venerdì 31 luglio 2009

Mezza sega - 5

A Sensi la spalla faceva male, male di brutto. Aveva preso una quantità di antidolorifici bestiale, con l’unico risultato che adesso gli faceva male anche lo stomaco. E purtroppo la sua sofferenza fisica non era né il più grave né il più urgente dei suoi problemi.
Dopo l’inevitabile intermezzo in questura, era rimasto tutto il pomeriggio sul letto, sfogliando vecchi tomi e girovagando in rete.
Tecnicamente avrebbe potuto mettersi in malattia. Se il suo fosse stato un problema di lavoro l’avrebbe fatto immediatamente. Sfortunatamente si trattava di un problema che l’avrebbe raggiunto anche in malattia.
Verso le quattro del pomeriggio ingurgitò una pizza surgelata, dopo averla scongelata nel forno a microonde. Il suo mal di stomaco aumentò considerevolmente.
Provò a telefonare a Carmel e cercò di commuoverla in tutti i modi possibili. Ci sarebbe anche riuscito, se il fratello di lei non fosse stato via per lavoro. Carmel era inchiodata al bar e Sensi, obiettivamente, non sarebbe stato comunque in grado di ripetere neanche la fiacca ma prolungata performance della notte precedente.
E quando lui e Carmel non facevano sesso difficilmente la conversazione prendeva una piega positiva per l’autostima del commissario.
Così, fino alle cinque, passò il tempo semplicemente piangendosi addosso, una disciplina nella quale era campione indiscusso.
Prese in esame tutte le proprie sfighe, dalla nascita in poi, senza tralasciarne nessuna, nemmeno quella volta che alle elementari gli avevano fregato la merenda.
Verso le cinque era così alla frutta che stava addirittura pensando di telefonare a sua madre, ma per fortuna il brigadiere Mari arrivò prima che potesse compiere l’insano gesto.
Gli andò ad aprire a piedi scalzi, con gli occhi infossati e i capelli più scarmigliati del solito, perfetta rappresentazione del sigle abbruttito.
“Commissario, hai un aspetto di merda,” esordì Mari che invece sembrava un teppista come sempre.
“Mi fa male dappertutto, ecco cosa,” si lamentò Sensi. “Dai, entra.”
“Non dovevi passare all’ospedale a farti rifare la medicazione?” chiese l’altro, togliendosi il giubbotto e mollandolo sul divano rosso di Sensi.
“Ho detto che sto male, non che voglio farmi ammazzare,” ribatté lui.
Mari gli lanciò un’occhiata prolungata mentre Sensi si trascinava fino al divano.
Incrociò le braccia.
“Se vuoi la fasciatura te la cambio io, ma ti avviso che sono finocchio.”
Sensi si lasciò andare mollemente contro lo schienale. “Me la devi cambiare usando il cazzo? Sarei impressionato dalla prensilità della tua appendice.”
“No, di solito lo uso per piantare i chiodi, ma ho visto che col martello viene meglio.”
Sensi sbuffò. “La garza è dentro quel sacchetto lì. In farmacia credevano che avessi l’hobby della mummia fai-da-te.”
Il brigadiere iniziò a frugare nell’enorme sacchetto con stampato sopra un caduceo avvolto impropriamente da due serpenti anziché uno.
“Questo è il simbolo di Hermes, non di Esculapio,” commentò Mari, un po’ scandalizzato.
“Il dio dei soldi, dei mercanti e dei truffatori: lo trovo genialmente adatto,” rispose Sensi, debolmente. “E, per la cronaca, la mia eterosessualità è traballante come tutto il resto, ma non ho mai pensato che la cultura fosse seducente.”
Mari sbuffò e tornò verso di lui con in mano un’enorme confezione di garza sterile.
“Togliti quella felpa di dubbio gusto e non fare tanto lo spiritoso. Ti ho già sparato una volta.”
Sensi ridacchiò.
“Poi mi dovrai spiegare che cosa ci fa un gay tatuato e grosso come una montagna nella linda e venerabile arma dei carabinieri.” Iniziò a sfilarsi la felpa degli Alien Sex Fiend e scoprì che per farlo avrebbe dovuto inevitabilmente alzare il braccio sinistro.
“Semplice: picchio spacciatori, gli rubo quello che avanza e lo infilo nel mio naso, non è quello che insinuavi stamattina?” Mari gli prese il braccio, lo sollevò con malagrazia e finì di togliergli la felpa, insieme alla maglietta sottostante.
Sensi guaì. “Non è quello che fai?”
“Solo quando non mi reggo più in piedi. Adesso stai fermo. Sanguini.”
Mari si sedette sul divano dietro di lui e iniziò a svolgere i metri di benda chiazzata di sangue che gli avvolgevano spalla e torace.
“E comunque sei troppo mingherlino per i miei gusti.”
“Mh-mh. Meglio essere ferito nell’orgoglio che essere ferito nella carne.”
“E quello che cazzo è?”
Sensi si voltò e gli lanciò un’occhiata vaga. Ovviamente Mari si riferiva all’intrico di cicatrici quasi invisibile che aveva su un lato del petto.
“È parte del nostro problema,” rispose, con voce neutra.
“È un fottuto pentacolo,” replicò l’altro.
“Già.”
Mari gli staccò con una certa delicatezza il quadrato della medicazione davanti alla spalla. “Manin mi ha detto che eri stato sotto per qualche anno. Be’, me l’ha detto tra un insulto e l’altro.”
“Già,” ripeté Sensi.
“Ok, ma sotto dove?”
Sensi fece una smorfia. “Ne possiamo parlare quando avrai finito con quella spalla? Non mi sento a mio agio con una gigantesca checca tatuata dietro alla schiena.”
Mari staccò anche l’altro quadrato di garza imbottita, dietro la spalla.
“Questo è sessismo.”
“Se ti può confortare, non sarei a mio agio neanche con un enorme carabiniere etero dietro la schiena.”
“Dicono tutti così.”
“Da questo evinco che per te non è la prima volta. Gli altri sono sopravvissuti?”
Mari gli rivolse un sorriso smagliante.
“Solo alcuni,” ghignò.

Mezza sega - 4

Più tardi si svolsero anche altre conversazioni.
La prima ebbe luogo nel lussuoso ufficio del questore Salvemini. Sensi fu fatto entrare dall’anziana segretaria e cercò di non strizzare troppo gli occhi per la luce.
Il questore, senza dire una parola, tirò fuori da un cassetto della scrivania la Beretta calibro 9 del commissario e il commissario se la riprese, anche lui in silenzio. L’aveva consegnata al suo superiore tempo prima per scopi tutt’altro che limpidi, ma adesso ne aveva di nuovo bisogno.
Se la infilò sotto la giacca e fece per andarsene.
“È un peccato, per la sua Les Baer,” commentò Salvemini, in tono neutro.
“Già,” rispose Sensi, e se ne andò davvero.
Quello che il capo voleva dire, ovviamente, era che sapeva benissimo che non l’avrebbe mai ritrovata e che non gliene importava niente: l’importante e era che adesso, se gli capitava, usasse la Beretta nel modo giusto. In effetti avrebbero proprio avuto bisogno di un cadavere per mettere la parola fine a un caso che si protraeva da troppo tempo. Sensi, mentre scendeva in ascensore, si chiese come facesse Salvemini ad alzarsi tutte le mattine con la consapevolezza di essere Salvemini. Doveva essere fottutamente impegnativo.
La seconda conversazione ebbe luogo davanti all’ufficio di Sensi.
Mainardi dondolava lì attorno, con aria tutt’altro che innocente, da dieci minuti buoni.
“Capo, non sapevo che avessi una Les Baer,” iniziò, speranzoso.
Sensi non lo calcolò neanche di striscio. “Non sono un appassionato di armi da fuoco, sono solo un tiratore naturale. Quindi… sai quel film in cui tu e io facciamo lunghe chiacchierate su otturatori e munizioni? Scordatelo subito.”
Poi gli girò intorno e si diresse verso la sua terza conversazione della mattinata.
Mari, come si aspettava, era in bagno.
Si era tolto l’uniforme da carabiniere e probabilmente l’aveva riposta nella sacca da calcio sulla quale sedeva, fumando una sigaretta.
“Non ero sicuro che avessi capito,” disse.
Sensi si appoggiò a un lavandino. “Dovevo passare da Salvemini, ma, tranquillo, nessuno, di solito, mi informa in modo così enfatico che deve andare a cagare. Specie se l’ho appena conosciuto.”
Mari diede un lungo tiro alla sigaretta e sbuffò il fumo verso l’alto. “Non ci sono rilevatori, vero?” chiese.
“Non c’erano neanche nel mio ufficio, se per questo. In compenso non c’era puzza di piscio.”
L’altro sorrise. “Sono un po’ paranoico.”
“Direi che per uno che dà la caccia agli spacciatori è normale, ma tu devi aver aggiunto alla tua normale paranoia anche qualche additivo extra.”
Mari emise un’altra nuvole di fumo. “Non fare l’innocentino, commissario. Nel mio lavoro restare svegli è importante.”
“Sono felice di non fare il tuo lavoro.”
L’altro rise, poi si alzò in piedi e buttò la cicca in un water.
“Ora che abbiamo fatto amicizia parliamo del fatto che non ti hanno rubato l’ipod?”
“Era un lettore mp3 della Sony.”
L’altro rise di nuovo. “Ooookay.”
“E comunque non funziona più. Non so perché.”
“Questo è davvero strano,” commentò Mari, tutto serio. “Quasi più strano del fatto che quel tizio è scomparso nell’aria come se non fosse mai esistito.”

giovedì 30 luglio 2009

Mezza sega - 3

La mattina seguente il commissario Ermanno Sensi comparve in questura a mezzogiorno e mezza, per una volta pienamente autorizzato dalle circostanze. Infilarsi la felpa degli Alien Sex Fiend era stato un incubo, specie perché Carmel aveva insistito per “aiutare”. Il suo braccio sinistro era appeso al collo per mezzo di un’ex fascetta frontale del Wave-Gotik-Treffen, che non era proprio il genere di reliquia che Sensi volesse ammettere di possedere. Non per il Wave-Gotik-Treffen, beninteso, ma perché il concetto stesso di fascetta frontale era troppo estremo persino per lui.
All’una nel suo ufficio si era radunata una piccola folla: la sua squadra, il brigadiere Mari e, scesi dall’alto dell’Olimpo, il questore Salvemini e il generale dei carabinieri Manin. Il generale era sembrato sconcertato dalla sistemazione, ma non aveva detto niente. Era un signore dai capelli color ferro e dalla mascella ferma, che in uniforme sembrava almeno dieci centimetri più alto del suo metro e sessanta. Ciò non toglieva che vicino a Salvemini, al quale arrivava poco sopra il gomito, sembrava il pupazzo di un ventriloquo in abito sartoriale.
“Grazie per essere venuti,” esordì il questore, e i suoi piccoli baffi a forma di mosca svolazzarono in modo lugubre. “Generale, grazie per il suo tempo.”
Il generale fece un piccolo gesto secco con il capo.
“Prima dell’avvio dell’inchiesta ufficiale era nostra intenzione comprendere lo svolgimento dei fatti in modo più… informale.”
“Sono perfettamente d’accordo,” disse Manin, serio come una lapide nera di piccole dimensioni.
Sensi pensò che fosse il momento giusto per mettersi a sedere con aria affaticata.
Che fosse affaticato, poi, era perfettamente vero. Una persona più decente di lui avrebbe senza dubbio approfittato della notte per dormire, ma probabilmente quella persona più decente di lui non avrebbe neanche lasciato che una donna dalle gambe chilometriche si infilasse nel proprio letto e via discorrendo.
“Commissario?” gli lasciò la parola Salvemini.
Mainardi, in un angolo particolarmente scuro, tirò fuori il suo taccuino di soppiatto. Quella doveva raccontarla in mensa senza tralasciare un dettaglio.
“Hem. Ieri notte, verso le due,” iniziò Sensi, in tono accuratamente neutro, “stavo camminando per via Nino Bixio con il mio lettore mp3 comprato di fresco nelle orecchie quando un tizio mi ha superato di corsa e mi ha strappato appunto il lettore mp3.”
La Riu, poco dietro il questore, fece una smorfia che esprimeva pienamente la sua opinione sui lettori portatili, sull’abitudine delle passeggiate notturne in quartieri malfamati e anche sulle preferenze musicali del capo.
“Visto che l’avevo, hem, pagato una cifra,” continuò il commissario, imperturbato, “mi sono gettato all’inseguimento. Ho preso il ladruncolo per il cappuccio della felpa ed è seguita una breve colluttazione, alla fine della quale l’altro è riuscito a scappare. Ho ripreso a inseguirlo e ho, hem, tirato fuori la pistola. Poi hanno sparato a me.”
Il brigadiere Mari, a quel punto, si sentì in dovere di fare un passo avanti. Con l’uniforme nera dei carabinieri e senza i piercing sembrava un fascistello in parata.
“Avendo assistito alla scena,” dichiarò, rigidamente, “e avendo osservato il commissario estrarre la pistola; ignorando la sua identità e la sua appartenenza alle forse dell’ordine… estraevo l’arma di servizio e lo colpivo a una spalla.”
Sembrò che nessuno, a parte Sensi, trovasse inusuale la forma sintattica scelta dal brigadiere, perché tutti annuirono compitamente. Sensi si rimangiò l’amen che aveva sulla punta della lingua.
“Qualche domanda,” intervenne il generale Manin. “Commissario, ha dichiarato di avere estratto la sua arma di servizio…”
“No,” corresse Sensi. “Non era la mia arma di servizio. Era una pistola da gara, una Les Baer 1911 ultimate master combat, .38 super. E noti che ho usato il passato, perché quella pistola, che costava scarsi tremila dollari, è rimasta per terra e ora probabilmente sta facendo la gioia di qualche rivenditore. O qualche delinquente di strada sta criticando il suo design con qualche altro delinquente ignorante.”
“Una pistola da competizione,” sottolineò il questore, “che ci ha fatto vincere un discreto numero di medaglie.”
Sensi sospirò. “In realtà non intendevo sparargli. Intendevo sbattergli il calcio sopra quella zucca vuota, il che probabilmente non mi rende meno blasfemo del delinquentello ignorante di cui parlavo prima.”
L’ispettore Mainardi, che ovviamente era un fanatico della domenica delle armi da fuoco, fu l’unico a sembrare oltraggiato, e smise persino per un attimo di prendere appunti.
“Il fatto è che era in borghese,” disse Mari, in tono vagamente difensivo, “e a quella distanza non potevo certo accorgermi che aveva in mano una pistola da competizione.”
“Però avrebbe dovuto recuperarla!” sbottò Manin. “Non lasciare armi sulla scena di una sparatoria è una norma di elementare prudenza, oltre a essere scritto in chiare lettere sul manuale!”
Mari si morse la lingua e provò ad assumere un’espressione contrita. La sua espressione contrita, in un vicolo scuro, avrebbe fatto scappare qualsiasi creditore a gambe levate.
“Si stava accertando che non mi dissanguassi,” andò in suo soccorso il commissario.
Alzò il palmo destro verso il soffitto. “È stata sfiga, tutto qua.”
Il generale Manin non sembrò particolarmente soddisfatto della spiegazione.
“Non mi interessa come è successo! Non doveva succedere. Adesso voi due vi metterete alla ricerca di quella pistola, possibilmente prima che qualcuno la usi per uccidere un innocente!” Era diventato di una ricca sfumatura color porpora. Lanciò un’occhiata inceneritrice a Salvemini. “Se il mio collega questore è d’accordo, naturalmente!”
Salvemini sarebbe stato d’accordo praticamente su ogni cosa, pur di levarsi dalle scatole quell’ometto dal carattere preoccupante. E poi un Sensi invalido sembrava ancora meno utile di un Sensi nel pieno possesso del suo corpo.
“Sono completamente d’accordo,” disse quindi, con espressione seria.
Sensi fece vagare lo sguardo sul soffitto, che come sempre si perdeva nell’ombra e borbottò il suo signorsì.
Mari, invece, insorse: “Signore, mi sento in dovere di ricordarle che l’operazione in corso…”
“Lei non fa più parte dell’operazione in corso!” strillò Manin. “Lei deve considerarsi fortunato di fare ancora parte del corpo dei carabinieri!”
Detto questo si rivoltò come se un ratto l’avesse morso su una chiappa e si allontanò a lunghi passi dalla stanza.
“Già, che fortuna,” commentò, sottovoce, Sensi.

