mercoledì 30 settembre 2009

Clamidia - 11

Sensi si era chiuso a chiave dentro il suo ufficio. Questo, rifletteva Mainardi, non era mai un buon segno. Le ipotesi erano due: o era di umore così terribile che aveva deciso di mettere al sicuro gli altri dalla propria presenza (improbabile, il capo era sempre stato per la condivisione dell’infelicità) oppure stava facendo qualcosa di illegale/immorale/turpe. Probabilmente tutti e tre.
Forse guardava filmati porno su internet. Forse guardava filmati porno di minorenni su internet. Forse guardava filmati porno di minorenni su internet facendosi passare per il questore Salvemini.
Mainardi appiccicò l’orecchio alla porta.
Solo perché, se era in corso un crimine, lui, come tutore dell’ordine e della legalità, doveva saperlo.
Il capo stava parlando in inglese.
Stava parlando in inglese da solo o, più probabilmente, stava parlando in inglese al telefono.
Mainardi, che non capiva l’inglese e che aveva dei problemi anche quando doveva decidere se nel verbo avere ci voleva l’acca, rimase per un po’ affascinato ad ascoltare gli strani gargarismi del capo.
Poi, quando dal tono della voce fu certo che non si trattava di una conversazione porno, scollò l’orecchio e tornò nel suo ufficio.
Per fortuna la Riu, con cui divideva la stanza, era stata mandata a parlare con gli zingari del campo rom, un compito di merda se ce n’era uno, quindi poteva dedicarsi tranquillamente a una partitina a Uefa 2009.

Clamidia - 10

Schneider aveva capito chiaramente che il commissario Sensi della polizia italiana non gli voleva parlare. Non aveva risposto alla sua chiamata delle otto, non aveva risposto alla sua chiamata delle nove e ora, che era quasi mezzogiorno, continuava a non rispondere.
A meno che i poliziotti italiani non avessero l’abitudine di andare al lavoro in tarda mattinata (ah-ah!) era chiaro che questo Sensi lo evitava.
(Il cellulare di Sensi, abbandonato sulla sua scrivania, smise di vibrare e di emettere la sua lugubre musichetta, mentre il commissario sceglieva la bevanda desiderata al distributore automatico del secondo piano.)
Schneider decise che l’avrebbe rintracciato in un altro modo.
Ogni commissario, in Germania come in Italia, rispondeva a un questore, questo era un fatto. Ma il questore Salvemini, appurò pochi minuti più tardi, non era in sede.
Contrariato, Schneider decise di rivolgersi direttamente alla Procura della Repubblica.
Recuperò il numero di telefono del tribunale della Spezia e chiese di essere messo in contatto con un procuratore che lavorava con il commissario Sensi.
Qualche minuto più tardi gli fu passato un certo dottor Marini.
(Marini, che parlava inglese malissimo, iniziò a sudare nella sua camicia di poliestere.)
“Sì, buongiorno, sono il commissario Schneider,” disse Schneider, che si era preparato mentalmente un discorsetto. “Io preferirei parlare con commissario Sensi, ma forse lei sa dove è ubicato.”
Marini, nel panico, aveva capito soltanto “commissario Sensi”, ma non voleva darlo a intendere.
“Ees at a miiting,” sillabò nella cornetta. “For a rachett problem.”
“Racket?” ripeté Schneider, i cui limiti linguistici erano stati abbondantemente raggiunti.
Marini, nel panico, iniziò a sventolare una mano. “Mafia!” esclamò, nel suo miglior tono esplicativo.
“Ah-aaa!” fece Schneider, soddisfatto. Almeno ora non cercavano più di negare che si trattasse di un problema di natura mafiosa! Senz’altro questo Sensi stava riferendo ai suoi superiori e aveva pensato che fosse meglio non parlargli finché non decidevano la loro linea di condotta.
“Thank you very much indeed,” disse al dottor Marini.
Marini ci pensò un istante. “Naffing at ol!” rispose, felice di essersela cavata così bene.
Forse, rifletté, Sensi non era nemmeno l’immondo cialtrone che aveva sempre creduto. Chiaramente era in una grossa inchiesta.
Marini si prese l’appunto mentale di informarsi senza darlo a vedere durante la pausa pranzo.

