dormivano in un letto singolo.

Erano perfetti per lei.

Dormiva tranquillamente accanto a lui, quando era stata svegliata da un rumore.

Non ebbe problemi a riconoscerlo come Lullaby dei Cure e non ebbe problemi a capire che era la suoneria di Ermanno.

“Il tuo telefono,” disse, senza aprire gli occhi.

Sensi grugnì. “Lo odio,” borbottò, alzandosi a sedere. Afferrò un cellulare piccolo e rosso dal comodino e si sdraiò di nuovo.

“Ispettrice,” rispose, “un giorno riuscirò a farla trasferire a Salerno.”

Sonia sentì che l’altra rispondeva, ma non fu in grado di capire le parole.

“Ah,” disse Sensi, dopo qualche secondo. “Sì, arrivo. Mi dia una mezz’ora.”

Si voltò verso di lei, chiudendo il telefono.

“Era la mia nemesi, devo andare al lavoro.”

Sonia si stiracchiò. “Devo andare anch’io. La mia sveglia sarebbe suonata tra cinque minuti.”

Sensi si allungò verso di lei, passandole un braccio dietro alle spalle e baciandole il lobo di un orecchio. “Quanto mi costerà questo pomeriggio, cara commercialista?” le sussurrò tra i capelli, divertito.

“Trecento sacchi, perché sei un amico,” rispose lei, ridendo.

“Immagino che non accetti bonifici.”

“Io credo solo nel contante.”

Sensi sospirò. “Allora passeremo al bancomat mentre vado alla macchina.”

Lei si alzò a sedere e recuperò i suoi minuscoli slip neri. Iniziò a infilarseli con gesti veloci.

“Hai visto le mie scarpe?”

“In salotto,” rispose lui. Era ancora steso sul letto e la guardava con un mezzo sorriso.

Sonia rise di nuovo. “Guarda che scherzavo, sui trecento sacchi.”

Sensi si alzò a sua volta e raccolse le sue scialbe mutande bianche. “Lo spero bene. Non fosse altro che per la possibilità unica di contrarre la clamidia per la prima volta nella tua vita.”

Lei si sporse verso di lui, con le magnifiche labbra rosse contratte in un sogghigno. “Ti ho fregato. Mi avresti dato trecento sacchi senza dire una parola.”

“Te ne avrei dato anche cinquecento, se è per questo. Sei così figa da far venire il mal di testa.”

Sonia rise ancora e finì di vestirsi a una velocità sovrumana. I pantaloni di vinile, evidentemente, erano molto più facili da mettere che da togliere.

Sensi pescò una maglietta dei Lacuna Coil quasi pulita e si allacciò gli anfibi, mentre lei si sistemava il trucco già perfetto allo specchio del salotto.

Fuori, il sole era a metà strada verso i monti, ma c’era ancora un caldo insopportabile.

“Dove hai parcheggiato?” chiese.

“In piazza Verdi.”

Sensi evitò di farle notare che lì, come le aveva detto non più tardi di quella mattina, il limite massimo di parcheggio era due ore. Immaginò che fosse abbastanza ricca da pagare la multa dell’ATC.

“Ti do uno strappo,” si offrì. Poi lo sguardo gli cadde su Piazza Beverini. Era recintata e deserta. Il parcheggio completamente vuoto.

Della sua jeep, ovviamente, non c’era traccia.

venerdì 16 ottobre 2009

Clamidia - 30

“Alla fine prenderemo questi ladri e sai perché?” stava dicendo l’ispettrice Riu a un Mainardi inebetito dal sonno, seduta dietro alla sua ordinatissima scrivania.

“Perché?” rispose, Mainardi, obbediente.

“Perché sono troppo furbi. E questo è quello che li fregherà. Pensa all’ultima rapina.”

Mainardi non aveva nessuna voglia di pensarci, ma fece lo stesso un gesto affermativo con la testa.

“Sono organizzati, questo è vero,” continuò l’altra. “Ma sono anche spericolati. Hanno capito che Carozzo si sarebbe allontanato il tempo sufficiente per scassinare la serratura e far entrare il quarto misterioso complice. Se avessero voluto essere sicuri che tutto filasse liscio l’avrebbero dovuto stordire e chiudere nel bagagliaio, invece…”

“Nel bagagliaio dovevano già metterci la cassaforte,” intervenne Mainardi, più per essere molesto che per vero interesse.

La Riu si accarezzò il mento. “Anche questo è vero. In ogni caso, per andare sul sicuro, avrebbero dovuto metterlo fuori gioco.”

“E poi sarebbe stata un’altra imputazione,” disse Mainardi.