Mezza sega - 2

Al pronto soccorso tutta la vicenda causò inevitabilmente dell’umorismo. Il brigadiere Guido Mari era costernato, ma era anche incazzato come un toro.
A Sensi era stata fatta una lastra, che aveva accertato che il proiettile dell’altro era entrato e uscito, poi era stato medicato, spillato davanti e dietro la spalla e avvolto in qualche chilometro di garza. Alla sua ennesima protesta gli era finalmente stato dato dell’antidolorifico via flebo.
Mari era rimasto accanto a lui praticamente tutto il tempo, facendogli una serissima radio-cronaca di quello che gli stavano facendo, inframmezzata ad aneddoti di servizio: sembrava che gli avessero sparato in ogni punto disponibile e Sensi era quasi dispiaciuto che quella fosse la sua prima volta.
Alla fine, grazie al cielo, arrivò l’ispettore capo Tudini.
Era trafelato, preoccupato e praticamente in pigiama.
“Ermanno! Che cosa è successo?”
Sensi, seduto su una barella a torso nudo e ormai completamente incerottato, sorrise debolmente.
“Questo pezzo d’asino mi ha sparato,” disse.
“Be’, il pezzo d’asino me lo merito, ma anche il vostro commissario, qua, non ha brillato per astuzia,” ribatté Mari, piccato.
“Ma insomma, che cosa è successo? L’agente Giusti mi ha chiamato in lacrime!”
Mari lanciò a Sensi uno sguardo tra il perplesso e il divertito.
“È la nostra segretaria,” spiegò il commissario. “Chi è stato l’idiota che ha detto a Bianca che mi avevano sparato?”
“Non lo so. Tu a chi hai telefonato?”
Sensi sospirò. “A Mainardi. Era nelle ultime chiamate.”
Esattamente in quel momento vicino all’ingresso si scatenò un immenso putiferio. Non era chiaro che cosa stesse succedendo, ma c’era una donna che gridava insulti in spagnolo e un infermiere che gridava insulti in italiano.
“Non te permettere de darmi della puta, hijo d’un cabron!” si sentì strillare.
“Forse è meglio che vada a controllare,” si offrì Mari, che evidentemente non vedeva l’ora di trovare un diversivo.
“Sì, vedi se riesci a sparare anche alla mia donna,” replicò Sensi, piccato, scivolando giù dalla barella. Barcollò un po’ e poi si diresse verso l’entrata del pronto soccorso. La porta scorrevole si aprì a rivelare più o meno lo scenario che si aspettava. Carmel stava tirando fuori dalla borsetta lo spray al peperoncino.
“Non è veramente necessario,” disse Sensi, debolmente, “ma se vuoi dargli una spruzzata non sarò certo io a fermarti. Non voleva darmi gli antidolorifici.”
“Manno!” esclamò Carmel, e lo abbracciò. Sensi guaì per il dolore.
“Commissario, questa signora…” iniziò l’infermiere, con aria truce.
“Questa signora è la mia signora. Svolge l’ingrata professione di barista – e non di prostituta, come credo abbia involontariamente lasciato intendere di pensare – ha un regolare permesso di soggiorno e probabilmente la denuncerà per qualcosa. Per idiozia, forse.”
A quel punto Sensi barcollò ancora, si appoggiò a Carmel e iniziò a tornare con passo strascicato verso l’interno del pronto soccorso.
“Ermanno, me ha chiamata Bianca… me ha detto che te avevano sparato… forse matado…”
“See, e anche torturato e sventrato. Tudini, chiama Bianca e cerca di fermarla, prima che vada a raccontare in giro che mi hanno stuprato, incaprettato e sacrificato su un altare.”
“Comunque stuprarte sarebbe difficilissimo,” commentò Carmel, a mezza voce, mentre lo aiutava a risedersi sulla barella.
Tudini scomparve dietro una tenda verde, ricomparve poco dopo con la faccia di uno strano colore e scomparve di nuovo dietro una paratia.
“Credo che Max sia appena incappato nell’incidente stradale di cui parlavano al mio arrivo,” disse il commissario, serafico. “Pare che un motorino si sia stampato contro un suv.”
Mari, granitico, si riposizionò accanto alla barella. Guardò Carmel, fatto abbastanza insolito, come se fosse un pezzo di mobilia e sorrise civilmente.
“Sono il brigadiere Mari,” disse. “Temo di essere stato io a sparare a suo marito.”
Sensi ebbe la tentazione di tapparsi le orecchie. Carmel, probabilmente, a quel punto avrebbe sentito il bisogno di spiegare che non era sua moglie e anche il perché, e quella non era mai una disquisizione piacevole per il commissario.
“E per quale ragione el avrebe sparato?” ribatté, invece, Carmel, contrariamente a tutte le aspettative del commissario.
In realtà, una volta scomparso l’infermiere razzista e una volta constatato che Sensi era tutto d’un pezzo, sembrava essersi notevolmente calmata. Indossava un corto piumino nero, dal quale spuntavano le sue lunghissime gambe, fasciate in un paio di jeans piuttosto aderenti, E questo, unito al fatto che era dominicana, presumibilmente era il motivo per cui l’infermiere aveva pensato che fosse una lucciola, e per cui Sensi pensava che Mari fosse gay.
“Ecco, signora, è un po’ difficile da spiegare. È stato un malinteso, diciamo.”
“Ah, ecco. Un po’ come Carlo Cigliani,” ribatté Carmel, sarcastica.
“Credo che tu intendessi Carlo Giuliani,” sospirò Sensi. “Noi, storicamente, preferiamo finestre aperte e spranghe di ferro.”
“Sempre grilletti facili,” tagliò corto lei.
Sensi guardò il soffitto del pronto soccorso. “Se adesso potesse centrarmi in piena fronte, brigadiere, gliene sarei grato.”

mercoledì 29 luglio 2009

Mezza sega - 1

Sensi, una volta, era stato accoltellato. Be’, a dire il vero non era proprio stato accoltellato, comunque aveva finito per trovarsi con un taglio bello grande.
In ogni caso non gli avevano mai sparato, fino a quel momento.
Di primo acchito, pensò: ahia.
Poi pensò: be’, non fa così male.
Infine svenne per il dolore.
Quando si risvegliò la situazione non era migliorata in modo significativo. Era ancora notte ed era ancora in via Nino Bixio, vicino alla stazione, ma adesso era per terra, con la faccia a qualche centimetro da una merda di cane e con un dolore praticamente insopportabile alla spalla sinistra. Inoltre sembrava che qualcuno lo stesse sollevando senza tante cerimonie.
Sensi fu bruscamente fatto accomodare sulle proprie chiappe dallo stesso tizio che gli aveva sparato.
Era un uomo sulla trentina, con le spalle troppo larghe per essere vere, due piercing infilati nel setto nasale, diversi altri alle orecchie, la testa rasata, il collo tatuato e gli occhi di un pazzo. Lo stava facendo rialzare tenendolo per la spalla ferita, cosa che probabilmente l’avrebbe rimandato presto in black-out.
“Sei in arresto, stronzo,” sentì dire.
Per un attimo pensò che quella frase fosse uscita dalle sue labbra. In questo caso era finito nelle posizioni alte della top ten degli imbecilli integrali.
Poi si rese conto che lui non avrebbe mai detto niente del genere e dovette arrendersi all’evidenza: lo avevano appena arrestato ed era il tizio tatuato a essere appena finito nella top ten degli imbecilli integrali.
“Sono il commissario capo della squadra mobile, immondo idiota,” rispose, quindi, con voce debole.
L’altro per un istante sembrò confuso.
“Oh, merda,” disse, alla fine.

