giovedì 6 agosto 2009

Mezza sega - 14

Sensi sapeva perfettamente che tutti i membri delle forze dell’ordine erano appositamente addestrati per la guida veloce, quel corso l’aveva fatto anche lui.
In caso di emergenza era in grado di curvare con il freno a mano e cazzate del genere, solo che aveva da tempo deciso che se l’avesse fatto poi l’emergenza sarebbe stata quella di salvarsi la vita.
Mari non sembrava pensarla allo stesso modo.
Le gomme dei suoi pneumatici stridevano orrendamente sull’asfalto di via Chiodo mentre toccava i centotrenta, frenava, curvava col freno a mano e ripartiva ancora più veloce, apparentemente senza accorgersi che avevano appena imboccato via Veneto in senso contrario.
A Sensi veniva da vomitare ed era in un bagno di sudore. Mai che ci fosse una pattuglia di vigili, quando serviva.
Mari inchiodò sopra un’aiuola di piazza Caduti per la Libertà, falciando l’erba come una mietitrebbiatrice, e scese dalla macchina.
Sensi, stordito, scese anche lui. Ebbe la tentazione di baciare il terreno, ma si trattenne.
Sotto il porticato c’erano un paio di tossici stesi a terra, ma per il resto sembrava deserto.
“Troppo tardi?” chiese Mari, guardandosi attorno.
“Forse è troppo presto. Forse siamo tornati indietro nel tempo,” replicò Sensi, la cui voce sarcastica era ancora indebolita dalla strizza.
Mari si voltò a guardarlo, visto che chiaramente non considerava il suo stile di guida un problema e non capiva come qualcun altro potesse farlo.
Il commissario era fermo accanto a una colonna. I neon dell’illuminazione stradale disegnavano la sua ombra, scura, sul pavimento di marmo.
Ma la sua ombra, al contrario del commissario, non era ferma.
Invece si stava allungando in avanti come se la luce alle sue spalle si muovesse (Mari guardò i lampioni – ovviamente erano fermi), con le braccia protese verso l’alto come se si stesse protendendo verso qualcosa (Mari guardò le braccia di Sensi – erano lungo i fianchi) ed era sempre giù grande e scura (Mari non aveva bisogno di guardare Sensi per sapere che non stava diventando più grosso).
“Non ancora,” mormorò Sensi.
E poi: “Sì, ora.”
L’ombra sembrò guizzare in avanti, con uno scatto da belva o forse da serpe. Le sue gambe rimanevano collegate ai piedi del commissario da un sottilissimo filo, ma l’ombra era svanita.
Sensi rimase fermo ancora per un istante, poi iniziò ad avanzare con calma nella direzione in cui l’ombra era svanita, perdendosi nell’altra zona d’ombra, questa immobile, della rientranza del palazzo.
“Nascosto come un coniglio, eh?” commentò, fermandosi una decina di metri poco più avanti.
“In trappola come una lepre,” rispose una voce acuta, dalla macchia di oscurità.
Ed era di questo che si trattava. Non la normale ombra del palazzo, ma una macchia d’oscurità che andava allargandosi, coi bordi simili a nebbia nera, strisciante.
“Sei un imbecille, Lorenzo. Eri un imbecille anche da ragazzo,” disse il commissario, calmo. Purtroppo Mari riusciva a vedere perfettamente le gocce di sudore sulla sua fronte.
In silenzio, tirò fuori la pistola.
“E tu sei un traditore!” gridò la voce acuta, dal buio in lenta, costante, espansione. “Avevamo giurato di servire il Maligno, allora e per sempre!”
Sensi ridacchiò. “Devi esserti distratto. Noi abbiamo giurato di farci servire dal Maligno. Allora e per sempre. Non ti accorgi di non essere solo, là al buio?”
E dall’oscurità provenne un grido.
La nebbia nera parve dissiparsi di colpo, lasciandosi dietro solo la normale ombra del palazzo, e un tizio vestito di scuro schizzò fuori, alla luce, correndo.
Era un trentenne dall’aspetto emaciato, cadaverico, che si guardava intorno con sguardo terrorizzato.
“Lo dicevo che era lui, capo,” si sentì dire.
Sensi si voltò e Mari si voltò con lui. Accanto alle colonne, semi-seduto, c’era Moreno, che probabilmente si era svegliato in quel momento dal suo sonno narcotico.
Lorenzo Cervi approfittò dell’attimo di distrazione dei due per darsi alla fuga con una prontezza di riflessi insospettabile in un rudere umano come lui. Schizzò verso il parcheggio a un capo della piazza e scomparve dietro un angolo del palazzo. Sensi alzò le mani e sembrò che la sua ombra fosse risucchiata dentro il suo corpo come acqua nello scarico di un lavandino.
Si mosse a sua volta verso il punto in cui era scomparso Lorenzo, correndo a lunghe falcate aggraziate che diventavano sempre più veloci.