L’ispettrice si strinse nelle spalle. “Hanno già un sequestro di persona. No, secondo me gli piaceva l’idea di farla sotto al naso a tutti. Ed è questo che li fregherà. Prendi la macchina…”

“Eh?” fece Mainardi. “Devo prendere…”

“Ma no! Volevo dire: la macchina è un altro buon esempio.”

“Ah.”

“Sono cinque ore che la cerchiamo in tutta la provincia. Niente. Non che mi aspettassi di trovarla intera, semplicemente abbandonata da qualche parte… ma almeno una carcassa incendiata avremmo dovuto trovarla.”

“Magari l’hanno buttata giù da un dirupo,” suggerì Mainardi, svogliatamente.

“Non credo. Troppo pericoloso. Qualcuno poteva vederli, la macchina poteva essere ritrovata subito per un caso fortuito…”

“E quindi?”

Dicono che normalmente la soglia d’attenzione media di una persona sia di venti minuti. La soglia normale di Mainardi era di venti secondi, quando aveva dormito. Quindi, quel pomeriggio, non ascoltava veramente la Riu, si limitava a fingere di farlo.

“E quindi secondo me se la sono tenuta.”

Mainardi la guardò con sguardo vuoto. “Se la sono tenuta.”

“Esatto. Hanno solo staccato gli adesivi della Lince e cambiato la targa. Quante macchine bianche vuoi che ci siano in città?”

“Non so,” rispose l’altro. “Dobbiamo contare anche i taxi?”

giovedì 15 ottobre 2009

Clamidia - 29

“Sei lo schiavo peggiore che io abbia mai avuto,” borbottò Sonia, con la testa appoggiata sulla sua spalla. Sensi sorrise pigramente.

“Non avresti dovuto perdere l’equilibrio.”

Erano incastrati nel letto singolo di lui e Sensi era vicinissimo ad addormentarsi. Si tratteneva perché sapeva che per qualche arcano motivo alle donne il sesso non metteva sonno, ma solo un’urgenza comunicativa insolita e crudele.

“Dovresti depilarti le ascelle,” disse, infatti, Sonia.

“Ma certo. E farmi le sopracciglia e sbiancarmi il buco del culo.”

Lei si mise a ridere. “Conosco gente che l’ha fatto davvero.”

“Tu conosci gente che ha fatto davvero ogni sorta di stronzata. Posso farti una domanda?”

Lei inarcò le sopracciglia, continuando a giocherellare con i suoi peli delle ascelle, segno che forse, tutto sommato, non erano così inguardabili. “Sarà una domanda profonda e inaspettata o qualcosa sulla linea del perché fai questo lavoro?”

“Sulla linea del perché fai questo lavoro. Se volevi una domanda profonda e inaspettata non dovevi scoparmi due volte. Le domande profonde e inaspettate mi riescono solo quando sto provando a fare il figo con una tipa che voglio portarmi a letto.”

Sonia si stiracchiò e si incastrò meglio contro di lui.

Posso permettermi un appartamento di duecento metri quadri e una Porsche è una buona risposta?”

“Certo che no. Anche fingendo che tu non abbia un cervello, solo con la carrozzeria potresti permetterti appartamento e macchina andando a sfilare per Roberto Cavalli senza bisogno di pisciare in faccia a nessuno.”

Lei rise. “Scommetto che non hai mai fatto pissing.”

“Lo ammetto. Ma il mio diretto superiore è Salvemini, quindi è un po’ la stessa cosa.” Sensi giocherellò con il piccolo diamante che lei aveva sull’orecchino all’ombelico. “No, quello che mi chiedo è… ti piace? Umiliare ciccioni per lavoro, intendo? Perché non fare la modella o che ne so?”

“Mh.” Lei si strinse nelle spalle. “Comunque ho fatto la modella, per un po’. Quando ero una ragazzina. Un mestiere di merda e meno redditizio di quanto si pensi. Per diventare davvero ricca sfondata facendo la modella devi… non so. Devi avere qualcosa che io non ho. Vedi, il mio viso…”

Sensi la guardò con espressione ironica.

“…manca di personalità. Così mi hanno detto. È troppo regolare, troppo cesellato. E non ho lo sguardo giusto.”

“Ma davvero.”

“E poi, a ben vedere, la carriere di una modella dura poco. Fino a trent’anni, se sei fortunata. Io ne ho trentacinque – anche se ovviamente lo negherò fino alla morte se interrogata in merito. Ho davanti ancora almeno quindici anni di carriera.”

Sensi si allungò fino a baciarle la punta di un capezzolo. “Sai che cosa sei, tu? Un commercialista. Hai l’anima nera di un commercialista.” Ridacchiò. “Santo cielo, sono stato scopato da un commercialista.”