martedì 29 settembre 2009

Clamidia - 9

Sensi si svegliò alle undici, sotto lo sguardo triste del suo fantasma. Verso le otto o le nove il suo cellulare aveva squillato, ma Sensi l’aveva ignorato. Se fosse stato qualcosa di davvero urgente, come il questore Salvemini che incrociava fuori dal suo ufficio o la terza guerra mondiale, l’avrebbero chiamato sul fisso.
Si fece una doccia e si mise una maglietta semi-pulita dei Joy Division. Il raffreddore andava un po’ meglio, gli sembrava, la clamidia era sempre uguale. Si spalmò diligentemente il pisello di pomata al mentolo e buttò giù una pastiglia di doxyciclina.
Nel tragitto dalla casa alla macchina perse un paio di litri di sudore, poi partì con l’aria condizionata al massimo, che glielo trasformò in una patina gelida in pochi istanti.
In questura, la Riu lo stava aspettando al varco.
“Signore,” iniziò, in tono sostenuto.
“Dica a Tudini di portarmi una Red Bull,” rispose Sensi, dribblandola e infilandosi nel suo ufficio. Il suo fantasma personale lo seguì docilmente passando attraverso la porta chiusa.
Qualche minuto più tardi la Riu ricomparve, con una Red Bull in mano. Era preoccupante che avesse deciso di assecondare i vizi del capo. Sensi controllò che la lattina fosse chiusa.
“Si accomod- ah, vedo che si è già accomodata. Hem, qual buon vent-“
“Signore, Marini, sa quella persona…”
“Conosco il procuratore,” la interruppe Sensi, anche se dire che lo conosceva era forzare un po’ la verità. Più che altro sapeva chi era, sapeva qual’era il suo lavoro e cercava di tenersene alla larga.
“Bene. Perché Marini insiste che la banda di ladri di gioielli sui quali stiamo indagando venga assicurata al più presto alla giustizia. Dice che la loro cattura infonderebbe un giusto senso di sicurezza nella popolazione. Fiducia nelle forze dell’ordine.”
“Quale delle vittime è sua parente?”
La Riu sospirò. “La signora Tebani, dell’ultima gioielleria. È sua zia. Ha avuto modo di dirmelo questa mattina, quando mi ha convocata…”
“Sa, ispettrice, in generale io non credo che dovremmo far dettare le nostre priorità dalla magistratura,” commentò Sensi. “Ma in questo caso, come titolare dell’inchiesta in discussione, si senta libera di farsi prevaricare come meglio crede.”
“Signore, credo che sia mio dovere informarla che è lei il titolare di questa inchiesta. Ha firmato le carte proprio ieri mattina.”
Sensi chiuse gli occhi. Perché la Riu riusciva sempre a inchiappettarlo?
Sospirò pesantemente. “Mi rendo conto che è il momento di prendere drastici provvedimenti,” affermò. Sollevò la cornetta del telefono e compose un numero.
“Mi passi il dottor Marini,” disse, poco dopo. “Sono il commissario Sensi. Sì, della squadra mobile.” Una piccola pausa. “Sì, quello vestito di nero.”
Il viso della Riu rimase inespressivo. Meticolosamente inespressivo, a parere di Sensi.
“Buongiorno. Sono il commissario… sì, esatto. In merito ai furti nelle gioiellerie dei quali ci stiamo occupando… ovviamente ce ne stiamo occupando. Con la massima solerzia. Abbiamo già interrogato una banda di rom.” Una piccola pausa. “Sì, l’ispettrice Riu non ne era ancora informata. Non dovrebbe rivolgersi ai miei sottoposti, quando può parlare con me.” Un’altra piccola pausa. “Si renderà conto che non posso essere disponibile 24/7 per il suo ufficio. Ventiquattro-sette. Sì, è un modo per dire ventiquattr’ore su ventiquattro sette giorni alla settimana, solo più veloce. Be’, sarebbe stato più veloce, se lei avesse conosciuto il termine. Comunque…”
Le sopracciglia della Riu stavano per schizzarle fuori dalla fronte, ma Sensi non si fermò.
“Chiaramente non abbiamo diffuso la notizia dell’interrogatorio dei rom. O vuole che si scateni un’ondata di xenofobia? Se ben ricordo il sindaco è appena intervenuto a un convegno sui diritti dei migranti… imbarazzante, sì, davvero. Vedo che capisce.”
Sensi ascoltò ancora per qualche istante il procuratore che parlava.
“Ma certo. L’ispettrice Riu verrà a riferire non appena formalizzeremo i nostri progressi. Sì. Mi scusi, ora, ho il dottor Giorgi in attesa sull’altra linea. Sa, per quell’inchiesta anti-racket. Ah, no? Allora faccia finta che non abbia detto niente. Arrivederci.”
Sensi lasciò cadere la cornetta del telefono tenendola in punta di dita, come se negli ultimi secondi avesse sviluppato un odore insopportabile.
“Signore…” iniziò la Riu, non appena lui tornò a guardarla.
“Menzogna, spero che padroneggi questa tecnica anche lei,” spiegò Sensi.
“Veramente, signore…”
“Ovviamente adesso dovrà andare a fare qualche domanda al campo rom. È inevitabile.”
La Riu inspirò profondamente. Espirò. Poi si alzò.
“Devo ammettere che questa volta è stato lei a fregarmi, signore,” disse.
Sensi le rivolse un sorriso pigro e soddisfatto.
“Tranne che qualcuno dovrà scoprire chi ha commesso veramente i furti, eh?” aggiunse l’ispettrice, mentre se ne andava.
Sensi imprecò tra i denti.
Che cazzo aspettava, quella donna, a fare il concorso per commissario? L’avrebbe vinto di sicuro e, con un po’ di fortuna, l’avrebbero spedita a Palermo.

