lunedì 27 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 20

Il reparto di terapia intensiva, come un po’ tutti gli altri reparti del Sant’Andrea, era difficilissimo da trovare. Le frecce delle indicazioni puntavano in direzioni approssimative, i corridoi giravano in tondo fino a farti perdere l’orientamento e i nomi dei reparti di solito erano sul lato sbagliato dell’edificio.
Comunque, alla fine, Sensi trovò il piano, il lato e il continuum spazio-temporale giusto.
Sulla porta lo attendeva un Mainardi comprensibilmente sulle spine e un medico dall’espressione allucinata.
“Commissario, non so che cosa dirle…” iniziò il medico “…non era mai successo che…”
“Capo, mi sono addormentato, ma ti giuro che dormivo pianissimo, con un occhio mezzo aperto…”
“Ah, quindi in tutto eri sveglio per un quarto. Un’ottima media, Mainardi. Dottore…” aggiunse poi, rivolto al medico, “mi faccia vedere, alle denunce per inadempienza penseremo più tardi.”
Il medico sembrò sul punto di avere un colpo apoplettico. Quantomeno, pensò Sensi, era nel posto giusto al momento giusto, il che non si poteva dire di lui, che era stato per tutta la notte al posto sbagliato al momento sbagliato. E gli avevano anche leccato la faccia.
Seguì il medico barcollante fino in fondo al corridoio del reparto, dove, davanti a una porta chiusa, stazionavano due agenti in divisa e un Tudini con la faccia verdastra.
“Ciao, Ermanno,” disse, “ti avviso che non è un bello spettacolo.”
“Neanche tu lo sei, eppure ti vedo ogni mattina da diversi anni,” rispose Sensi, battendogli una pacca sulla spalla. Poi aprì la porta.
Quello che un tempo era stato Johan Milovich ora si riassumeva in una serie di escrescenze sanguinolente su un letto d’ospedale. Guardando meglio si poteva notare che le escrescenze in questione erano le sue costole, che spuntavano come dita scheletrite da quel che restava della cassa toracica. La testa non era in vista da nessuna parte, a meno che non si volesse considerare la poltiglia raggrumata sul cuscino.
L’odore era un mix di orrore, merda e roba avariata, così forte che l’aria sembrava solida.
Sensi si appoggiò al muro e tossì un paio di volte.
L’orribile lezzo copriva quasi del tutto un altro lezzo, un lezzo che il commissario aveva già sentito, debole, in casa di Chiara.
Uscì dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle.
“Capo, non so come abbia fatto a entrare!” disse, immediatamente, Mainardi, che evidentemente lo aspettava al varco.
“La porta del reparto durante la notte è chiusa!” aggiunse il medico di prima, paonazzo.
Sensi si passò una mano sulla faccia, sentendo la barba di un paio di giorni.
“Non dovete spiegarlo a me,” disse, cupo, guardando qualcosa dietro le loro spalle. “Dovete spiegarlo al questore Salvemini.”
Salvemini era un uomo imponente, eternamente abbronzato, con l’aria sportiva e nemmeno un capello in testa. Forse per compensare la calvizie, ai lati della bocca aveva due piccoli baffi simili a mosche, che quando parlava sobbalzavano come se ronzassero.
In quel momento, però, erano ferme come se fossero morte da un paio di giorni e la bocca aveva una decisa piega verso il basso.
Salvemini avanzò a lunghi passi, ogni passo di un paio di chilometri, fino a loro e, senza degnare né il medico né i poliziotti di uno sguardo, entrò dentro la camera chiusa.
Uscì quasi subito.
Se i due baffi-mosca prima erano sembrati morti adesso sembravano stecchiti.
Sempre senza una parola, prese Sensi per un braccio e lo spinse un po’ più in là nel corridoio.
Poi lo fissò con uno sguardo che un osservatore poco attento avrebbe potuto scambiare per implorante.