“Proprio tu vieni a parlarmi di anima nera?”

“Touché.”

“E comunque erano anni che non scopavo con qualcuno. Dovresti essere soddisfatto.”

“Oh, credimi, lo sono. E, tra parentesi, non credo che tu non abbia personalità. Tu ne hai anche troppa.”

Lei sorrise quasi timidamente. “Il fatto è che voglio fare quello che mi pare. Non voglio qualcuno che mi dica se devo dimagrire, ingrassare, tingermi i capelli di biondo o tagliarmeli corti. Non voglio che qualcuno mi dia degli ordini.”

“Ma ti sei fatta cento chilometri per una scopata.”

“Credo che ora tu ti stia sopravvalutando un po’.”

Sensi sorrise. “Be’, io mi sono fatto milletrecento chilometri per farmi attaccare la clamidia.”

Lei si spostò una ciocca dei capelli corvini dietro un orecchio. Forse, dopo tutto, non era una parrucca. “E era una delle ragazze di Voigt?”

Lui la guardò in silenzio per un istante. I suoi piccoli occhi chiari e incassati accarezzarono pigramente il suo corpo privo di qualsiasi imperfezione, senza trovare un posto più bello degli altri dove fermarsi.

“Io credo che fosse la ragazza che ha ucciso Voigt,” disse, alla fine, lentamente. “Quello che non so è chi ha ucciso lei.”

mercoledì 14 ottobre 2009

Clamidia - 28

Frau Voigt era stata una bella donna, anche se visto il suo aspetto attuale era difficile crederlo. Gli zigomi alti erano crollati, gli occhi erano segnati, il fisico aveva ceduto un po’ ovunque e i radi capelli biondo ossigenato non aiutavano a darle un aspetto signorile.

Era andata ad aprire ai detective in ciabatte, infagottata in una tuta da ginnastica color lavanda.

Non li invitò a entrare. Si limitò a guardarli con gli occhi acquosi e infossati, come un cocker che aspetta un calcio.

Baumann le spiegò che la polizia aveva ripreso in mano il caso di suo figlio e che erano venuti a informarla della cosa. Le disse che avrebbero potuto esserci dei progressi, ma di non sperarci troppo.

Frau Voigt aveva l’espressione meno speranzosa che Baumann avesse mai visto. “Io so perché mio figlio è morto, Polizeioberkommisar,” disse. “È morto perché era una persona malvagia.”

Baumann rimase in silenzio.

“Si guadagnava da vivere in modo malvagio. Il male gli è tornato indietro, questo è tutto.”

“Il problema, signora, è che a quanto pare la questione non è chiusa. Abbiamo un altro omicidio e pare che ci sia un collegamento.”

Frau Voigt scosse la testa.

“Per molti anni ho pensato che ci fosse speranza per tutti, anche per lui. Ma quando è morto ho capito che non era così. Gunter era cattivo – forse è stata colpa mia, ma che cosa posso farci? Tutti sapevano che era una persona malvagia. L’unica a non rendersene conto era Gila. O forse lo sapeva anche lei, ma non aveva nient’altro.”

“La sua fidanzata?” chiese Baumann.

Frau Voigt fece una smorfia.

“La sua schiava,” lo corresse.

martedì 13 ottobre 2009

Clamidia - 27

Sensi era legato. Sul suo letto, come un pollo. I polsi erano stretti da due foulard di seta rossa e i nodi sembravano complicati e impossibili da sciogliere senza aiuto esterno.

Il film che scorreva nella sua testa era più o meno questo: la vicina del piano di sotto, l’orribile signora Vittori, sentiva delle urla disperate provenire dal suo appartamento. Inizialmente batteva sul soffitto con il manico della scopa per far cessare il rumore, ma poi si incuriosiva e andava a controllare. Dall’interno dell’appartamento il suo odiato vicino di casa la implorava di chiamare i pompieri. Dopo essersi goduta la sua agonia per almeno altri venti minuti, la signora Vittori eseguiva. I pompieri sfondavano la porta e lo trovavano, nudo come un verme, legato sul suo letto.

Sensi li guardava con aria seria e diceva: sono un commissario di polizia.

Non che la sua reputazione fosse adamantina, ma uno scenario del genere infastidiva persino lui.

“Sonia, sono pronto a sostenere che sei un’artista in qualsiasi tribunale,” provò a mentire vigliaccamente. Non aveva idea di come aveva fatto a cacciarsi in quella situazione, ma iniziava a volerne uscire.

Certo, quando lei lo aveva spogliato usando solo i denti e si era tolta anche la camicia, Sensi non era stato così convinto.