lunedì 28 settembre 2009

Clamidia - 8

L’idea dell’autodistruzione gli sembrava troppo impegnativa, a quell’ora di notte, così tornò a casa, tallonato dal suo fantasma, e si mise a letto ancora vestito.

Si rivoltò per una mezz’ora sotto lo sguardo vacuo di Hannele, poi si alzò per prendere del sonnifero.

Immaginò di scendere in strada e camminare fino alle case popolari di via Gramsci dove viveva Carmel. Immaginò di bussare alla sua porta. Lei sarebbe andata ad aprire con addosso una maglietta troppo larga e lui le avrebbe detto che gli dispiaceva. Allora lei l’avrebbe fatto entrare e si sarebbero seduti sul divano, e avrebbero parlato.

Avrebbero parlato del tizio che aveva ucciso e Sensi avrebbe detto che poteva convivere con quello che aveva fatto, e avrebbero parlato di cose di cui Sensi non parlava mai con nessuno.

Forse le avrebbe parlato di Nadia, ma forse no.

Probabilmente no.

Forse non avrebbero parlato affatto.

Sensi si addormentò.

A qualche centinaio di chilometri di distanza, nella Berlino afosa, il Polizeiobermeister Schneider si rivoltava sotto il piumino estivo. Sua moglie russava piano, un suono che a Schneider non dispiaceva. Lo faceva sentire a casa.

Aveva cinquantaquattro anni, non gli mancava molto alla pensione, ma non aveva nessuna intenzione di lasciar perdere il caso della ragazza uccisa.

Aveva parlato con i suoi genitori, con suo fratello.

Hannele Sculte era giovane, avrebbe compiuto ventisei anni a Novembre. La sua famiglia era convinta che alla fine sarebbe riuscita a laurearsi in veterinaria.

Il giorno della sua morte si era svegliata tardi, si era vestita di nero, come al solito, ed era uscita. I suoi genitori erano al lavoro, suo fratello era in camera sua. L’aveva salutata e non aveva pensato di chiederle dove stava andando.

Hannele aveva preso la metro, o forse un autobus. Qualche ora più tardi l’avevano ritrovata riversa in un sentiero del Tiergarten, accoltellata alla schiena.

Schneider e i suoi uomini avevano interrogato tutti i suoi amici. Erano un gruppo che al commissario capo non piaceva, ma nel complesso sembravano innocui.

Avevano controllato le ultime chiamate del suo cellulare.

Quella al commissario italiano era di sette giorni prima, quattro chiamate prima. Hannele non telefonava molto, un fatto insolito per una ragazza di quell’età.

Schneider non sapeva come posizionare il commissario Sensi nel quadro d’insieme dei quell’omicidio. Non gli piaceva, con il suo inglese sciolto e con le sue mezze allusioni. Non gli piaceva che un collega non lo considerasse degno della propria collaborazione, onorificenze o meno.

A Schneider non avevano mai dato medaglie, ma aveva fatto il suo dovere per trent’anni e non gli piaceva essere trattato con condiscendenza.

Aveva intenzione di telefonargli di nuovo, il giorno successivo. L’aveva detto alla sua squadra e non stava scherzando. Aveva preso il vocabolario e si era preparato un discorsetto. Questa volta quel poliziotto italiano gli avrebbe spiegato quello che sapeva della morte di Hannele.

Schneider si rivoltò sotto il piumino estivo, ripassando mentalmente il suo discorso.

Arrivato a metà, si addormentò.

domenica 27 settembre 2009

Clamidia - 7

Sensi aveva passeggiato fino a Piazza Brin tallonato dal suo fantasma familiare. Essere seguito da quella sbiadita presenza come da un cane in cerca di cibo non contribuiva al suo buon umore.