L'appartamento di sopra - 22

Il demone che aveva visto la mattina precedente era lì, vicino alla porta. Era ancora più orribile di come lo ricordava, con l’enorme corpo da ratto e la testa d’uccello, un brutto uccello nero con un becco smisurato e crudele.
Sentì che qualcuno la spostava.
“Devi tornare da dove sei venuto,” disse Sensi. “Proprio là. Quella è la porta.”
Il demone emise un suono raccapricciante, simile allo stridere di uno stormo di uccelli.
“Te lo ordino, idiota,” aggiunse Sensi.
Allora quell’orrore vivente si lanciò verso di lui emettendo nuovamente il suono stridente simile a quello di uno stormo di uccelli.
Era alto un metro buono più di Sensi e largo più del doppio e l’impatto fu simile a quello di un tir contro un'utilitaria. L'utilitaria, tuttavia, reagì con una furia che il tir non doveva aver messo in conto.
Il commissario cercò di spingere via quell’essere abnorme, colpendolo con i palmi aperti, con gli anfibi e con i gomiti. Per buona misura gli diede anche una testata, ma purtroppo la sua fronte si scontrò solo con il pelo nauseabondo del petto del demone.
Il demone aveva una sorta di manine artigliate simili a quelle di un roditore e fu con quelle che cercò di prendere Sensi per le braccia. Il commissario si divincolò.
La sua posizione non era esattamente felice. Il demone l’aveva spiaccicato contro un muro e apparentemente aveva in mente di iniziare a beccargli la faccia.
Sensi l’aveva ripetutamente colpito ai coglioni, o là dove supponeva che potesse avere i coglioni, ma i suoi sforzi non avevano portato a molto. In compenso, però, era riuscito a evitare di farsi strappare gli occhi, in che modo Chiara non lo sapeva.
Pensò che avrebbe potuto aiutarlo in qualche modo, visto che sembrava che avrebbe avuto la peggio, e prese una padella dalla rastrelliera.
Era una buona padella, di acciaio inox, e le era anche costata un discreto gruzzolo.
La usò come una mazza da baseball per colpire la nuca del demone, afferrandola per il manico.
Il demone si voltò con aria stizzita, o almeno così sembrò a Chiara.
“No!” gridò Sensi, prendendolo per il becco con entrambe le mani. “Guarda qua, imbecille! Non ho ancora finito con te!”
Poi, chissà come, riuscì a spintonarlo e fargli perdere l’equilibrio.
L’idea doveva essere di gettarsi sopra al demone, questo Chiara lo capì subito, ma capì anche subito che il corpo del commissario era troppo leggero per tenerlo a terra a lungo.
Il demone rotolò e Sensi finì sotto.
Non doveva essere una posizione molto gradevole e Chiara si preparò a usare di nuovo la padella.
Ma poi, all’improvviso, il commissario riuscì a emergere e iniziò a prendere a cazzotti il demone sopra i piccoli occhietti da uccello. Il demone emise ancora il suo grido straziante.
Quello che successe dopo Chiara non riuscì a vederlo bene.
Il demone e Sensi presero a rotolarsi sul pavimento come in una rissa da bar. Il demone usò le mani artigliate per scavare un profondo graffio su una spalla del commissario, mentre questo continuava a colpirlo ovunque riuscisse ad arrivare.
La zuffa si fece sempre più vorticosa.
I due sbattevano contro i mobili, scalciavano e cercavano di infilarsi le dita (o il becco, nel caso del demone) negli occhi.
A un certo punto a Chiara sembrò che i corpi vorticassero così velocemente da sembrarle non più due, ma tre. Per un istante vide quello che sembrava un corpo lucido e color sangue, ma la scena era troppo confusa per poterne essere sicura.
Un attimo dopo Sensi, con una forza di cui Chiara non l’avrebbe mai creduto capace, afferrò il demone per il pelo del petto e iniziò a trascinarlo verso il sigillo sul muro.
“Vattene, ho detto!” gridò, con voce gutturale.
A calci e a pugni lo cacciò fin contro la parete, poi dentro la parete, poi ancora oltre.
A un certo punto solo una manina artigliata rimase fuori, e ancora cercava di graffiare.
Il commissario la prese a calci finché scomparve.
Si voltò verso Chiara, ansimante.
“Ce l’hai un pennarello?” chiese.
Lei attonita, annuì.
“E che ne diresti di prenderlo? O speravi di vedere un altro match?”
Chiara lasciò cadere la padella per terra e schizzò verso il frigo. Sopra, semi-sepolto tra foglietti e scontrini vari, c’era un pennarello da lavagna luminosa, verde. Lo diede al commissario.
Sensi lo guardò per un attimo con un certo scetticismo, poi si strinse nelle spalle e tracciò un cerchio attorno al sigillo del demone.
Infine ci disegnò sopra una grossa croce.
“Ecco,” disse, ammirando la sua opera.
Chiara si avvicinò.
“Se n’è andato?”
Il commissario annuì, asciugandosi la fronte con un braccio.
“E non tornerà più?”
“Be’, ecco quello che dovresti fare,” disse. “Quando hai un po’ di tempo, con uno scalpello incidi sull’intonaco il cerchio e la croce, poi prepari un po’ di malta e ci butti dentro del sangue tuo. Non importa che ti tagli di nuovo, voi donne siete agevolate in queste cose: basta che aspetti il periodo giusto del mese. Poi stucchi il cerchio e la croce con la malta, infine ridipingi tutto. A meno che il sigillo non ti piaccia un casino, è chiaro.”
Chiara aggrottò le sopracciglia.
“Scusa, vuoi dire che per non far entrare un demone basta una sorta di divieto di transito?”
Sensi sorrise. “Be’, i demoni sono molto più ligi degli esseri umani alla segnaletica verticale. E comunque sarebbe un segno di divieto di transito e di sosta, ora inizio a capire come si è prodotto quel famoso bozzo sulla mia jeep.”
Chiara si mise a ridere.
“Dio, è incredibile! Ho appena visto un tizio suonarle di santa ragione a un essere infernale e adesso siamo qua a parlare della tua macchina!”
Sensi si accigliò leggermente. “Sapevo che non avresti voluto che l’argomento fosse sollevato di nuovo.”
Chiara raddrizzò una sedia e gli disse di sedersi.
La sua cucina somigliava a un campo di battaglia, il tavolo era scheggiato, la padella bombata. Ma andava bene, quel coso non c’era più.
“Prendo un po’ d’acqua ossigenata per quel graffio,” disse, improvvisamente premurosa.
“Temevo che si sarebbe arrivati a questo,” bofonchiò Sensi.
Lei rise. “Cioè? Hai ancora paura che voglia giocare alla tua fidanzatina?”
L’altro inarcò le sopracciglia. “Quello di cui ho paura, nello specifico, è l’acqua ossigenata. Brucia.”
Chiara non lo ascoltò. Sembrava che nessuna donna potesse prendere sul serio un uomo quando lui diceva che l’acqua ossigenata brucia.
Invece andò in bagno e tornò fuori con cotone, acqua ossigenata e una benda.
“Lo vuoi fare davvero,” constatò Sensi, atterrito.
“Certo. Chissà cosa aveva quell’orrore sotto le unghie.”
“Oh, Cristo.” Sensi strizzò gli occhi e si preparò all’inevitabile.
Chiara iniziò a disinfettarlo. “Brucia,” disse il commissario, con voce lagnosa.
“Ma per favore, è acqua ossigenata!”
Sensi strinse gli occhi ancora più stretti.
“Insomma, non hai paura di un demone e fai tutte queste storie per un po’ di disinfettante? Guarda, ho finito.”
L’altro aprì le palpebre di mezzo millimetro, sospettoso.
“Ho finito,” ripeté Chiara e iniziò a bendarlo. “Ti ha ferito da qualche altra parte?”
“No!” strillò Sensi.
“Mh-mh… molto coraggioso, da parte tua.”
“Se adesso avessi finito con questa cosa da infermiera…” bofonchiò.
“Ho finito,” confermò lei. “E lascia che ti dica una cosa: pensavo che fossi un tipo interessante, ma sei un po’ troppo interessante, per i miei gusti.”
Sensi la guardò con aria divertita.
“Non ci posso credere. Mi stai scaricando.”
L’altra sorrise. “Esatto. Ne ho le scatole piene, di te.”
“Ok,” disse l’altro e si rialzò. “Conoscerti è stato uno spasso.”
“Ma se era quello a cui puntavi dal primo momento!” rise lei.
“Cosa? Fare a botte con un demone? Come no.”
“Farti scaricare.”
Sensi si strinse nelle spalle.
“Non c’è bisogno che ti scusi. L’ho capito che sei fatto così.”
Poi inclinò la testa da un lato. “Potremmo farci una scopatina d’addio, però, se non hai preso troppe botte.”
Sensi ponderò per un istante i pro e i contro.
“Eccheccavolo,” disse, poi, e si sfilò la maglietta dei Bauhaus.

FINE.

martedì 28 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 21

Sensi, ovviamente, aveva dimenticato di aver lasciato la macchina a Chiara. La cercò per un po’ nei dintorni dell’ospedale e stava quasi per chiamare i vigili e protestare in tono risentito per la rimozione quando si ricordò di dover usare i mezzi pubblici.
Prese un autobus senza biglietto e senza sapere con esattezza dove l’avrebbe portato.
Per fortuna l’autobus era il numero 1, che arrivava fino in viale Aldo Ferrari, abbastanza vicino alla casa di Chiara. Per sfortuna era pieno di vecchiette acciaccate, di bambini urlanti e di gente sudata.
Quando salì il controllore Sensi gli mostrò il distintivo. In fondo era un documento buono come un altro per trascrivere i suoi dati sulla multa. Il controllore, inaspettatamente, gli disse che andava bene così.
Sotto casa di Chiara, il commissario notò con piacere, era parcheggiata la sua jeep. Aveva un’ammaccatura nuova sulla fiancata destra, ma non tutto si poteva pretendere.
Specie quando una donna sosteneva di saper guidare benissimo.
Sensi suonò il campanello e salì fino all’appartamento di lei.
“Ehm, ciao, Ermanno, forse ti starai chiedendo che cosa è successo alla tua macchina,” furono le prime parole della donna, ancora sulla porta.
“A dire il vero no. So benissimo che cosa le è successo. C’era un ostacolo dove nessuno avrebbe sospettato che c’era, oppure è successo mentre tu non eri a bordo. Non importa.”
Chiara sembrò stupita.
“Non importa nel senso che non importa se si trattava di un ostacolo invisibile o se è successo mentre io non c’ero, o non importa nel senso che non importa?”
Sensi sorrise. “Non importa nel senso che non importa. Tudini è bravissimo a scrivere le note di riparazione.”
L’altra sorrise a sua volta, decisamente rinfrancata. “Bene. Allora che si fa ora? Spiegazioni?”
Sensi si andò a sedere al tavolo della cucina.
“Perché no? Tanto dobbiamo stare qua e aspettare. Certo, se ci fosse qualcosa da mettere sotto i denti sarebbe meglio. È da ieri sera che non mangio, e nel mio tramezzino c’erano dei cetrioli.”
Chiara aggrottò le sopracciglia.
“Be’, potrei avere delle Speedy Pizza. Nel tostapane sono niente male.”
“È anche uno dei miei piatti preferiti,” disse Sensi. “Mettile su.”
Chiara prese due Speedy Pizza dal freezer e le infilò nel tostapane, un buffo aggeggio a forma di topo.
“Ora mi servirebbe un po’ del tuo sangue,” disse l’altro, come se fosse la cosa più normale del mondo.
“Mio… sangue?”
“Già. Basta un taglietto sulla punta di un dito. Non vorrei doverti ricordare che mi sono gravemente lesionato una mano per proteggerti, ieri.” E dicendo questo mostrò la benda, ormai alquanto sporca, che gli avvolgeva la mano sinistra. “Per non parlare delle leccate dalla tua compagna di reparto.”
Chiara sembrò sul punto di fare resistenza, o quanto meno altre domande, ma alla fine sospirò rassegnata. Allungò la destra verso Sensi.
“Vedi,” disse lui, tirando fuori il temperino e sterilizzandolo alla fiamma dell’accendino, “evocare un demone senza sapere come fare è un gesto davvero sconsiderato. Ho almeno un’ottima ragione per dirlo.”
Prese la mano dell’altra e infilò la punta del temperino nella punta del suo indice.
“Ai!” fece Chiara.
Sensi la portò con sé fino a un muro bianco e iniziò a usare il suo dito per tracciare qualcosa. “Penso che anche Johan fosse di questo parere. Probabilmente è per questo che l’altra sera lui e Paolo hanno litigato. Probabilmente Johan gli stava dicendo quanto fosse stupido evocare un demone senza sapere come fare, anche un demone apparentemente utile come Dantalian. Ma forse gli stava solo dicendo che voleva cambiare la tappezzeria, chi lo sa.”
Il dito di Chiara aveva smesso di sanguinare, e così Sensi piantò la punta del temperino in quello seguente.
“Ai!” fece, di nuovo, lei.
“Poi, certo, Paolo deve aver deciso di procedere ugualmente con l’evocazione, solo che doveva mettere a nanna Johan. E così gli ha dato un narcotico da cavallo, che l’ha spedito nel regno dei sogni per un bel pezzo.” Sensi aveva quasi finito la sua opera d’arte, che somigliava in modo preoccupante al sigillo dell’appartamento di sopra.
“Poi ha versato un po’ del proprio sangue e ha evocato Dantalian. Dantalian, Dantalian, con il tuo nome ti chiamo…” continuò, senza cambiare tono. “…Con il tuo sigillo e con il sangue di una donna…”
Sensi lasciò andare la mano di Chiara e tornò in cucina. Controllò le Speedy Pizza nel tostapane.
“Quasi pronte,” disse. “Il problema è stato che Dantalian è arrivato, e Paolo non aveva pensato di tracciare anche un cerchio. E di spostarsi fuori dal cerchio, ma questo è un errore che avrebbe potuto commettere chiunque. Però almeno al cerchio avrebbe dovuto pensarci.”
Il commissario tirò fuori una pizzetta, guaì per il dolore (era rovente) e la rimise nel tostapane.
“Hai mica un foglio di scottex?”
Chiara si mosse come un automa verso un mobiletto, tirò fuori un rotolo di scottex e ne strappò due fogli. Il commissario tornò a estrarre la pizzetta.
“Ora, se chiami un demone e non vuoi che ti faccia fuori all’istante, un cerchio è davvero utile. Altrimenti,” Sensi diede un morso alla sua pizzetta, “lui fa la cosa più logica che possa fare un demone. Uccide l’unica persona che gli possa dare degli ordini e se ne va libero. Non vuoi la tua pizzetta?”
“Mi è passata la fame,” rispose Chiara.
“Quindi posso mangiarla io?”
“Certo.”
Sensi, soddisfatto, diede un altro morso alla sua Speedy Pizza. “Quindi, ecco, questo è quello che è successo. Io, come uno scemo, pensavo che Dantalian non fosse venuto e che Paolo l’avesse ucciso qualcun altro. Certo, lui aveva camuffato le sue tracce abbastanza bene. Mi sembrava di aver sentito qualcosa nella tua stanza da letto, ma poi ho creduto che fosse solo un po’ di residuo dell’evocazione.”
Sensi appoggiò la pizzetta, quasi finita, sul bancone della cucina.
“Invece…” disse, con lo sguardo fisso su un punto alle spalle di Chiara.
Lei si voltò.