Pur tra i suoi mille difetti, Sensi non era un cattivo osservatore, se aveva modo di concentrarsi. Lo sguardo del capo diceva, con buona approssimazione: ti imploro, dimmi che sai chi è stato, altrimenti le tue chiappe finiranno su una graticola di proporzioni ciclopiche.
“Mi dica qualcosa, commissario,” esordì Salvemini.
Sensi si rese conto che non era il momento giusto per rispondere “qualcosa”. “Vorrei poterle dire che so chi è il colpevole, questore,” disse, quindi, “ma il problema è che so chi è stato, e non possiamo arrestarlo.”
Il questore inarcò le sopracciglia, che erano prive di peli come il cranio.
“L’unica cosa che posso prometterle è che non ucciderà più nessuno.”
“La stampa non si accontenterà di sapere che non ucciderà più nessuno, Sensi.”
Il commissario fece un piccolo sorriso. “La stampa non sa ancora che è morto qualcuno,” rispose.
Salvemini aveva avuto un certo numero di anni per pentirsi di aver voluto quello strano commissario come capo della sua squadra mobile. Durante quegli anni era stato prossimo a pentirsi un gran numero di volte.
Ad esempio, era stato sul punto di pentirsi quando aveva guardato le ore di presenza in questura del suo commissario, e aveva scoperto che erano incredibilmente poche.
Si era quasi pentito quando gli avevano riferito che Sensi scaricava musica illegalmente sul suo computer dell’ufficio.
Infine, era stato vicinissimo a pentirsi quando l’aveva visto per la prima volta.
Ma, di fatto, in tutto quel tempo, per un motivo o per l’altro aveva finito per non pentirsi mai e se questo faceva di lui uno stupido, quanto meno era uno stupido coerente.
La sua strategia, fino a quel momento, era stata di fingere di non notare le bizzarrie del commissario. Comunicava con Tudini come se Sensi non esistesse o, quanto meno, non fosse alle sue dirette dipendenze. Era una strategia complessa, ma non si poteva dire che Salvemini fosse un uomo lineare, e comunque aveva funzionato.
Certo, perché funzionasse doveva fare poche domande. Praticamente nessuna.
“Di che cosa ha bisogno?” si limitò a chiedere, quindi. E poi, almeno, il commissario aveva dei gusti architettonici decenti.
Sensi ci pensò per un attimo.
“Un cadavere,” disse, alla fine. “Il cadavere di un noto criminale, sforacchiato dai proiettili di questa pistola.”
Dicendo questo si sfilò l’arma di ordinanza da sotto la maglietta e la consegnò al questore.
Salvemini la guardò per qualche istante, poi se la fece sparire dentro la costosa giacca di sartoria.
Si voltò senza aggiungere altro, e si incamminò verso l’uscita. Aveva una ruga dritta in mezzo alla fronte: non solo ci sarebbero voluti dei mesi perché qualcun altro uccidesse un criminale o quello morisse da sé, ma si stava anche rischiando la carriera.
Però non aveva detto niente.
Come al solito.
Sensi tornò verso i suoi uomini.
“Capo, ti ha sospeso?” chiese Mainardi, a metà tra il preoccupato e il sollevato.
“Puoi mettere via lo spumante,” ribatté Sensi. “Ha detto Salvemini che se non risolvo questo caso ti ucciderà e poi mi darà la colpa.”
Mainardi deglutì.
“In ogni caso,” aggiunse Sensi, “finite gli accertamenti di rito, portate via il cadavere e poi occupatevi d’altro. A questo tizio ci penso io.”
“Ma…”
Sensi fissò Mainardi e l’ispettore notò quello strano fenomeno, quello per cui, quando Sensi era arrabbiato, i suoi occhi sembravano diventare color sangue.
“Fine delle domande,” ringhiò, e Mainardi pensò che raramente era stato così felice di eseguire un ordine.

2 commenti:

paolo raffaelli ha detto...

Ah! Quanto mi piace! :D

Anche se sono stupido e non capisco le battute sull'architettura... sob...

Susanna Raule ha detto...

spero che le capirai alla fine. la realtà è che non sei goto nell'animo :)