L’aria della notte era umida e calda e la maglietta dei Neu! gli si attaccava al torace in modo sgradevole. Il raffreddore gli faceva percepire il mondo come attraverso un vetro.

Quando arrivò in Piazza Brin trovò che sulle panchine scagazzate dai piccioni stazionava un gran numero di abitanti in cerca di refrigerio. Dei bambini si rincorrevano in bici urlandosi frasi per metà in spagnolo e per metà in italiano, un gruppo di ragazzi si faceva girare una canna e alcuni anziani sembravano pronti a rendere l’anima immobili sui muretti delle aiuole.

La fontana al centro della piazza nebulizzava acqua tutto attorno, contribuendo a innalzare ulteriormente il tasso di umidità.

Il Bar Brin aveva la saracinesca mezza abbassata. Sensi si infilò al di sotto con un movimento fluido.

“Già in chiusura?” domandò.

Carmel era dietro il bancone, che stava finendo di sistemare le ultime cose, le luci erano abbassate.

“Es troppo caldo, Manno. Ma que…?”

Carmel aveva sollevato gli occhi dal bancone e ora stava guardando esattamente verso il fantasma di Hannele.

Sensi inarcò le sopracciglia.

“Es troppo caldo. Inizio ad avere le alucinación…i.” Non sembrava del tutto sicura di come comportarsi con quella parola.

“Allucinazioni,” ripeté Sensi, sorridendo. “Conosco almeno un rimedio contro il caldo,” aggiunse.

Carmel fece roteare gli occhi. “Anch’io, ma non ho i soldi per l’aire acondicionado.”

Sensi si sedette al bancone. “Una birra?” chiese.

Carmel gli stappò davanti una Ceres, poi appoggiò i gomiti sul ripiano, guardandolo con gli occhi socchiusi. Sensi non riuscì a impedirsi di notare che aveva un velo di sudore sulle spalle nude, mentre le guardava le tette nella scollatura.

Bevve un sorso di birra.

“Maria non c’è, se è quel che volevi sentirte dire,” disse Carmel, spontaneamente. Maria era la sua coinquilina.

“Mi sono beccato la clamidia,” ammise Sensi, in tono cupo. Lanciò un’occhiata irritata alla sua destra, poi bevve un’altra sorsata di birra. Carmel si mise a ridere. “Esta es la giustizia divina!”

“Chiaramente Dio deve ancora lavorare sul suo senso dell’umorismo,” replicò Sensi, abbattuto, e si soffiò il naso.

Carmel si sporse verso di lui. “Potea essere SIDA,” gli disse, seria.

Sensi non rispose.

“A volte vorrei sapere cosa ti rode,” aggiunse Carmel, in tono più morbido.

“Cazzo, pensavo che venire qua fosse una buona idea.”

“Magari es l’unica buona idea che hai avuto nell’ultimo mese,” replicò lei, continuando a fissarlo. “Manno… non sei mai stato juicioso…”

“Si dice assennato, Carmel.”

“…ma neanche loco in esta maniera. Se può sapere…”

“Mi ricordo male o eri tu a dire di non voler sapere niente?” la interruppe lui, posando la birra sul bancone con troppa forza.

“Es quel chico che hai matado?” continuò lei, senza ascoltarlo.

“Carmel.”

“E poi te ne sei scappato a Berlino, no? Molto maturo. A scopare dove se presentava l’ocasión. Tipico.”

Sensi sospirò. “Era solo un pompino. Ero sbronzo.”

“Oh, por que non c’era un lecho, certo.”

“Ok, grazie per la birra,” disse lui, scendendo dallo sgabello e appoggiando una banconota da cinque sul bancone. Carmel gli bloccò il polso con una mano.

“Non ho finito.”

Sensi la guardò in silenzio, senza provare a spostare la mano.

“Il punto, Manno, es che puoi vivere con esta cosa oppure no, ma non puoi stare nel medio. Se vuoi, come se dice? Expiar, se vuoi matarte da solo… chi te ferma? Ma se no devi fare un esfuerzo, devi lasciare quel chico dove ha deciso di metterlo Dio, en paraiso… o dall’altra parte.”

Sensi restò in silenzio ancora per qualche istante, con la faccia scura, poi spostò la mano e fece un passo indietro.

“Amen,” disse, con un mezzo sorriso di scherno, scivolando sotto la saracinesca.

Mentre se ne andava sentì il rumore di qualcosa che si rompeva, come se qualcuno avesse tirato un bicchiere contro la saracinesca, frantumandolo.

“Te odio!” gridò Carmel, dall’interno, ma Sensi era già lontano.