lunedì 27 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 20

Il reparto di terapia intensiva, come un po’ tutti gli altri reparti del Sant’Andrea, era difficilissimo da trovare. Le frecce delle indicazioni puntavano in direzioni approssimative, i corridoi giravano in tondo fino a farti perdere l’orientamento e i nomi dei reparti di solito erano sul lato sbagliato dell’edificio.
Comunque, alla fine, Sensi trovò il piano, il lato e il continuum spazio-temporale giusto.
Sulla porta lo attendeva un Mainardi comprensibilmente sulle spine e un medico dall’espressione allucinata.
“Commissario, non so che cosa dirle…” iniziò il medico “…non era mai successo che…”
“Capo, mi sono addormentato, ma ti giuro che dormivo pianissimo, con un occhio mezzo aperto…”
“Ah, quindi in tutto eri sveglio per un quarto. Un’ottima media, Mainardi. Dottore…” aggiunse poi, rivolto al medico, “mi faccia vedere, alle denunce per inadempienza penseremo più tardi.”
Il medico sembrò sul punto di avere un colpo apoplettico. Quantomeno, pensò Sensi, era nel posto giusto al momento giusto, il che non si poteva dire di lui, che era stato per tutta la notte al posto sbagliato al momento sbagliato. E gli avevano anche leccato la faccia.
Seguì il medico barcollante fino in fondo al corridoio del reparto, dove, davanti a una porta chiusa, stazionavano due agenti in divisa e un Tudini con la faccia verdastra.
“Ciao, Ermanno,” disse, “ti avviso che non è un bello spettacolo.”
“Neanche tu lo sei, eppure ti vedo ogni mattina da diversi anni,” rispose Sensi, battendogli una pacca sulla spalla. Poi aprì la porta.
Quello che un tempo era stato Johan Milovich ora si riassumeva in una serie di escrescenze sanguinolente su un letto d’ospedale. Guardando meglio si poteva notare che le escrescenze in questione erano le sue costole, che spuntavano come dita scheletrite da quel che restava della cassa toracica. La testa non era in vista da nessuna parte, a meno che non si volesse considerare la poltiglia raggrumata sul cuscino.
L’odore era un mix di orrore, merda e roba avariata, così forte che l’aria sembrava solida.
Sensi si appoggiò al muro e tossì un paio di volte.
L’orribile lezzo copriva quasi del tutto un altro lezzo, un lezzo che il commissario aveva già sentito, debole, in casa di Chiara.
Uscì dalla stanza e si chiuse la porta alle spalle.
“Capo, non so come abbia fatto a entrare!” disse, immediatamente, Mainardi, che evidentemente lo aspettava al varco.
“La porta del reparto durante la notte è chiusa!” aggiunse il medico di prima, paonazzo.
Sensi si passò una mano sulla faccia, sentendo la barba di un paio di giorni.
“Non dovete spiegarlo a me,” disse, cupo, guardando qualcosa dietro le loro spalle. “Dovete spiegarlo al questore Salvemini.”
Salvemini era un uomo imponente, eternamente abbronzato, con l’aria sportiva e nemmeno un capello in testa. Forse per compensare la calvizie, ai lati della bocca aveva due piccoli baffi simili a mosche, che quando parlava sobbalzavano come se ronzassero.
In quel momento, però, erano ferme come se fossero morte da un paio di giorni e la bocca aveva una decisa piega verso il basso.
Salvemini avanzò a lunghi passi, ogni passo di un paio di chilometri, fino a loro e, senza degnare né il medico né i poliziotti di uno sguardo, entrò dentro la camera chiusa.
Uscì quasi subito.
Se i due baffi-mosca prima erano sembrati morti adesso sembravano stecchiti.
Sempre senza una parola, prese Sensi per un braccio e lo spinse un po’ più in là nel corridoio.
Poi lo fissò con uno sguardo che un osservatore poco attento avrebbe potuto scambiare per implorante.
Pur tra i suoi mille difetti, Sensi non era un cattivo osservatore, se aveva modo di concentrarsi. Lo sguardo del capo diceva, con buona approssimazione: ti imploro, dimmi che sai chi è stato, altrimenti le tue chiappe finiranno su una graticola di proporzioni ciclopiche.
“Mi dica qualcosa, commissario,” esordì Salvemini.
Sensi si rese conto che non era il momento giusto per rispondere “qualcosa”. “Vorrei poterle dire che so chi è il colpevole, questore,” disse, quindi, “ma il problema è che so chi è stato, e non possiamo arrestarlo.”
Il questore inarcò le sopracciglia, che erano prive di peli come il cranio.
“L’unica cosa che posso prometterle è che non ucciderà più nessuno.”
“La stampa non si accontenterà di sapere che non ucciderà più nessuno, Sensi.”
Il commissario fece un piccolo sorriso. “La stampa non sa ancora che è morto qualcuno,” rispose.
Salvemini aveva avuto un certo numero di anni per pentirsi di aver voluto quello strano commissario come capo della sua squadra mobile. Durante quegli anni era stato prossimo a pentirsi un gran numero di volte.
Ad esempio, era stato sul punto di pentirsi quando aveva guardato le ore di presenza in questura del suo commissario, e aveva scoperto che erano incredibilmente poche.
Si era quasi pentito quando gli avevano riferito che Sensi scaricava musica illegalmente sul suo computer dell’ufficio.
Infine, era stato vicinissimo a pentirsi quando l’aveva visto per la prima volta.
Ma, di fatto, in tutto quel tempo, per un motivo o per l’altro aveva finito per non pentirsi mai e se questo faceva di lui uno stupido, quanto meno era uno stupido coerente.
La sua strategia, fino a quel momento, era stata di fingere di non notare le bizzarrie del commissario. Comunicava con Tudini come se Sensi non esistesse o, quanto meno, non fosse alle sue dirette dipendenze. Era una strategia complessa, ma non si poteva dire che Salvemini fosse un uomo lineare, e comunque aveva funzionato.
Certo, perché funzionasse doveva fare poche domande. Praticamente nessuna.
“Di che cosa ha bisogno?” si limitò a chiedere, quindi. E poi, almeno, il commissario aveva dei gusti architettonici decenti.
Sensi ci pensò per un attimo.
“Un cadavere,” disse, alla fine. “Il cadavere di un noto criminale, sforacchiato dai proiettili di questa pistola.”
Dicendo questo si sfilò l’arma di ordinanza da sotto la maglietta e la consegnò al questore.
Salvemini la guardò per qualche istante, poi se la fece sparire dentro la costosa giacca di sartoria.
Si voltò senza aggiungere altro, e si incamminò verso l’uscita. Aveva una ruga dritta in mezzo alla fronte: non solo ci sarebbero voluti dei mesi perché qualcun altro uccidesse un criminale o quello morisse da sé, ma si stava anche rischiando la carriera.
Però non aveva detto niente.
Come al solito.
Sensi tornò verso i suoi uomini.
“Capo, ti ha sospeso?” chiese Mainardi, a metà tra il preoccupato e il sollevato.
“Puoi mettere via lo spumante,” ribatté Sensi. “Ha detto Salvemini che se non risolvo questo caso ti ucciderà e poi mi darà la colpa.”
Mainardi deglutì.
“In ogni caso,” aggiunse Sensi, “finite gli accertamenti di rito, portate via il cadavere e poi occupatevi d’altro. A questo tizio ci penso io.”
“Ma…”
Sensi fissò Mainardi e l’ispettore notò quello strano fenomeno, quello per cui, quando Sensi era arrabbiato, i suoi occhi sembravano diventare color sangue.
“Fine delle domande,” ringhiò, e Mainardi pensò che raramente era stato così felice di eseguire un ordine.

L'appartamento di sopra - 19

“Adesso potresti spiegarmi qualcosa?” disse Chiara, quando furono sulla jeep di lui. Indossava di nuovo un completo abbigliamento da uscita, per quanto la maglietta fosse un po’ stropicciata.
In ogni caso lo stesso si poteva dire della maglietta di Sensi, che per un motivo o per l’altro non se la cambiava da due giorni.
“Non sapevo che lavorassi nella casa per anziani di San Terenzo,” rispose lui.
“Sì, faccio l’OTA.”
“Non ho mai provato alcun trasporto per le discipline orientali,” commentò il commissario.
Chiara lo guardò in cagnesco. “Significa…”
“Operatore Tecnico Assistenziale, lo so.”
“Già. Queste spiegazioni?”
Sensi si immise in via Buonviaggio, imprecando contro il traffico di metà mattinata.
“Be’, qualcuno ha visto il tuo stesso mostro dentro la casa di riposo,” confessò, alla fine.
“Almeno significa che non sono matta, eh?”
Sensi inarcò un sopracciglio. “Non te l’avevo già detto io?”
“Sì, ma tu non conti. Sei più matto di me.”
“Oh, eccellente. Ti ricordo che stamattina, per proteggerti, sono stato leccato da…”
Il telefono del commissario iniziò a emettere la consueta musichetta lugubre.
“Sì?” rispose lui, con aria seccata.
Ascoltò per qualche minuto.
“Arrivo,” disse, alla fine.
Si voltò verso Chiara. “Se ti lascio le chiavi della macchina posso sperare che la ritroverò tutta intera?” chiese, con un’espressione indecifrabile negli occhi.
“Guarda che io guido benissimo!”
Sensi sospirò. “Allora andremo all’ospedale, poi tu tornerai a casa con la mia jeep.”
“Ospedale? Quale ospedale? Io al Felettino non ci torno!”
L’altro ospedale,” precisò Sensi.

domenica 26 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 18

A svegliarlo fu una sensazione di umidità su una guancia. In un primo momento pensò che un cane gli stesse leccando la faccia, ma non appena si ricordò di essere in un letto del reparto psichiatrico iniziò a pensare che era molto strano che avessero lasciato entrare un cane.
Socchiuse cautamente gli occhi.
Sopra di lui c’era la faccia paffuta di una vecchietta sdentata e sorridente.
“Il principino si è svegliato!” esclamò, deliziata.
Sensi si prese un istante per analizzare la situazione. La vecchietta probabilmente non era così vecchia, doveva essere sulla sessantina. Indossava una larga vestaglia di flanella a fiori arancioni e aveva corti capelli grigi. Gli stava sorridendo in modo estatico.
“Hem… sì, signora, mi sono…” provò a dire, ma la donna si chinò di nuovo su di lui e gli leccò il lato della faccia.
“Guardi, le giuro che sono sveglio…” brontolò Sensi, spingendola indietro proprio come avrebbe fatto con un cane.
“Ora ti porto una bella colazione, principino!” disse la tizia e Sensi ebbe il sospetto che l’avrebbe leccato di nuovo. Chiara, nel frattempo dormiva tranquillamente.
“Ehm, non importa signo-”
“Che cosa succede qua?”
Sensi spostò lo sguardo sulla porta e la tizia con la vestaglia a fiori si girò di scatto. La dottoressa Pagano li osservava con un certo cipiglio.
“Questa è la sua stanza, Agnese?” interpellò la signora con la vestaglia, in tono severo.
“No, dottoressa,” sorrise l’altra, con aria innocente.
“E non abbiamo detto che leccare le persone non è educato?”
La signora, chiaramente, sapeva di essere nel torto, perché non rispose.
“Torni in camera sua,” concluse la psichiatra. La signora Agnese se ne andò, un po’ mogia. “In quanto a lei, commissario,” aggiunse la dottoressa, “questa mattina è arrivata la revoca del TSO. Si può portare via la sua testimone dopo il giro di visite.”
La dottoressa Pagano sospirò. “Lasci che le dica che i suoi metodi non mi piacciono per niente.” Poi fece un piccolo sorriso, addolcendosi un po’. “Ma condivido i suoi gusti architettonici.”
Sensi rimase a fissare la porta vuota per qualche secondo, prima di sorridere a sua volta.

L'appartamento di sopra - 17

L’infermiera del turno di notte non era stata entusiasta di vederlo. Lo psichiatra che cercava di dormire su una brandina, poi, fu talmente scocciato che gli disse di sì solo per poter tornare a stendersi.
Sensi entrò nella stanza di Chiara, dove le luci erano già state spente per la notte e si guardò silenziosamente attorno.
“Chi c’è?” disse una voce fioca, dal letto.
“Sono io, dormi,” rispose il commissario.
“Che cosa ci fai qua?”
“L’atmosfera mi è piaciuta così tanto che ho deciso di tornare. Dormi, ora. Io mi stenderò sul letto vuoto.”
“Ma…”
“Ma ne parleremo domani mattina, quando leveremo il culo di qua.”
La frase era stata pronunciata in tono piuttosto definitivo e Chiara si tappò la bocca. Sensi si slacciò gli anfibi e si stese sul letto vicino alla finestra, sopra alle lenzuola.
Si raggomitolò in posizione fetale e si addormentò quasi subito.