“Oh, e rilassati!” lo prese in giro Sonia, dandogli le spalle e tirando fuori qualcosa dalla borsetta.

“Credo che sia il momento giusto per confidarti che detesto il dolore fisico.”

Lei si voltò. Per fortuna non aveva in mano un frustino o qualcosa del genere, ma una semplice piuma.

“Bisogna vedere che cosa intendi per dolore,” disse, inarcando le sopracciglia.

“Tutto, compreso respirare. Mi dispiace, non sono il tuo cliente ideale.”

“Sciocchezze. Questo ti fa male?”

La piuma lo stava solleticando sul petto. Dietro alla piuma c’era il sorriso luciferino di lei.

“Non esattamente. Ma non mi attizza.” La piuma si spostò. “Ok, forse un pochino mi attizza, ma ho la clamidia. Sono infetto. Non hai detto che prendere malattie veneree non sarebbe professionale da parte tua?”

La piuma si spostò ancora. Quella donna aveva una mano inquietantemente delicata.

“Oh, non credo che mi attaccherai qualcosa.”

Sensi chiuse gli occhi. “Tanto perché tu lo sappia, sono contrario.”

“Sì, si vede.”

“Mi stai arrapando contro la mia volontà.”

“Mh-mh. Sono una ragazza prepotente, non te l’ho mai detto?”

“Sempre contro la mia volontà, potresti spostare quella piuma un po’ più in basso?”

La piuma scese un pochino.

“Credo di essere pronto a farmi prevaricare più fisicamente,” disse Sensi. “Ad esempio potresti prevaricarmi scopandomi. I preservativi sono in quel cassetto. Puoi prenderli senza il mio permesso e obbligarmi a guardarti mentre ti penetro a smorzacandela.”

Sonia fece uno strano rumore con le labbra. Il rumore suonava più o meno come uno “tsz-tsz”.

E quella piuma stava iniziando a diventare semplicemente insopportabile.

“E poi sono un democratico. Credo nella parità dei sessi,” provò a convincerla Sensi.

“È molto bello, da parte tua. È chiaro che gli uomini non hanno niente da guadagnarci, nella parità dei sessi.”

Sonia adesso era sopra di lui e gli teneva ferme le gambe con le ginocchia. Aveva ancora la maledetta piuma nella mano destra. Sensi notò che era fatta di gomma. Lei si tolse la fascia nera e cominciò ad usare la piuma su di sé.

Sensi strattonò i foulard che lo tenevano legato al letto. Chiaramente la seta era un materiale più resistente di quanto si pensasse comunemente.

“Ci provano tutti,” sorrise Sonia, iniziando ad abbassarsi gli slip. Ma si fermò a metà strada.

“È che non voglio farti lavorare. Siamo amici, non voglio approfittare di te.”

“Stai zitto e limitati a guardare.”

Sensi strizzò gli occhi. “Farò resistenza passiva. Come Gandhi.”

Lei si chinò su di lui e iniziò a descrivergli con dovizia di particolari tutto quello che stava facendo. Non erano termini adatti a una signora, per quel che poteva giudicare Sensi.

Riaprì gli occhi.

“Ti racconterò il mio ultimo caso di omicidio. Era una persona obesa morta da due settimane. E indossava dei bermuda kaki… hai sentito bene… kaki… e un reggiseno color carne… e dei gambaletti sempre color carne… credo che fossero per le vene varicose…”

La piuma lo sferzò sul petto.

“Ahi,” fece Sensi. Era più affilata del previsto.

“Non osare parlarmi di vene varicose!”

“E non ti ho ancora detto niente del suo appartamento. C’erano dei graziosi quadretti a punto croce dappertutto.”

Sonia lo schiaffeggiò.

“E pelo di gatto. Un po’ ovunque.”

Lei gli strizzò un capezzolo.

“Il gatto, poi, aveva rovesciato la sua sabbia. L’aveva rovesciata sulla moquette verde marcio dell’appartamento.”

Sonia iniziò a morderlo e lo schiaffeggiò ancora. Solo, questa volta, non in faccia.

“Cielo, se avessi visto come si abbinava divinamente con il divano color senape…”

“Sei uno stronzetto diabolico, te lo concedo.”

“Come, non ti interessa? Le tende erano a fiorellini rosa e gialli… avevano anche del pizzo sintetico, credo.”

Sonia lo colpì più forte sul petto, ma sfortunatamente, nel farlo, perse leggermente l’equilibrio. Sensi la intrappolò con le gambe.

“Secondo cassetto. Hai un modo solo per impedirmi di descriverti il suo bagno.”