Clamidia - 6

“Non era un numero falso,” stava spiegando il commissario capo Schneider, esattamente nello stesso momento, durante la riunione notturna della sua squadra, a Berlino. “Abbiamo contattato il gestore telefonico italiano e ci hanno confermato che si trattava di un numero interno della questura di La Spezia, Italia.”

“Ma perché si sono rifiutati di parlare, allora?” chiese l’ispettore Baumann, perplesso.

“Non sono certo che si siano rifiutati. Il collega italiano – presumo che fosse un collega – mi ha fatto un lungo discorso, solo che non ho capito con esattezza che cosa volesse dire. Credo che fosse qualcosa come “non sono autorizzato a parlare”. Ma sa come sono questi italiani… non amano essere diretti.”

“Capisco. Ho portato a termine la ricerca che mi aveva affidato, Polizeiobermeister… risulta che il commissario Ermanno Sensi ha ricevuto una decorazione al valore, qualche anno fa, in seguito alla sua attività di infiltrato. Non sono riuscito a saperne di più, mi dispiace.”

“Sotto copertura, eh? Questo conferma la mia ipotesi. È evidente che un elemento del genere non poteva essere in quel ritrovo di sbandati per puro caso. Domattina proverò a richiamarlo sul suo numero personale e vedrò se riesco a convincerlo a sbottonarsi un po’. In via… informale.”

L’ispettrice Vogel, che fino a quel momento aveva ascoltato a braccia incrociate, fece uno smorfia di disappunto.

“Non capisco come la Sculte si sia potuta trovare in mezzo a un’indagine internazionale dai contorni così… sfuggenti. Da quel che ho appurato fino a questo momento si trattava di una normale studentessa fuori corso, una gotica dalla vita sessuale un po’ movimentata, ma sostanzialmente non dissimile dalle sue coetanee.”

“Forse è rimasta coinvolta per caso,” ipotizzò l’ispettore Baumann. “Era nel posto sbagliato al momento sbagliato. Capita.”

Il commissario capo Schneider si accarezzò i folti baffi grigi. “Temo che la sua sia soltanto una pia illusione,” commentò, in tono grave.

sabato 26 settembre 2009

Clamidia - 5

“È stato un lavoretto veloce,” gli spiegò Mainardi, quando arrivò sul luogo dell’ultimo furto.

Via Sant’Agostino era a cinquanta metri scarsi dal suo portone, quindi raggiungere i suoi uomini non era stato particolarmente faticoso per Sensi. Era un vicolo dal lastricato relativamente nuovo, dai palazzi alti e antichi, le cui facciate sarebbero state da rifare. Qualcuno aveva scritto su un muro No al forno, e Sensi sorrise.

Aveva visto scritte contro la centrale Enel, contro la Telecom, contro l’inceneritore e, ovviamente, aveva visto centinaia di scritte contro il Pisa, ma a una prima occhiata sembrava che il writer avesse motivo di malcontento nei confronti di una panetteria. Gli attivisti contro il forno inceneritore dovevano migliorare un po’ la grammatica della loro protesta.

“Hanno scassinato la saracinesca con un piede di porco, scardinato la porta e sono entrati senza preoccuparsi dell’allarme. La cassaforte l’hanno semplicemente estratta dal muro piazzando delle cariche di esplosivo.”

Sensi osservò distrattamente la saracinesca semi-alzata. “Ah, sei un artificiere, adesso?” chiese, per il solo gusto di rompere le palle a Mainardi.

“Dimmi tu che cos’altro avrebbe potuto spaccare il muro così.”

Sensi entrò nella gioielleria e diede un’occhiata al buco nero dietro il bancone. C’erano calcinacci un po’ dappertutto.

“Vabbe’,” concesse.

“E sono stati molto veloci, come dicevo. Il tempo medio di intervento su allarme della Lince è di sei minuti. Quando sono arrivati erano già scomparsi.”

Sensi ne approfittò per soffiarsi il naso. “Ne sembri compiaciuto, Mainardi,” commentò.

L’altro gli rivolse un’occhiata colpevole. “Be’, sai com’è. Erano assicurati.”

“Guarda che un crimine contro il patrimonio è sempre un crimine,” rispose, con una certa soddisfazione perversa.

“Non intendevo…”

“No, neanch’io intendevo scendere dal letto per avere il piacere di guardare un buco nel muro,” specificò Sensi. “Richiamami quando avrete un buco in una persona, se non altro.”

L’ispettore Mainardi lo vide andarsene avvolto in una nube di malumore nera come i suoi vestiti, chinarsi per passare sotto la saracinesca e scomparire nell’oscurità del vicolo.