sabato 25 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 16

La casa di riposo era un grande palazzo giallo che passava sopra alla strada formando un arco. le luci erano tutte accese e quando Sensi e Mainardi entrarono, dopo aver parcheggiato rigorosamente in divieto, videro che c’era un certo numero di anziani signori piuttosto eccitati. Un vecchietto che assomigliava alla mummia di Tutankamon li sorpassò manovrando un deambulatore con la perizia di un giovane Senna.
Un paio di signore ottuagenarie si erano palesemente messe in ghingheri per la serata.
“È per via dei saraceni,” spiegò la giovane infermiera al bancone. “Siete qua per parlare con Gianni, vero?”
Sensi guardò Mainardi.
“Sì,” rispose quest’ultimo.
“Ve lo chiamo subito,” concluse l’infermiera, sorridendo radiosa, e sollevò il telefono con aria compita.
Sensi lanciò un’altra occhiata a Mainardi. L’occhiata diceva: non ci pensare nemmeno.
Mainardi spostò lo sguardo dal decolté, peraltro coperto, dell’infermiera per posare gli occhi sul bancone, leggermente contrariato.
“Sarà subito da voi,” li informò la ragazza, continuando a sorridere in modo radioso.
Sensi scoprì la sua bianca dentatura da squalo e socchiuse gli occhietti grigi, una mossa che lo faceva somigliare in modo incredibile a un simpatico Lucignolo. “Che lei sappia questo Gianni è il solo ad aver visto…”
“Io penso che fosse qualcuno mascherato,” non lo lasciò finire l’infermiera, continuando a sorridere come se avesse appena vinto alla lotteria. “Anche Gianni lo pensa. Sa, per via dei saraceni.”
Sensi parve divertito. “Mi rendo conto di non essere aggiornato su un fatto fondamentale per la vita del paese, ma è già la terza volta che sento nominare questi saraceni…”
“È una rievocazione storica,” spiegò l’infermiera, volenterosa. “Be’, una specie,” aggiunse, poi, un po’ imbarazzata. “Principalmente dei tizi vestiti da pirati spuntano fuori dagli scogli e combattono con i soldati, poi c’è una festa sulla spiaggia. Ci sono anche delle persone vestite da paesani.”
“In infradito e bermuda, quindi?”
L’infermiera fu scossa da una serie di piccoli risolini. “Oh, no!” squittì. “Da paesani… storici, come dire. Sa, le donne con le cuffiette e gli uomini con-”
“-La sifilide, capito. Come nei bei tempi andati.”
L’infermiera rise così tanto da diventare color porpora e Sensi iniziò ad avere il sospetto che a inizio turno si fosse drogata.
“Sa, non dovrebbe prendere quella roba, prima di lavorare,” disse, ottenendo in risposta solo un altro attacco di risa.
Il commissario sospirò. “E io che pensavo che le case di riposo fossero luoghi deprimenti e tetri.”
Finalmente un giovanotto vestito di azzurro scese a passo svelto dalle scale.
“Quello è Gianni,” disse l’infermiera, indicandolo e diventando di uno strano color porpora.
“Be’, Mainardi, devi rassegnarti,” commentò Sensi, mentre lui e l’ispettore gli andavano incontro, “è più bello di te.”
Mainardi borbottò qualcosa sottovoce. In quanto a Gianni, l’operatore, era bello davvero. Alto, snello, abbronzato e con i capelli castani raccolti in un ordinato codino.
“Sono il commissario Sensi,” disse Sensi, stringendogli la mano, “ e questo è l’ispettore Mainardi.”
“Sì, piacere. Grazie per essere venuti. Io sono di turno fino a domattina e non potevo muovermi.”
“Anche se potesse, devo informarla che la strada è chiusa.”
Mainardi sbuffò.
“Ci può raccontare che cosa ha visto?”
L’altro alzò le spalle. Sprizzava salute da tutti i pori, letteralmente. Salute e ottimismo. Probabilmente erano requisiti fondamentali per lavorare in una casa di riposo.
“Credo che fosse una persona travestita, ma, vede, qua possono entrare solo i membri del personale o comunque persone che siano passate dall’accettazione. Quindi quel tizio si deve essere introdotto illegalmente. Sa, alcuni ospiti hanno degli oggetti di valore.”
“Mi descriva il suo aspetto,” disse Sensi. Mainardi tirò fuori il taccuino, lanciando un’occhiata colpevole al capo. Sapeva quanto detestasse che i suoi uomini si comportassero da poliziotti veri.
“Aveva una specie di maschera da uccello, con un lungo becco nero. Credo che fosse fissata sopra alla testa, perché altrimenti sarebbe stato altissimo. Non mi ricordo bene il corpo, ma era grigiastro. L’ho visto passare in fondo a un corridoio, nell’intersezione con un altro corridoio. Gli ho chiesto di fermarsi, ma non mi ha ascoltato. Allora sono andato da quella parte, ma non c’era più. Probabilmente è sceso dalle scale ed è uscito in qualche modo. Non so come, però: le porte sono allarmate.”
Il giovanotto si strinse di nuovo nelle spalle. “Ho anche controllato la porta più vicina, ma era tutto normale. Forse si era procurato una chiave in qualche modo.”
“Capisco,” disse Sensi. “Solo un paio di domande. Il nome Sergio Sorriso le dice qualcosa?”
Il giovanotto aggrottò le sopracciglia. “No, mi dispiace. È un ladro?”
“Non che io sappia,” rispose il commissario, lanciando l’ennesima occhiataccia a Mainardi, che richiuse la bocca di scatto. “E Johan Milovich?”
“Neanche. Se vuole, però, le mostro il punto in cui l’ho visto.”
Sensi si grattò il mento. “Chiara Rosaio?”
L’altro sembrò stupito. “Be’, certo, Chiara lavora qua. Oggi è in malattia. Non crederà…”
Ma Sensi si era già voltato, e si stava allontanando a lunghi passi verso l’uscita. “Mainardi, controlla il corridoio, poi vai all’ospedale e piazzati davanti alla camera di Milovich, chiaro?” ordinò, senza fermarsi.
Mainardi, inebetito, guardò prima lui e poi l’operatore. Sospirò e mise via il taccuino.
“Mi dica che gli autobus passano anche a quest’ora,” disse, cupo, rivolto all’operatore.

venerdì 24 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 15

“Ho appena addentato un pezzo di cetriolo,” disse il commissario. Stava guidando a velocità contenuta lungo via Carducci, il largo viale che portava alle autostrade o, abbastanza di frequente, a disastrosi incidenti. Un disastroso incidente, nello specifico, era quello che stava facendo avanzare il commissario a velocità contenuta. Una mini si era scontrata con una panda mentre tentava di attraversare le due corsie del senso di marcia opposto. La mini in questione, dopo l’impatto, avrebbe potuto essere ribattezzata “micro”.
Sensi osservò distrattamente le lamiere sparse per una cinquantina di metri, continuando a mordere il suo tramezzino.
“Forse non l’aveva visto,” commentò Mainardi, sul sedile del passeggero.
“Il punto non è vederlo, ma sentirlo,” rispose il commissario.
“Sentirlo?”
“Già. Non si vede, ma si sente.”
“Una macchina che arriva nell’altra direzione?”
Sensi sospirò. “Il cetriolo.”
“Ah,” disse Mainardi, che alcune volte faceva fatica a sintonizzarsi sul disinteresse cosmico del capo.
“Va be’. Dimmi che cosa avete scoperto oggi,” tagliò corto Sensi, appoggiandogli sulle gambe i resti del proprio tramezzino. Mainardi estrasse prudentemente il taccuino, non osando disfarsi della cena del capo fuori dal finestrino. Sensi poteva trovare irrilevante un incidente stradale, ma non sopportava che si buttasse spazzatura per terra.
“La Riu è stata dal patologo. L’autopsia è fissata per martedì, ma il pover uomo le ha dato qualche opinione sparsa.”
“Ho notato anch’io che la gente diventa incredibilmente collaborativa se parla con l’ispettrice. Chissà perché.”
“Dice che finché non avranno i risultati degli esami non possono spiegare perché il sangue non si sia seccato, ma è possibile che la vittima prendesse degli anticoagulanti.”
“Aveva fatto un intervento chirurgico?”
“Due settimane fa gli avevano tolto le tonsille.” Mainardi sfogliò il taccuino. “Il patologo pensa che l’arma del delitto sia un oggetto da taglio.”
“Geniale. E io che credevo che fosse morto di polmonite.”
“Ma ci sono delle stranezze. I bordi delle ferite erano semi-cauterizzati, come se avessero usato uno strumento caldo, ed erano lacerate”
Sensi si limitò a grugnire. Si immise sulla bretella che portava alla galleria per Lerici. l’abitacolo fu invaso da uno sgradevole odore di uova marce.
“Capo, c’era dell’uovo, nel tuo tramezzino?”
“No, viene da quel mucchio di terra là. Dai, continua, non abbiamo tutta la notte.”
Mainardi osservò il mucchio di terra in questione mentre gli passavano accanto con la macchina. La zona era brulla come la luna e probabilmente qualcuno aveva pensato di usarla come discarica. Qualcuno tipo il Comune.
“Milovich è stato drogato. Qualcosa di pesante simile al Roipnol. È andato in overdose o roba del genere. All’ospedale dicono che gli potremo parlare domani.”
“I vicini?”
“Hanno sentito dei rumori venire dall’appartamento dei due, poi anche dei rumori dall’appartamento di sotto. Pensavano che si trattasse di qualcuno che faceva sesso energicamente, ma secondo me…”
“Era qualcuno che faceva sesso energicamente, credimi. È sempre così.”
“Se lo dici tu. In ogni caso non hanno visto nessuno. Nemmeno il tipico marocchino con l’aria losca.”
“Forse il pacchetto sicurezza inizia a funzionare,” commentò il commissario, filosofico.
“Nel senso che i marocchini, terrorizzati, se ne stanno a casa loro?”
“Nel senso che i cittadini non vengono più a raccontarci di averli visti in giro, ma aspettano il momento buono per denunciarli per conto proprio,” replicò Sensi, entrando nella galleria. Nell’aria iniziò a sentirsi un fortissimo odore di marijuana.
“Capo…” disse Mainardi.
“No, non credo che nel mio tramezzino ci fosse della marijuana, se è quello che intendi.”
“Ah,” si limitò a dire Mainardi.
Percorsero la galleria in silenzio e spuntarono sopra San Terenzo. Una strada stretta e tortuosa portava al mare, parecchio più in basso, zigzagando tra basse costruzioni e tratti boschivi.
Accanto all’imbocco della strada stazionava una pattuglia dei vigili urbani, che non degnarono di uno sguardo la jeep di Sensi.
Meno di un chilometro più in basso, però, dove la via si congiungeva al lungomare e attraversava il paese propriamente detto, una transenna gli bloccò la strada. Accanto alla transenna c’erano un paio di vigili urbani e una marea di gente in tenuta da mare.
Sensi fermò la jeep davanti alla transenna e scese dalla macchina.
“Salve,” disse a uno dei due vigili, una donna dall’espressione gioviale. “Sono il commissario Sensi, dovrei passare.”
“La strada è chiusa,” spiegò la donna.
Sensi socchiuse gli occhi. “Già, me n’ero accorto.”
“C’è lo sbarco dei saraceni, stasera.”
“L’ho sempre detto che di Gheddafi non c’era da fidarsi. Ma dovrei passare lo stesso.”
La donna continuò a sorridere. “La strada è chiusa,” ripeté.
“Sì, da una transenna, lo vedo. Le ho già detto che sono un ufficiale di polizia e che dovrei passare?”
“Be’, signore, di qua non si passa. La strada è chiusa anche in alto.”
“In alto la strada non è chiusa, se questo può aiutarla a rimuovere quella transenna per far passere l’ispettore e me.”
“Mi dispiace, ma non posso. Potrebbe investire qualche pedone.”
Sensi emise un profondo sospiro. “E da dove dovrei passare?”
“Be’, la strada è…”
“Chiusa, sì. Ho capito. E visto che è chiusa, da dove dovrei passare se non voglio rimanere qua fino alla fine dello sbarco?”
“Riapriremo verso mezzanotte.”
Sensi guardò l’orologio. “Ah, e se in queste tre ore avessi bisogno di arrivare dall’altra parte del paese, come potrei fare?”
“Forse anche un po’ prima, di mezzanotte,” spiegò la vigilessa.
“Non mi dica. Un po’ prima, eh? Sono sollevato.”
“Può, ecco… fare un po’ di retromarcia.”
“Ah, vuol dire un po’ di retromarcia fino in cima al monte, suppongo. E immagino che fare retromarcia con una jeep su per una strada piena di curve sulla quale la gente cammina come se fosse un’isola pedonale per un chilometro sia molto meno rischioso che farmi procedere dritto per un centinaio di metri oltre la sua preziosa transenna…”
La vigilessa lo guardò con sguardo sereno.
“La strada è chiusa,” disse.
Sensi, che era un uomo poco portato alla bestemmia, bestemmiò.
Poi tornò alla jeep, prese il lampeggiante e lo fissò sopra il tetto.
“Capo, che cosa…” iniziò Mainardi, che fino a quel punto si era goduto lo spettacolo. La sua voce fu coperta dal suono lancinante di una sirena che iniziava a suonare.
“Le ho già detto che è una fottuta emergenza?” gridò Sensi, sopra al frastuono. Poi si rimise al volante e procedette risoluto fino allo sbarramento. La vigilessa osservò vacuamente la jeep mentre urtava dolcemente la transenna e la trascinava con sé in mezzo alla gente.
Vide il commissario urlare qualcosa dal finestrino e un tizio in bermuda rimosse la transenna e l’appoggiò di lato.
Poi la jeep, con la sirena al massimo, procedette a passo d’uomo attraverso la folla fino alla fine dell’area recintata, dove un altro vigile urbano gli spostò deferentemente la sbarra per farlo passare.
“Non dire niente, Mainardi,” lo avvertì Sensi. “Non dire niente o mi metto a sparare.”

giovedì 23 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 14

Se n’era stato per un po’ sul letto ad ascoltare i Jane’s Addiction, poi si era addormentato. Il suo cellulare aveva iniziato a suonare intorno alle otto e mezza di sera, interrompendo uno dei suoi soliti incubi a base di luoghi roventi e dolorosi.
“Sì?” aveva risposto il commissario, senza alzarsi dal letto, con voce impastata. La mano, naturalmente, gli faceva ancora male.
“Capo, qua è arrivata una segnalazione un po’ insolita, abbiamo pensato che fosse meglio avvisarti.”
Quell’abbiamo pensato probabilmente significava che la Riu aveva ordinato al povero Mainardi di chiamarlo.
“E allora?” chiese Sensi, quando il silenzio dell’altro si fu prolungato per un minuto buono.
“Un tizio, in una casa di riposo… ha visto un mostro tipo quello della Rosaio.”
Giornata di merda, pensò Sensi, ma rispose: “Tanto per curiosità, questo tizio ha novant’anni e l’Alzheimer o è leggermente più attendibile?”
“In realtà sembra che sia un operatore.”
Sensi sospirò. “Va bene, ti passo a prendere in questura. Comprami un tramezzino.”
“Ok, capo. Ti aspetto dal parcheggio.”
“Al tonno,” specificò Sensi, prima di agganciare. “Senza cetriolo.”