Visto l’andazzo, Mari si gettò anche lui all’inseguimento, con la pistola in mano.
Avvistò Sensi che scompariva dietro un altro angolo, nella via dietro piazza Caduti per la Libertà. Arrivò all’incrocio trafelato e guardò a sinistra, dove avrebbe dovuto vedere i due che si rincorrevano.
Guardò anche a destra, e poi davanti a sé.
Del commissario e della sua preda (come altro chiamarla, a quel punto?) non c’era più traccia.
Mari aveva già visto Lorenzo Cervi scomparire nel nulla. Si chiese se anche Sensi sapesse fare lo stesso trucchetto.
Procedette con prudenza per qualche metro, cercando di vedere nelle ombre dei palazzi.
Non c’era niente.
Per un istante si chiese che cosa fare, poi l’istinto ebbe la meglio e l’istinto gli diceva che la sua auto era parcheggiata su un’aiuola con le portiere aperte. E che poi, certo, c’era un tossico da prendere a cazzotti.
Tornò indietro a passo veloce.
Il parcheggio della piazza era deserto, illuminato dai lampioni. Il porticato gli era nascosto da un angolo del palazzo.
Prese il cellulare e chiamò rinforzi. Ovviamente non poteva chiedere che si portassero dietro anche un prete esorcista senza fare la figura del coglione, ma la cosa lo avrebbe fatto stare meglio.
Poi, da dietro l’angolo, provenne un altro grido.
Mari galoppò da quella parte e andò praticamente a sbattere contro Moreno il Tossico, che stava scappando nel senso opposto.
Moreno lo prese per le maniche del giubbotto. Piangeva e tremava.
“N-n-non andare… è… è orribile…”
“Ma che cazzo dici?” gridò Mari, cercando di scollarselo di dosso.
L’altro iniziò a tremare ancora più forte e a battere i denti.
“Un’allucinazione…” borbottò. “Una cazzo di allucinazione… devo smetterla con la roba… No! Non andare!”
Mari gli mollò un ceffone che avrebbe mandato in letargo un orso polare e gli girò attorno. Moreno il Tossico, tramortito, collassò per terra.
Poi Mari sentì un altro grido e due colpi di pistola sparati in successione.
Sul rumore della pistola non poteva sbagliarsi: era una Beretta calibro 9 come la sua.
Corse attorno all’angolo, verso il porticato.
Corse fino a Sensi e a Cervi, entrambi a terra.
Cervi era sdraiato sulla schiena, con le braccia e le gambe aperte. Sotto di lui si stava allargando una macchia di sangue, i cui confini iniziavano a lambire una pistola dall’aspetto elegante e leggero, abbandonata sulla pavimentazione di marmo.
Sensi era inginocchiato accanto al corpo, piegato su se stesso, e stringeva ancora in un pugno la pistola d’ordinanza.
Mari si avvicinò. Non c’era bisogno di ascoltare il battito sul collo di Cervi per essere sicuri che era morto.
“Ermanno,” mormorò.
L’altro sollevò su di lui uno sguardo perduto, senza alzarsi. “Ha provato a spararmi con la mia pistola da gara…” disse, debolmente.
“lo vedo,” annuì Mari.
La Les Baer era vicina alla mano destra del cadavere, e ormai era stata raggiunta dal sangue che proveniva dai due fori sul petto di Cervi o, più precisamente, dai fori d’uscita molto più grandi che doveva avere sulla schiena.
Non che avesse importanza. Era chiaro che il commissario l’aveva centrato al cuore, due volte.
“Alzati, forza,” disse, prendendolo per un’ascella.
Sensi era leggero e sollevarlo non gli costò nessuno sforzo. Tenerlo in piedi era più complicato.
“Adesso Salvemini sarà contento,” sussurrò lui, con voce spenta.
Mari gli spostò i capelli dalla faccia. In lontananza iniziavano a sentirsi delle sirene. Molte sirene.
“Non avevi mai ucciso nessuno,” disse, in tono morbido.
“Non proprio,” ammise l’altro.
Poi iniziò a piangere.
Piangeva e singhiozzava come un bambino e Mari lo circondò con le braccia.
Una pattuglia dei carabinieri si fermò alle loro spalle, con la sirena accesa. Poi se ne fermò un’altra.
Una donna si sporse dalla finestra di un palazzo vicino per guardare la scena.
Gli uomini iniziarono a scendere dalle macchine, gridandosi ordini.
Mari tenne Sensi stretto contro il suo petto.
Continuava a piangere.

FINE

4 commenti:

paolo raffaelli ha detto...

Bel finale. Tutto bello, anzi.

Antar ha detto...

Che fico.
È tornata l'Ombra [e alla grande, pure].
Ora sarebbe bello sapere che avesse visto Moreno. Ma forse è bello anche non saperlo, in finale.

Luca Bonisoli ha detto...

Bel racconto!
E comunque devi avere una certa vena di sadismo, visto che stuzzichi continuamente la curiosità dei lettori e poi alla fine tieni tutto nascosto... uffa... :-P

Susanna Raule ha detto...

UAZ UAZ