“Capo, ha anche chiamato qualcuno che parlava in inglese, oggi!” gli gridò dietro.

Sensi rimise la testa dentro. “E ha detto?” domandò, non particolarmente incuriosito.

“Non lo so, parlava inglese,” rispose Mainardi.

“Per fortuna ci sei tu,” concluse il commissario, prima di scomparire di nuovo.

venerdì 25 settembre 2009

Clamidia - 4

“Sei stata accoltellata alla schiena,” disse Sensi, che non aveva mai partecipato a un’indagine internazionale e non ci teneva a farlo, quando il fantasma di Hannele comparve ai piedi del suo letto.

“Non me lo ricordo,” rispose l’altra, vacuamente.

“Probabilmente eri sbronza,” ipotizzò Sensi.

Hannele si strinse nelle spalle. “Non so cosa fare.”

“Ti suggerisco di andare dal Polizeiobermeister Schneider. Sembra un tipo a posto, anche se dovrebbe lavorare un po’ sul suo inglese,” suggerì lui, speranzoso.

Il fantasma di Hannele sembrò abbattuto e rattristato. “Tu non mi vuoi aiutare,” mormorò.

“Senza offesa, ma non vedo come potrei farlo. Ho dei problemi ad aiutare anche le vittime ancora vive.”

“Non so dove andare. Ho freddo.”

Sensi evitò di farle notare che, visto che c’erano trenta gradi, probabilmente aveva freddo perché era morta. Persino lui riusciva a capire che non era una frase delicata da pronunciare, in quelle circostanze.

Invece si rassegnò a parlarle per un po’, ad ascoltare le sue frasi sempre uguali, monotone e soporifere.

Di norma i fantasmi non sono famosi per la conversazione brillante, ma Sensi sospettava che in Hannele in particolare fosse una condizione innata.

Alla fine si addormentò.

Nel sogno che fece, coerentemente, una donna simile a Hannele cercava di morderlo tra le gambe con una bocca spaventosamente sbavante.

Sensi non era nuovo a incubi di quel genere, e il suo subconscio non si prese la briga di farlo svegliare in un bagno di sudore.

Fu la musica del suo cellulare a salvarlo da una probabile castrazione onirica.

“Capo, dovresti venire alla gioielleria di via Sant’Agostino,” gli disse Mainardi, senza giri di parole.

“Non sono ancora pronto per comprare un anello,” biascicò Sensi. Ai piedi del letto il fantasma di Hannele lo osservava con sguardo afflitto.

“Meglio così, credo che non gliene siano rimasti,” replicò Mainardi.

Sensi sospirò, guardò l’orologio, appurò che erano le undici di sera, e scese cautamente dal letto. Aveva il naso completamente costipato e anche se nessuno gli aveva staccato il cazzo a morsi l’impressione generale era proprio quella.

“È tutta colpa tua,” disse al fantasma, puerilmente.

Hannele si limitò a fissarlo con occhi vuoti.

Clamidia - 3

Il suo cellulare iniziò a suonare verso le quattro del pomeriggio, mentre era alle prese con la pomata al mentolo che il suo medico sosteneva avrebbe fatto miracoli. Per il momento non c’era stato alcun miracolo, ma ora il pisello gli profumava di menta. Il numero che lo chiamava aveva il prefisso +49, segno che erano altri guai in arrivo.

Sensi rispose e ascoltò, rassegnato, un’incomprensibile stringa di parole in tedesco.

“Provi con l’inglese,” disse.

Dall’altro lato ci fu una pausa, poi la stessa voce maschile che aveva pronunciato l’incomprensibile stringa in tedesco disse, in un inglese gutturale: “Salve sono il Polizeiobermeister Schneider, con chi parlo?”

“Con l’equivalente italiano Sensi,” rispose Sensi, “a meno che Polizeiobermeister non significhi “hamburger”. In quel caso no.”

“Heinz?” ripeté l’altro.

“Solo se ci vuole anche il ketchup, sull’hamburger. Se no Sensi. Ermanno Sensi.”

“Ah, questo numero è risultato di un’indagine di nostra polizia.”

Sensi sospirò e, con i pantaloni ancora abbassati, si sedette sull’orlo della sua vasca da bagno. Probabilmente ai poliziotti tedeschi installavano una versione di Babelfish direttamente nel cervello.

“E di quale indagine parla?”

“Lei è in Germania, no?”

“No. Sono in Italia. Ma fino a ieri mattina ero a Berlino.”

“Lei ha un’amica Hannele a Berlino, sì?”