L'appartamento di sopra - 13

“Brucia,” disse il commissario, cercando di ritrarre la mano.
“Ma figurate. È solo acqua ossigenata.”
Carmel gli tenne fermo il polso e versò sulla sua ferita un altro po’ del liquido bruciante che sosteneva non gli avrebbe fatto alcun male. Sensi guaì come un cagnolino.
“È possibile che un hombre cresciuto come te faccia tutte este storie?”
“Ma brucia…” si lamentò il commissario.
Erano seduti sul divano di casa sua e Carmel gli teneva il polso fermo contro il tavolino laccato di nero del salotto.
“Non fare el niño.”
“In italiano si dice bambino,” ribatté, l’altro, piccato.
Carmel non lo ascoltò nemmeno. Tappò la boccetta dell’acqua ossigenata e sparì in bagno. Poco dopo riemerse con una confezione di bende in mano.
A Sensi sarebbe piaciuto molto essere uno di quegli uomini che sopportano stoicamente il dolore, ma di fatto non lo era. Per di più, lamentarsi lo faceva sentire meglio.
Quando aveva l’influenza sembrava che stesse per morire da un momento all’altro e quando si faceva male piagnucolava finché non veniva consolato. Il fatto che spesso riuscisse a trovare chi lo consolasse dimostrava che era una strategia vincente.
“Da’ qua,” disse Carmel e, prima che l’altro potesse opporsi, afferrò nuovamente il suo polso e iniziò a bendargli la mano. A rigor di logica non avrebbe dovuto fargli alcun male, ma Sensi piagnucolò un po’ lo stesso.
“Oh, forza!” lo rimproverò lei, e fermò la benda con una clip con più energia del necessario.
“Hai finito?” recriminò Sensi, riprendendosi la mano. Provò a muovere le dita. Come volevasi dimostrare, il palmo gli faceva male.
“Questa cosa di essere al servizio dei cittadini è una fregatura colossale, l’ho già detto?”
“Solo un milione di volte.”
“Io soffro e tu che cosa fai? Mi prendi in giro. Sei una donna senza cuore.”
“E tu sei un hombre senza cojones.”
Sensi ridacchiò.
“Non provarce nemmeno!” lo mise in guardia Carmel, ma sorrideva anche lei.
“Oh, ma dai… sono ferito, sono sofferente, non potrei mai…”
Carmel si alzò. “Devo andare al bar,” disse, recuperando la borsetta.
“E mi lasci qua solo e ferito?”
Il sorriso di lei si allargò bianco e un po’ canzonatorio.
“Esatto,” concluse.
Sensi la guardò uscire dal suo appartamento con aria incredula.
Il mondo era davvero un luogo ingiusto e crudele.

mercoledì 22 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 12

Chiara era nel suo letto. La stanza era pressappoco quadrata, la finestra era chiusa, l’altro letto era vuoto. Sensi entrò, scortato dalla dottoressa Pagano, e si fermò in piedi accanto alla testa della degente.
“La è venuta a trovare il commissario Sensi,” disse la psichiatra, avvicinandosi all’altro lato del letto. “Come si sente?”
“Ho sonno,” rispose Chiara, con voce strascicata. “Quel calmante era una bomba.”
“Credo che dormire un po’ le faccia bene.”
“Sì, suppongo di sì. Grazie, dottoressa.”
“La lascio con il commissario. Per qualsiasi cosa chiami le infermiere.”
La psichiatra se ne andò e Sensi rimase in piedi accanto al letto, osservando Chiara. La frangia le spioveva floscia sopra gli occhi, che senza trucco sembravano ancora più piccoli. Si puntarono su di lui come due spilli.
“Perché mi hai fatta portare qua?” chiese. La voce era impastata, ma lei sembrava sufficientemente lucida.
“Perché non potevo evitarlo,” rispose il commissario. “Hai detto di aver visto un demonio nella tua camera da letto.”
Chiara prese lentamente fiato. “Questo posto ti fa venire il sospetto di essere pazza.”
Sensi si guardò lentamente intorno. Qualcuno, in un’altra stanza, canticchiava una sorta di ninna nanna, le pareti erano spoglie, i letti avevano l’intelaiatura di alluminio, ma fuori dalla finestra si vedevano degli alberi.
“Ti hanno trattata bene?” chiese, alla fine.
“Sai, non legano più i matti al proprio letto,” rispose l’altra, con un vago sorriso. “Mi hanno dato da mangiare. La dottoressa sembra decente.”
“Le ho spiegato che c’era stato un omicidio sopra casa tua. Ho fatto revocare il TSO. Domani, se vuoi, te ne puoi andare.”
“Le ho spiegato anch’io che c’era stato un omicidio. Ha detto che probabilmente ho avuto un’allucinazione come risposta allo stress.”
Sensi si limitò a guardarla in silenzio.
“Le ho dato ragione su tutta la linea,” aggiunse Chiara.
Sensi continuò semplicemente a guardarla. Indossava la maglia di un pigiama leggero con sopra disegnati dei pinguini.
“Ma ovviamente ho visto quell’affare nella mia camera, ho visto i tuoi occhi diventare rossi e ti ho visto mentre tracciavi un cerchio di sale attorno a me. Potrei essere impazzita, ma io non credo.”
Sensi si stropicciò gli occhi.
“Ora stai cercando di decidere che cosa dirmi,” continuò Chiara. “Se dirmi che sono pazza, o se dirmi che non la sono.”
“No,” rispose Sensi. “Mi sto solo chiedendo se nel bar di questo posto vendono della Red Bull, perché sarà una lunga chiacchierata e ho la gola secca.”
Chiara gli passò la bottiglietta d’acqua che aveva sul comodino. Sensi la guardò per qualche istante come se pensasse che potesse essere velenosa, poi l’aprì e bevve un sorso.
“Qualcuno è stato nell’appartamento sopra al tuo, stanotte,” disse, poi. “Come è entrato non è importante. Ci sono tanti modi per aprire una porta, più modi di quelli che immagini. Ha ucciso Paolo Sorriso. Era un sacrificio, credo. Uno strano sacrificio, se vuoi.”
“Perché i tuoi occhi sono diventati rossi?” lo interruppe Chiara, con una certa urgenza.
Sensi la fissò.
“Questa è una domanda che non puoi farmi,” disse, e a Chiara in quel momento sembrò che un muro fosse sceso davanti al suo sguardo, un muro che non poteva nemmeno immaginare di sgretolare.
Sensi girò attorno al suo letto e andò a sedersi sull’altro, quello vuoto più vicino alla finestra, con la luce del giorno alle spalle.
“La persona che ha ucciso Sorriso ha tracciato un sigillo sul muro. Non è necessario nominare l’essere che ha chiamato, ma l’hai visto nella tua camera da letto. A questo serviva il cerchio di sale.”
“A… proteggermi?” domandò l’altra, con voce sottile.
“A nasconderti,” rettificò Sensi. “Ma non sapevo ancora niente. Quando sono stato nella stanza dell’evocazione… è stata una strana evocazione. Mi mancano troppi tasselli, non capisco quali fossero le intenzioni dell’omicida. Sai, di solito… se evochi un demone vuoi qualcosa da lui. Per prima cosa non vuoi che ti uccida. Vuoi che faccia qualcosa per te.”
Il commissario si fermò un istante, chiuse gli occhi. Sembrava sul punto di lasciarsi cadere all’indietro sul letto, forse di addormentarsi.
“Certo, così avrebbe un senso…” mormorò.
“Che cosa avrebbe un senso?” lo incalzò Chiara.
L’altro riaprì gli occhi e la fissò come se fosse stupito di vederla.
“Ieri sera avrei dovuto fare qualche domanda in più ai due piccioncini. Posso farne qualcuna a te, invece?”
“Ermanno, io vorrei che mi spiegassi qualcosa, piuttosto,” replicò lei.
Lui sbuffò. “Come posso spiegarti qualcosa che ancora non so? Questa mattina non ho capito niente, non è certo una novità. Potrei non aver capito niente neanche ora. Parlami del demone, piuttosto. È come colato dal soffitto, come se stesse sprofondando attraverso qualcosa privo di sostanza. Era solido?”
Il labbro inferiore dell’altra tremò appena. “Non lo so. Non l’ho guardato bene. Forse… non del tutto. Sembrava come… fuori fuoco.”
“Ti ha guardata.”
“Sì,”
“Ti ha vista,”
“Non lo so! Mi stai facendo paura, adesso!”
Chiara iniziò a piangere e Sensi si sedette sul suo letto e l’abbracciò. Un’infermiera mise la testa dentro la stanza.
“Tutto bene?” chiese, in tono sospettoso.
Sensi alzò lo sguardo su di lei, continuando a tenere Chiara contro il suo petto.
“Questa donna ha paura,” disse. “Ha visto un assassino.”
L’infermiera aprì la bocca, attonita.
“Sto bene,” piagnucolò Chiara, con la faccia premuta contro la maglietta del commissario.
“È passato,” disse Sensi. “È passato.”
“Vado a chiamare il primario,” borbottò l’infermiera, e uscì come un razzo dalla stanza.
Sensi si alzò di scatto. “Merda,” disse.
Poi si mosse molto velocemente. Non solo con una velocità che Chiara non gli avrebbe creduta propria (Ermanno, di solito, era piuttosto lento), ma con una velocità che quasi rendeva difficile seguire i suoi movimenti. Non veloce come un essere soprannaturale, questo no, ma comunque molto veloce per essere un essere umano.
Spostò il letto di lei di qualche centimetro, staccandolo dal muro. Prese un temperino da una tasca dei jeans, lo aprì e si praticò un taglio lungo e profondo su una mano. Il sangue ne zampillò copioso, come se avesse reciso una vena. Sensi tracciò un largo cerchio attorno al letto: una scia rossa e irregolare si disegnò sul pavimento piastrellato. Poi, con la stessa mano sanguinante, il commissario estrasse un accendino e diede fuoco al cerchio. Chiara non pensava che il sangue potesse bruciare, ma quello di Sensi bruciò. Divampò come se fosse benzina e non lasciò traccia.
Il commissario si rimise l’accendino in tasca, poi spinse di nuovo il letto contro il muro, ma non completamente. Lo accostò soltanto. Chiara sapeva che era tutto dentro il cerchio, il cerchio che era bruciato e non si vedeva più.
La dottoressa Pagano entrò nella stanza un secondo più tardi, seguita da un’infermiera.
Sensi, in piedi accanto al letto, la guardò con sguardo calmo, con una mano infilata in tasca (la mano ferita).
“Dottoressa, le devo rivolgere una richiesta,” disse il commissario, solo leggermente affannato.
“Si sente bene, signorina Rosaio?” chiese il primario, invece di rispondere. Col suo lungo camice bianco, assomigliava a un totem.
“Sì, io… sto bene, ora.”
“Questa donna è una testimone per un caso di omicidio. La lascio sotto la sua responsabilità fino a domani, quando qualcuno verrà a prelevarla per interrogarla in modo ufficiale. Qualunque cosa dovesse dire fino a quel momento – e auspico che sia il meno possibile – è coperto dal segreto istruttorio.”
Sensi fece un gesto vago con una mano, la mano che non era nella tasca dei pantaloni. “Preferirei non doverlo aggiungere, ma è chiaro che si verificasse una qualsiasi fuga di notizie…”
“Non si verificherà nessuna fuga di notizie,” lo interruppe la dottoressa, in tono netto.
“No,” sorrise Sensi. “Credo di no. Arrivederci, Chiara. Ci vediamo domani mattina.”
E senza aspettare altro, Sensi uscì dalla stanza.
Il primario lo seguì, il lungo camice che le svolazzava dietro. “Commissario!” lo chiamò.
“La ringrazio,” disse Sensi, voltandosi appena.
“Commissario, non c’è niente che pensa di dovermi dire?”
Sensi si fermò, si voltò, e la fissò con i piccoli occhi grigi e duri.
“Forse soltanto… che non era un demone, dopotutto, la persona che Chiara ha visto.”
Poi riprese a camminare come se l’altra non esistesse più. La dottoressa gli aprì una porta che dal reparto femminile portava sul retro dell’ospedale e Sensi camminò di buon passo fino alla jeep.
Quando si fu seduto al suo interno tirò fuori la mano dalla tasca e osservò la lunga e profonda lacerazione che si era fatto col temperino.
Strizzò appena gli occhi ed emise un gemito soffocato di dolore.
“Merda, che male,” piagnucolò.