“Amica è un termine un po’ forte. Mi ha attaccato la clamidia.”

Clam idea? Idea umida? Credo di non capire.”

“Ci è più vicino di quel che pensa, invece. Ma mi dica di Hannele.”

“Hannele Sculte. Aveva questo numero in suo telefono. In chiamate ultime.”

Sensi rimase in silenzio. Che cosa poteva dire a quell’analfabeta teutonico? Che sapeva già che Hannele era morta? Che non aveva idea di chi fosse stato? Che non gli importava nemmeno, strettamente parlando?

Hannele era solo una tizia ubriaca incontrata da ubriaco. Una tizia ubriaca che gli aveva fatto un pompino dopo dieci minuti scarsi di conversazione da ubriachi. Una tizia che gli aveva lasciato il numero facendogli uno squillo sul cellulare.

“Dirle mi dispiace che Hannele è non più viva.”

“Ah. Un incidente?”

“Se avere un coltello in sua schiena è incidente.”

“Ah.”

“Dove lei ha conosciuto Hannele?”

“Al Dark Friday.”

“Locale su Pettenkoferstraβe?”

“Esatto.”

“Locale per punk. Lei era lì operativo?”

Sensi sospirò. “È un locale goth, non punk, e ero lì in vacanza.”

“Vacanza di lavoro, eh-eh. Bene, io so niente di questo. Ma Hannele è poi morta questo primo pomeriggio e ha suo numero. Chiamate ultime.”

“Sì. Mi ha fatto uno squillo.” Possibile che l’unico tedesco che parlava inglese come un troglodita dovesse essere capitato a lui? “Senta, io non la conoscevo. Ci siamo incontrati al Dark Friday, mi ha lasciato il suo numero e poi non ne ho saputo più niente. Mi dispiace, ma temo di non poterla aiutare. Se mi dovesse venire in mente qualcosa…”

“Però strano che lei è anche il poliziotto.”

“Lo dico sempre anch’io.”

“Lei mi spella il suo nome, sì?”

Sensi gli fece lo spelling del proprio nome, gli lasciò il numero del suo ufficio in questura e gli augurò ogni fortuna.

Poi, finalmente, si tirò su i pantaloni.

Il commissario capo Hans Schneider appese il telefono fisso dal quale aveva chiamato e guardò il suo vice, l’ispettore Baumann. “È piuttosto strano,” disse, “un numero sulla lista corrisponde al cellulare di un commissario di polizia italiano.”

“Italiano?” fece Baumann. “Allora è un omicidio di Mafia?”

È stato nebuloso. Pare che abbia conosciuto la vittima in un locale gotico sulla Pettenkoferstraβe. Non vedo che cosa potesse farci un poliziotto italiano in quel posto, ma dice che era in “vacanza”. Io credo che dovremmo metterci in contatto con l’Interpol e verificare di non essere entrati fortuitamente in collisione con un’indagine internazionale.”

L’ispettore Baumann sembrò a disagio.

“Non piace neanche a me,” sottolineò Schneider, in tono grave.

“Immagino che non potremo evitarlo,” convenne il suo vice.

Clamidia - 2

Visto che la diffusione del contagio in questura andava a rilento, verso le due e mezza Sensi decise di tornare a casa. Stava per uscire quando uno sfarfallio nell’aria vicino a una sedia gli fece strizzare gli occhi e dare una seconda occhiata.

Hannele era in piedi accanto alla scrivania, non perfettamente a fuoco ma riconoscibile.

Sensi la guardò in silenzio per qualche istante, chiedendosi se avrebbe parlato.

“Wo bin Ich?” mormorò lei, guardandosi attorno con aria smarrita.

“Back in my fuckin’ life,” rispose Sensi, digrignando i denti. Subito dopo starnutì.

Hannele inclinò la testa da un lato (lieve sfarfallio), come se avesse sentito il rumore dello starnuto, ma non fosse certa di riuscire a individuarne la fonte.

Sensi sventolò una mano. “I’m here, Hannele.”

Sentire il suo nome parve esserle d’aiuto. Fece un passo avanti, titubante. I suoi contorni si fecero prima più sfuocati e poi sembrarono diventare più netti.

“Ermanno?” chiese, nella sua stupita voce gutturale.

Sensi sospirò e si passò una mano tra i capelli. “Non credo che ti abbia ammazzata la clamidia,” disse, in inglese, “quindi probabilmente ti ha fatta fuori o una persona o un incidente. Ti dice qualcosa?”

“Killed?” ripeté Hannele, stupita. “I’m not…”

Sensi si domandò oziosamente se tirarle qualcosa l’avrebbe fatta andare via. Probabilmente sì. Per un po’.

Poi, però, sarebbe tornata e un fantasma incazzato sarebbe stato ancora più sgradevole di un fantasma confuso e infelice. Perché, ovviamente, Hannele era un fantasma.

Non era precisamnete il primo che Sensi avesse mai visto. I fantasmi erano creature per lo più stupide, ma arrivavano almeno a comprendere che palesarsi a qualcuno che non li vedeva era tempo perso.

“È ovvio che sei morta,” spiegò, non proprio diplomaticamente. “È per questo che adesso fluttui nel mio ufficio. Probabilmente sei morta di morte violenta, è sempre così. Quando ti ricorderai com’è successo fammi un fischio e vedrò se posso fare qualcosa per farti proseguire il viaggio.”

“Ma io non voglio proseguire niente,” si lamentò la tedesca fantasma. “Io voglio essere viva!”

“E io vorrei che non mi avessi attaccato la clamidia – per non parlare del raffreddore – ma ormai è già successo. Il passato non è contrattabile.” Si soffiò il naso. “Per quel che ne so io,” aggiunse. “Forse potresti comparire a un famoso occultista,” provò a suggerire, speranzoso.

“Non ho la clamidia,” fu tutto quello che rispose Hannele.

“Sì, invece. Non ti sembrava di avere la gola in fiamme? È quello che succede a spompin-“

“Ho solo il mal di gola! Be’, lo avevo.”

Sensi sospirò. “Non stiamo facendo passi avanti. Ritorna quando ti sarai ricordata di come sei morta… se proprio ne senti il bisogno.”

Hannele sembrò accigliarsi, in quel modo vago in cui si accigliano i fantasmi, ma Sensi era già uscito dall’ufficio, chiudendosi la porta dietro.

“Giornata di merda,” borbottò, dirigendosi verso l’ascensore.

giovedì 24 settembre 2009

Clamidia - 1

Sensi era tornato dalle sue vacanze a Berlino con il raffreddore e con la clamidia. Avrebbe potuto predere qualche giorno di malattia, ma l’idea di infettare tutta la questura almeno con il raffreddore gli faceva provare una certa gretta soddisfazione.

Quindi era andato al lavoro a un orario più o meno normale – ossia verso le undici e mezza del mattino – e aveva iniziato la sua opera di untore.

L’ispettrice Riu aveva bussato alla sua porta verso mezzogiorno.

“Al volo!” aveva gridato Sensi, lanciandole uno dei suoi fazzolettini di carta usati, ben appallottolato. Riuscire a contagiare la Riu sarebbe stato un colpaccio. Un raffreddore forte come il suo poteva toglierla di mezzo per una settimana. Se poi fosse riuscito ad attaccarle anche la clamidia – lo scopo era così nobile che avrebbe potuto persino sacrificarsi e infettarla per contatto diretto – probabilmente le settimane sarebbero diventate almeno due.

La Riu si abbassò di scatto, schivando il fazzolettino.

“Mancata. Ora, se potesse dare un’occhiata a questa segnalazione di furto…”

Sensi si soffiò rumorosamente il naso. “Che furto? Mi faccia un riassunto, ispettrice. Si sieda.”

Lei gli lanciò un’occhiata valutativa.

“Solo se promette di non starnutirmi in faccia.”

“Posso sempre provare ad attaccarle la clamidia, scelga lei.”

La Riu lo ignorò e iniziò a sfogliare il proprio taccuino. “Si tratta della gioielleria Donati, di via Fratelli Rosselli. È stata derubata questa notte. I ladri hanno ignorato il sistema d’allarme, hanno rotto la saracinesca e la porta e sono entrati. Poi hanno divelto la cassaforte e sono scomparsi, portandosi via solo gioielli di un certo valore e abbandonando i pezzi minori.”

Sensi la osservò per un attimo.

“Ok, e qual è stato il loro grossolano errore?”

“Veramente per il momento non ne hanno commessi.”

“È bello che ogni tanto vincano anche i buoni. Mi passi quei fogli.” Sensi firmò distrattamente il rapporto e lo restituì all’ispettrice, non prima di averci starnutito sopra. “Propongo che dia a tutta questa faccenda una bassissima priorità.”

“Signore, un crimine contro il patrimonio è sempre un crimine,” obiettò la Riu.

“Come se il nostro primario interesse fosse combattere il crimine. Può andare, ispettrice, a meno che non abbia cambiato idea a proposito della clamidia.”

Dal modo in cui lei sbatté la porta Sensi intuì che non aveva cambiato idea.