martedì 21 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 11

Il servizio psichiatrico di diagnosi e cura, così si chiamava il reparto psichiatrico, era alloggiato nella non-esattamente-moderna struttura dell’Ospedale Felettino. Perché non fosse esattamente moderna era un mistero, visto che i lavori di ammodernamento erano in corso da più di dieci anni e le impalcature abbellivano una delle facciate da così tanto tempo che, probabilmente, se le avessero rimosse, l’edificio sarebbe crollato e basta.
L’ospedale era giustamente isolato dal centro cittadino. Era, per dirla tutta, infrattato su per una stradina mal tenuta, mal segnalato e anche nascosto dalla vegetazione.
L’edificio con i reparti era in cima a un poggio, circondato da un dedalo di stradine e da alberi frondosi, e guardato da una sorta di garitta.
Sensi provò a passare la sbarra con la sua jeep, ma, dopo vari minuti di attesa, un membro dello staff molto simile a una guardia giurata gli spiegò che all’interno del plesso ospedaliero c’erano sì e no tre parcheggi, che erano occupati in pianta stabile dalle auto di servizio.
Sensi si rassegnò a parcheggiare in una propaggine dello stradello che portava all’ospedale, all’esterno e sotto il sole. Poi, con una decina di minuti di trekking, raggiunse l’ingresso dell’edificio.
L’Ospedale Felettino ospitava tutti quei reparti che il più centrale Sant’Andrea non poteva o non voleva ospitare: geriatria, psichiatria, infettivologia, oculistica, oncologia e radioterapia. In poche parole, i matti, i ciechi, i vecchi, gli infettivi e i malati terminali erano esiliati in cima a un monte.
Una scelta oculata, secondo Sensi, visto che di matti, vecchi, infettivi e malati terminali Spezia era già fin troppo piena. In quanto ai ciechi, il commissario non sapeva decidersi: li avevano messi in cima a un monte per riabilitare le loro capacità di orientamento, per rendere la loro vita più piena e avvincente o soltanto perché speravano che si sarebbero smarriti nel parco?
Sensi attraversò l’atrio dal tipico colore istituzionale sbiadito, seguì la tortuosa serpentina che portava (o che, più probabilmente, mirava a non far trovare) la sala di attesa del reparto psichiatrico e bussò alla porta blindata.
Dopo qualche minuto di attesa qualcuno gli chiese chi era.
Sensi mostrò le proprie credenziali e chiese di poter parlare con Chiara.
L’infermiere che aveva aperto studiò con cura il distintivo del commissario, poi studiò con cura anche il commissario stesso. L’esame non lo lasciò completamente convinto, ma si dovette persuadere che non era uno dei suoi pazienti o che, quantomeno, nessuno lo pagava per curarlo.
Lo introdusse in uno stretto corridoio piastrellato, dall’odore ospedaliero, nel quale di aggiravano tizi in ciabatte e pigiama. Da una stanza laterale provenivano le voci di un gruppo chiaramente avvinto in un’eccitante partita a carte.
“Carlo, mi dai una sigaretta?” chiese un tizio in ciabatte e pigiama all’infermiere.
“Dopo,” gli rispose lui.
“Me ne viene ancora una,” insistette il degente.
“Ok, ma dopo. Devo accompagnare questo signore.”
Il degente sospirò e, apparentemente, si rassegnò.
“Il reparto femminile è sull’altro lato. Sento se il primario la può ricevere,” disse a Sensi l’infermiere, aprendo una porta chiusa a chiave. La porta era di alluminio e aveva un vetro bugnato che rendeva impossibile guardare attraverso. Sensi, che non aveva mai chiesto di parlare col primario, fu introdotto in un altro stretto corridoio, che era il prolungamento del primo. Sulle pareti erano incorniciati dei poster con dei paesaggi naturali e delle voci provenivano da quella che doveva essere la stanza degli infermieri.
Il suo anfitrione lo scortò fino a una porta chiusa e bussò educatamente. “Dottoressa?” chiamò. “C’è qui un commissario di polizia.”
La porta si aprì a mostrare una signora sulla cinquantina, molto alta, con un camice bianco molto lungo e con dei capelli molto curati.
“La dottoressa Rosa Pagano, il primario,” disse l’infermiere. “Il commissario… mh…”
“Ermanno Sensi,” completò Sensi, stringendo la mano alla dottoressa.
Lei gli fece cenno di entrare.
L’ufficio era piccolo e niente-di-speciale. Conteneva un armadio, uno schedario, un po’ di libri medici sparsi e una scrivania bianca con sopra un computer dall’aspetto vecchiotto.
“Salve, si accomodi,” disse la dottoressa Pagano.
“In realtà sarei venuto per parlare con Chiara Rosaio,” spiegò il commissario.
“Ah. È arrivata da qualche ora, è molto tranquilla. L’ho visitata personalmente e non ho avuto l’impressione che ci fosse realmente bisogno di un TSO.”
Sensi sorrise appena. “Ho avuto la stessa impressione,” disse.
Poi si rassegnò a fornire qualche spiegazione, visto che la dottoressa lo guardava con sguardo educatamente incuriosito.
“Questa mattina del sangue ha preso a colare dal soffitto della sua camera dal letto. Al piano superiore c’era stato un omicidio, una faccenda decisamente sgradevole. Chiara ha avuto un attacco di… bho? Panico? Follia? Comprensibile strizza? Questo me lo dovrebbe dire lei.”
“Sì, me l’ha spiegato. Ha pensato di vedere un essere soprannaturale nella sua camera da letto. A volte il cervello ci fa degli strani scherzi.”
Sensi sorrise. “È una definizione psichiatrica?”
Sorrise anche la dottoressa. “Se vuole il termine tecnico le posso dire che ha avuto un episodio delirante con allucinazioni, ma non suona molto meglio.”
“Ovviamente a meno che non ci fosse veramente un demone in camera sua,” disse il commissario.
“Ovviamente,” ribatté la dottoressa. “Ma gli esorcismi non sono il nostro forte.”
Sensi rise. “Neanche il nostro. Già con gli assassini abbiamo qualche problema. In ogni caso…”
“La può vedere, ma se vede che si sta agitando…”
“Chiamerò aiuto in tono isterico, non tema.”
La dottoressa sorrise ancora. “Ecco, è proprio quello che non dovrebbe fare.”
L’altro sogghignò. “Allora la immobilizzerò contro il muro e le darò un paio di cazzotti, era esattamente quello che volevo sentirle dire.”

lunedì 20 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 10

L’ufficio di Sensi era buio come al solito. I suoi uomini erano seduti qua e là, alcuni al posto delle pile di cartacce che avevano rimosso dalle sedie, alcuni, come Mainardi, direttamente sopra di esse.
“Forse se covi abbastanza nascerà qualcosa,” gli disse il commissario, andandosi a sedere dietro la scrivania.
“Dunque,” continuò, “nell’ottica di un’archiviazione del caso veloce e indolore, credo che dovremmo dividerci i compiti, in modo che ognuno di voi abbia la possibilità di svolgere indagini imprecise e inadeguate in un ambito specifico.”
La Riu strinse le labbra, ma non disse niente.
“A parte l’ispettrice, è chiaro. Le sue indagini saranno meticolose e altamente efficaci, solo che noi le rovineremo tutto come al solito. Va meglio, così?”
L’ispettrice grugnì.
“Direi che lei, come unica rappresentante del gentil sesso nella squadra, potrebbe occuparsi di qualcosa di squisitamente femminile, come andare dal patologo e rompergli le palle finché non le spiega perché il sangue della vittima non si coagula.”
La Riu, che evidentemente non voleva sapere che cosa ci fosse di squisitamente femminile nel compito, si limitò a un brusco cenno d’assenso.
“In quanto a Mainardi, credo che possa applicare le sue non trascurabili doti investigative nel più classico degli interrogatori porta a porta del vicinato. Quello che dovresti cercare, se posso permettermi di suggerirtelo, sarebbero sconosciuti armati di coltello che si siano aggirati con fare losco nei dintorni nelle ore immediatamente successive alle due e mezzo.”
“Ok, capo,” disse Mainardi, remissivo.
“Ah, e lo sconosciuto potrebbe anche non essere stato palesemente armato di coltello. O persino ben conosciuto. E anche per niente losco.”
L’altro annuì.
“Max, tu, invece, credo che dovresti andarti a sincerare delle condizioni del secondo ragazzo, Johan Milovich.”
“Mi servirà un interprete?”
“Se ne trovi uno che sappia tradurre dal coma al linguaggio di noi desti credo che ti sarebbe enormemente utile, altrimenti Johan parla perfettamente la nostra lingua, visto che è nato e cresciuto a Migliarina. Be’, forse “perfettamente” potrebbe non essere la definizione giusta, ma ci siamo capiti.”
Sensi mosse leggermente il mouse del computer, si sincerò che il download della discografia completa dei Red House Painters fosse a buon punto e tornò a concentrarsi sulla sua squadra.
“No, dovresti cercare di capire che cosa gli è successo. All’apparenza non aveva lesioni e, sempre all’apparenza, era sul letto durante l’omicidio, probabilmente incosciente, quasi sicuramente di schiena, almeno a fidarsi della traiettoria delle gocce di sangue. Ora, non voglio suggerire che bisognerebbe fare un’analisi dei blood pattern, ma ho ugualmente scaricato sul computer la fotografia presa con il mio cellulare. O meglio, ho scaricato l’intera cartelletta, visto che non mi consentiva di fare altro. Sarà tua cura rimuovere le fotografie dei concerti, dei locali notturni e di me stesso in atteggiamenti poco adatti al prestigio della nostra divisa.”
Tudini, serio come al solito, gli assicurò che l’avrebbe fatto.
“Molto bene. Ora, mentre voi iniziate le indagini, io mi recherò all’ufficio person… al reparto psichiatrico.”
La Riu inarcò un sopracciglio. “Lei è consapevole del fatto che spostare la data delle sue ferie sarebbe un gesto di ben poco senso civico, vero, commissario?” chiese, con voce flautata.
Sensi sospirò pesantemente. “Un giorno scoprirò una postilla del regolamento che mi permetterà di cancellare dal mondo il male che lei rappresenta, ispettrice.”
La Riu si limitò a un sorrisetto soddisfatto, segno, pensò Sensi, che quella postilla esisteva di sicuro, ma che lei sapeva benissimo che lui non l’avrebbe mai trovata.
Anche perché, per trovarla, avrebbe dovuto leggere il regolamento: una possibilità peggiore del male, a suo avviso.
Rassegnato, mise in stand-by il computer e si preparò a un’allegra gita all’ospedale dei matti.

L'appartamento di sopra - 9

“Era alto, forse tre metri…” piagnucolava Chiara, al suo arrivo. “Sembrava come… un ratto, o un altro roditore, però con la faccia da uccello, e poi…”
“Stia calma, signorina,” le stava dicendo Tudini, tenendole la mano.
Sensi si avvicinò. Chiara era seduta al tavolo della cucina, era in lacrime, aveva la faccia rossa, il naso umido e lo sguardo di una che sta perdendo la ragione.
“Da dove è entrato?” chiese, sedendosi sull’altra sedia.
Lei continuò a piangere. “È… è… è come sprofondato dal soffitto… dalla macchia di sangue…”
Chiara lo guardò come se non avesse idea di chi fosse. “Ha… annusato il letto… poi… poi…”
“Dov’è la signora in questione?” chiese una voce maschile, in quel momento.
Tudini si voltò. “Qua,” disse.
Sulla porta erano comparsi due uomini vestiti da volontari della Croce Rossa. Erano, notò Sensi, grossi come due armadi e non sembravano minimamente toccati dalla vista di una donna in lacrime.
“Sono qua per portarla all’ospedale,” le spiegò Tudini, gentilmente.
“A… all’ospedale?” tartagliò lei.
“È molto scossa e…”
Chiara si alzò in piedi di scatto e iniziò a urlare: “Io non sono pazza! So quello che ho visto! C’era un gigantesco coso nella mia camera da letto ed era un mostro!”
“Signorina Rosaio, cerchi di capire…” provò a placarla Tudini.
“Abbiamo un ordine di trattamento sanitario obbligatorio,” disse, tempestivamente, uno dei due uomini della Croce Rossa.
“Io non sono pazza!” gridò Chiara, cercando di strattonare via la mano da Tudini. Lui la tenne con più energia.
“Mollami, bastardo!” strillò lei.
“Lei deve…” provò a imporsi l’altro.
“Lasciala.”
Tudini, Chiara e gli uomini della Croce Rossa si voltarono verso Sensi, che aveva parlato con calma e, con altrettanta calma, aveva chiuso una mano attorno al polso di Tudini.
“Lasciala, Massimiliano,” ripeté. Tudini aprì le dita.
“Scusi, lei chi sarebbe?” chiese, invece, uno degli uomini della Croce Rossa.
“Il commissario capo. Uscite per qualche minuto, per favore.”
“Scusi, non credo che sia sicuro…”
“Scusi, non credo che si renda conto che questa donna pesa la metà di me e non ha neanche una pistola. Adesso uscite.”
Qualche minuto più tardi Chiara emerse dalla cucina. Aveva gli occhi asciutti, un borsone a tracolla e sembrava un po’ più tranquilla.
“Andiamo,” disse ai due uomini della Croce Rossa.
Sensi emerse dalla cucina dopo di lei e la salutò con una mano mentre si allontanava con i due uomini.
“Come hai fatto a convincerla?” chiese Tudini.
L’altro sorrise appena. “Una piccola bugia a fin di bene: le ho detto che all’ospedale il demone non l’avrebbe trovata.”
“Ah. Buona idea.”
“Naturalmente sempre il che il demone non la voglia trovare,” rispose il commissario.

domenica 19 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 8

Sensi stava andando in macchina verso la questura quando il primo dei suoi uomini si rese conto che quando era uscito dall’appartamento non era stato per fare qualcosa di attinente all’indagine, e non sarebbe rientrato dopo pochi minuti.
La telefonata gli arrivò da Tudini, ma era chiaro che il mandante era l’ispettrice Riu.
“Ermanno?”
“Sì?”
“Scusa, dove sei?”
“In questo momento imbottigliato nel traffico delle 12 e 38 del mattino.”
“Ah. No, intendevo…” riprese Tudini.
“Sto andando a fare delle indagini,” mentì disinvoltamente Sensi.
“Oh, ok,” disse l’altro.
Era semplicemente troppo facile, pensò Sensi. La Riu stava perdendo dei colpi. Un tempo avrebbe telefonato di persona, pretendendo che tornasse immediatamente sul luogo del delitto.
Ma visto che la chiamata l’aveva fatta il suo vice, e visto che il suo vice era facile da confondere, Sensi si sentì autorizzato a proseguire verso la questura.
Anche se proseguire, vista la coda che bloccava tutta via Fiume e presumibilmente buona parte della galleria Spallanzani, era un’espressione un po’ forte.
Sensi guardò il serpentone di macchine che gli si stendeva davanti e spense il motore.
Un sigillo tracciato sul muro col sangue non era esattamente la sua idea di “buon inizio di giornata”. Se poi ci si aggiungeva che il sigillo era quello di Dantalian la cosa era ancora meno simpatica.
A Sensi i demoni non piacevano. Aveva un’esperienza fin troppo vasta in merito e non sentiva nessun bisogno di ampliarla ulteriormente.
Quello di cui sentiva il bisogno, a quell’orario del mattino, era una lattina di Red Bull, della focaccia e qualche ora di peer-to-peer col computer dell’ufficio.
Ovviamente, col nuovo caso, tutti i suoi piani sarebbero stati sconvolti.
Adesso avrebbe dovuto andare all’ufficio del personale e vedere se riusciva a farsi anticipare le ferie di una quindicina di giorni. Poi avrebbe dovuto cambiare le prenotazioni dell’aereo, capire se a Berlino c’era qualcosa da fare anche con mezzo mese di anticipo e, in caso contrario, cercare qualche altro evento musicale di suo gusto in qualche altra zona del globo.
Una seccatura infinita, ma sempre meglio che occuparsi del caso Dantalian.
L’auto davanti alla sua ebbe un sussulto e Sensi rimise in moto.
Il suo cellulare ricominciò a suonare.
“Commissario?” disse la voce della Riu. Sensi imprecò tra sé.
“Sì?”
“Non so quale pista stia seguendo…” spiegò l’altra, con evidente sarcasmo “…ma dovrebbe tornare qua, credo. La testimone, Chiara Rosaio…” Sensi impiegò qualche secondo per capire che l’altra si stava riferendo alla donna con cui aveva fatto sesso per tutta la notte “…ci sta dando dei problemi. Dice di aver visto un essere infernale nella sua camera da letto. Abbiamo chiamato un’ambulanza e stiamo per emettere un TSO, ma il questore insiste che lei debba essere presente alla procedura.”
Sensi aggrottò le sottili sopracciglia nere.
“Be’, se insiste…” borbottò.
Poi tirò fuori il lampeggiante dal cassetto del cruscotto, lo fissò sul tetto della sua jeep e fece disinvoltamente inversione nel traffico, con la sirena al massimo.
In fondo qualcosa di positivo c’era, in tutta quella faccenda.

L'appartamento di sopra - 7

“Non avrebbero dovuto portare via l’altro ragazzo prima dell’arrivo della scientifica,” fu una delle prime cose che disse la Riu, arrivando sul luogo del delitto.
“Capisco quello che intende, ispettrice. Se poi fosse stato morto anche lui preservare la verginità della scena sarebbe stato ancora più semplice.”
La Riu gli lanciò un’occhiataccia, mentre Sensi tirava fuori il cellulare, un guscetto di plastica rosso brillante.
“Comunque gli ho fatto una foto, così stasera potrò metterla su Facebook.”
Tudini aggrottò le folte sopracciglia.
“Non è un nuovo software della polizia,” lo prevenne Sensi. “Comunque,” aggiunse, tirandosi indietro i capelli, “mi sembra il momento giusto per farci qualche domanda. Chi inizia?”
Mainardi, che cercava di evitare la vista del cadavere da quando era entrato nell’appartamento, alzò una mano. “Io ne avrei una, capo.”
“No, non puoi usare il bagno. Te la dovrai tenere fino alla ricreazione.”
L’altro sbuffò. “Volevo chiedere: che cavolo è quel coso?”
Lo sguardo di tutti i presenti si spostò sul graffito insanguinato sulla parete. Era un disegno geometrico, formato da quattro croci e vari cerchietti, che si intersecavano a formare un quadrato irregolare privo di un lato sormontato da un’altra croce.
“Quello?” disse Sensi. “Quello è un sigillo.”
“Roba esoterica?” volle sapere la Riu. Dal modo in cui pronunciò la parola “esoterica” avrebbe potuto anche dire “diarrea”.
Il commissario si accarezzò il mento. “Se con esoterica intende satanica, direi che, sì, possiamo definirla roba esoterica.”
“Oh, Cristo,” sospirò Mainardi.
“Che razza di simbolo sarebbe, Ermanno?” chiese, invece, Tudini, con il taccuino in mano.
L’altro guardò la parete per qualche istante. “Sigillo, non simbolo. È il sigillo di Dantalian, un duca infernale che comanda trentasei legioni di spiriti, che influenza le menti e controlla la scienza e l’arte. Ma quello che mi colpisce è un altro particolare.”
“Che sia stato tracciato col sangue?” interloquì Mainardi.
“Tu sei un osservatore fottutamente acuto, Mainardi, non ti sfugge davvero niente.”
“Ma perché disegnare il sigillo di questo demone?” chiese la Riu. “A parte il fatto che il tizio è fuori di testa, ovviamente.”
Sensi incrociò le braccia. “Perché non disegnare anche un cerchio, piuttosto? Questa è la domanda interessante.”
Il commissario scosse la testa, assorto. “Non ha senso.”
“E le dispiacerebbe spiegarlo anche a noi?” disse la Riu, irritata.
L’altro la guardò per un istante in silenzio, come se stesse seguendo un suo pensiero personale.
“Sembra che qualcuno volesse evocare questo demone,” spiegò, alla fine, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. “Ha fatto un sacrificio di sangue… un sacrificio francamente esagerato, tra l’altro: per evocare un demone bastano poche gocce. Ha tracciato il sigillo sul muro, e questo ha un senso, ma non ha tracciato un cerchio per terra, e questo non ne ha. Se uno evoca un demone di solito è per asservirlo, e per asservirlo devi intrappolarlo, e per intrappolarlo ti serve un cerchio. Per questo i pentacoli stanno dentro dei cerchi, è soltanto logico. Ma qui non c’è nessun cerchio, non c’è niente che trattenga il demone. Che senso ha?”
“Commissario, non vorrei sottolineare l’ovvio, ma chiunque abbia commesso questo crimine è un demente. È probabile che quel segno stimolasse qualche suo delirio. Non credo che…”
Sensi interruppe l’ispettrice con un gesto stanco della mano.
“Lei ha senz’altro ragione. Adesso… qualcuno ha un pennarello?”
La Riu inarcò le sopracciglia. “Un…”
“Pennarello, è quello che ho chiesto.”
Tudini ne estrasse uno, blu, dalla tasca.
“Eccellente,” disse Sensi, prendendolo. Poi andò alla parete e tracciò un bel cerchio tondo attorno al sigillo. Accanto ci scrisse, in stampatello: REPERTO A.
Poi lo passò a Mainardi. “Adesso puoi fare un cerchio attorno al cadavere e scriverci reperto B.”

sabato 18 luglio 2009

L'appartamento di sopra - 6

Qualcuno le stava infilando una maglietta. Chiara aprì leggermente gli occhi e scoprì che la luce le faceva scoppiare la testa dal dolore. A scopo precauzionale li richiuse.
“Aiutami con le gambe, ok?” la raggiunse la voce di Ermanno.
Chiara si limitò a gemere.
“Mi dispiace averti mandata nel mondo dei sogni, tesoro, ma dovevo proprio salire e non potevo lasciarti qua in preda a una crisi isterica.”
Ermanno la sollevò prendendola sotto le ascelle e le tirò su i pantaloni con l’altra mano. Poi la riappoggiò sulla sedia.
Chiara provò di nuovo ad aprire gli occhi. Questa volta riuscì a guardare il mondo da una fessura.
Il pavimento sembrava pulito, del sale che l’altro aveva versato poco prima non c’era più traccia.
“Ti prendo un po’ d’acqua,” disse lui. Si voltò verso il lavandino, riempì un bicchiere e lo posò sul tavolo davanti a lei.
Si sedette sull’altra sedia e la guardò in silenzio per qualche secondo con i suoi occhietti grigi e pensosi.
“Come ti senti?” chiese, in tono gentile.
“Che cosa è successo?” replicò lei, leccandosi le labbra screpolate. Sensi spinse il bicchiere verso di lei.
“Abbiamo un problemino, al piano di sopra. Uno dei due finocchi è morto, l’altro… scusa, questa dev’essere l’ambulanza.”
Dalla strada, in effetti, proveniva il suono lancinante di una sirena spiegata.
Sensi aprì la finestra e fece dei segni verso il basso. “All’ultimo piano!” gridò. Poi tornò a sedersi al tavolo.
“Tra poco qua ci saranno più sbirri che cavallette durante le piaghe d’Egitto,” disse.
“Chi… chi è morto?” chiese lei.
“Quello moro, non so il nome.”
Chiara ricominciò a piangere. “Paolo,” disse.
“Ok, Paolo è morto. È successo stanotte. Temo che dovranno dare un’occhiata alla tua camera da letto.”
“Ma come? Perché? Che cosa… chi è stato?”
Sensi si strinse nelle spalle. “Non ne ho idea,”rispose.
Chiara socchiuse gli occhi, sospettosa. “Perché hai fatto un cerchio col sale, prima?” domandò. E visto che l’altro non rispondeva aggiunse: “Perché i tuoi occhi sono diventati rossi?”
Sensi la guardò in silenzio per alcuni secondi, poi si alzò e si diresse verso la porta.
“Devo tornare di sopra,”disse.

L'appartamento di sopra - 5

Sensi salì per le scale due gradini alla volta. La porta dell’appartamento del piano di sopra era chiusa. Lui ci appoggiò una mano sopra, scosse la testa e iniziò a frugarsi nelle tasche.
Alla fine trovò il temperino che stava cercando, si fece un piccolo taglio sul palmo e lo appoggiò alla serratura.
Faceva male.
La serratura scattò con un suono ovattato e Sensi entrò in casa con passi lenti e circospetti.
La camera da letto era sopra a quella di Chiara.
“Fantastico,” borbottò.
Per terra, ai piedi del letto, c’era un uomo nudo, sgozzato come un maiale. Qualcuno aveva pensato bene di aprirgli non solo la gola, ma anche la pancia, da sotto lo sterno fino all’inguine. Le sue previsioni sulla quantità di sangue attorno al corpo erano esatte. Dentro il cadavere doveva esserne rimasto davvero poco, e infatti era bianco-bluastro.
Il sangue, inoltre, era ancora liquido, come se la coagulazione non fosse ancora iniziata.
Sul letto c’era un altro uomo nudo, a pancia in giù, che apparentemente dormiva.
Sensi poteva attestare di prima mano che un uomo, dopo il sesso, era in grado di dormire praticamente ovunque, ma che lo facesse con uno scempio simile vicino sembrava strano anche a lui.
Anche il fatto che sulla parete sopra al letto qualcuno avesse scritto qualcosa con le dita era abbastanza insolito.
Sensi si avvicinò al dormiente e gli esaminò le mani. All’apparenza erano pulite, mentre qualche goccia di sangue era schizzata sulle sue gambe e sulle sue chiappe, come se il tizio non si fosse mai mosso da lì.
Sensi tirò fuori il cellulare e gli fece una fotografia.
Ovviamente la scientifica si sarebbe incazzata, ma tanto quelli si incazzavano sempre, per un motivo o per l’altro. Provò a scuotere l’uomo per una spalla. Lui non si mosse.
Gli appoggiò una mano sul collo. Il battito era lieve, velocissimo, impetuoso.
Sensi riprese il cellulare e compose il numero del pronto intervento medico.
“Sono il commissario Sensi, sono sulla scena di un delitto. Qua c’è un uomo in condizioni gravi, incosciente, con il battito accelerato, nessuna reazione agli stimoli.”
Lasciò l’indirizzo, poi fece un’altra telefonata.
“Max? Siamo nella merda più nera. Sono in via Monfalcone 86, o forse 88, adesso non mi ricordo. C’è un tizio aperto in due per terra, un altro tizio in coma sul letto, un graffito di sangue sul muro – sangue che sta gocciolando nell’appartamento di sotto – e una donna svenuta nell’appartamento dove sta gocciolando il sangue. La donna l’ho messa a nanna io, ma tutto il resto si è verificato in mia assenza, nelle cinque-sei ore passate.”
Massimiliano Tudini, i cui veri pensieri per Sensi erano sempre stati imperscrutabili, si limitò a rispondere: “Arrivo subito con una squadra.”
Il commissario chiuse la comunicazione e tornò a guardare il graffito.
Si inginocchiò accanto al cadavere dell’uomo sgozzato e immerse la punta del dito nel sangue. Era quasi fresco, eppure era ancora perfettamente liquido.
In quanto al graffito, era uno strano intrico di linee, tracciato con una certa rozza precisione.
Sfortunatamente Sensi sapeva benissimo che cosa significava.