mercoledì 10 giugno 2009

Una linea d'ombra - 7

La sala d’attesa del pronto soccorso del Sant’Andrea era affollata di umanità varia. Sensi precedette la Buscetta allo sportello dell’accettazione, dove erano in attesa già un paio di persone.
L’educatrice si era infilata un paio di jeans, un maglione a collo alto bianco e una giacca imbottita corta verde bottiglia. Sensi iniziava a essere curioso di vedere il livido che aveva sul culo.
Aspettò pazientemente che le persone davanti a loro elencassero i propri disturbi, poi premette il distintivo contro il vetro dello sportello.
“Sono il commissario capo Sensi,” spiegò all’infermiere esausto davanti al computer. “Sarei grato se qualcuno visitasse questa signora e le refertasse le percosse.”
L’infermiere gli lanciò uno sguardo vacuo. “I medici sono tutti impegnati. Vedo cosa posso-“
“Non sarei venuto di persona se non ne avessi avuto bisogno. Sa, anch’io sono tutto impegnato.”
“Sì, mi rendo conto, ma…”
“Per non parlare del fatto che le sto rivolgendo una richiesta ufficiale. E la signora si chiama Buscetta, non so se mi spiego.”
“Sì, signore, ho capito. Lasciamo morire un paio di incidentati gravi e facciamo passare la signora, allora.”
“Questo è l’atteggiamento mentale giusto.”
L’infermiere sbuffò e premette il pulsante che apriva la porta scorrevole. “La faccia entrare, intanto.”
“La ringrazio per essere stato così sensibile alle prevaricazioni,” disse Sensi, e sospinse la Buscetta dentro. “La aspetto qua. Provi a simulare un accento siciliano, se ci riesce. E se vuole andare dalla parrucchiera, è chiaro.”
L’educatrice sorrise. “Bedda matri… stong’ sperut’ e i add’a parrucchiera!”
“Mh. Credo che la seconda parte fosse in napoletano. Si limiti a ripetere ‘bedda matri’, ok?”
L’altra sospirò e entrò nel pronto soccorso, Sensi si andò a sedere in un posto libero tra l’umanità dolente della sala d’aspetto.
L’aria era innaturalmente calda, rispetto al gelo che c’era fuori, ma era tagliata a intervalli irregolari dalla lama di freddo che entrava ogni volta che qualcuno apriva la porta. Sensi si sfilò il giubbotto e lo appallottolò dietro la sua schiena. Un ragazzetto obeso vestito di nero lumò con interesse la sua felpa dei Neu!. Per un po’ il commissario rimase ad osservare il viavai all’accettazione, ma si stancò quasi subito. Lasciando la giacca come segnaposto andò al distributore automatico di bibite che c’era in un angolo.
“Non ci sono le palette,” gli disse una signora, volenterosa. Apparentemente aveva un piede in cancrena. Sensi si chiese se fosse successo mentre aspettava il suo turno o se avesse cominciato a marcire prima.
Prese una lattina di coca, visto che di Red Bull non ce n’era.
Tornò a sedersi sopra al suo giubbotto. Accanto a lui un tizio sulla ventina in tuta da operaio autostradale arancione si teneva in grembo una mano sulla quale era stata sparata una graffetta metallica di proporzioni imponenti.
Il tizio si accorse di essere osservato, e gli rivolse un largo sorriso candido.
“Stato incidente,” spiegò, con accento dell’est. “Avevo sparagraffette in mano e pum! Nella mia mano. Qui da tre ore. Loro dice che non urgente.”
“Mh-mh. È quasi estetica. Pensi che c’è gente che paga per farsi un piercing.”
Il ragazzo rise. “Ma non piercing alla mano, forse!”
“C’è gente che si fa bucare ovunque, mi creda,” ribatté Sensi, che in effetti aveva un piercing sulla punta del cazzo.
“Be’, mica io. Stato incidente. Capo mi accompagna qua e dice dopo torni a lavoro. Ma io non pensa che torna a lavoro prima di domattina. Forse dormo qua.”
Sensi guardò le porte scorrevoli. Quanto cazzo ci voleva a refertare quattro lividi?
“Già, forse anch’io,” replicò.
“Tu italiano?”
Sensi sorrise. “Per un pelo. Sono di Gorizia.”
“Ah, Gorizia io conosce! Stato a Monfaldone con autostrada.”
“Già, Monfalcone è lì vicino.”
“Io di Romania, ma non zingaro.”
“Io, invece, sono per metà sloveno.”
“Tuo papa è di Slovenia?”
Sensi si chiese come avesse fatto a cacciarsi in quella conversazione. “No, mio padre è, era, mah, italiano. Suppongo che sia ancora vivo, per quel che conta.”
“Tu non d’accordo con tuo papa,” dedusse astutamente il rumeno.
“Nessun essere umano di buon senso andrebbe d’accordo con mio padre, credimi.”
Le porte scorrevoli del pronto soccorso si aprirono per far uscire un tizio con le stampelle. Chissà, forse prima di entrare camminava perfettamente, pensò Sensi, che in effetti avrebbe pensato a tutto pur di non pensare a suo padre.
“Mio papa e mia mama è in Romania,” disse l’operaio con la graffetta nella mano. “Io pensa che forse può venire qua, ma immigrazione dice no. Così loro resta in Romania e anche miei fratelli. Tu ha fratelli?”
Sensi stava per rispondere che aveva un fratello, ma le porte scorrevoli si aprirono di nuovo e questa volta uscì la Buscetta, che apparentemente camminava ancora con le sue gambe.
“Tua ragazza molto carina. Io spera sta bene.”
Sensi sorrise. “Sta bene, ma non è la mia ragazza. Ciao, amico. Spero che ti levino quella graffetta senza bisogno di amputarti la mano.”
L’operaio rise. “Io pensa che forse me ne va a casa e la toglie col cacciavite.”
“Probabilmente è più sicuro,” convenne Sensi, rimettendosi il giubbotto e raggiungendo l’educatrice. “Allora?”
“Tutto ok,” disse lei. “Hanno detto che vi inoltreranno i referti domani.”
Sensi si grattò il mento. “Be’, tanto non volevamo fare un arresto lampo. Ci viene già difficile fare degli arresti non-lampo, non so se mi spiego. Adesso la accompagno in questura, ok?”
L’altra annuì. “Grazie. E non c’è bisogno che mi dai del lei. Obbiettivamente, se dici ancora una volta ‘signora Buscetta’ inizierò a credere che mia madre è qua attorno.”
Sensi meditò brevemente sull’informazione. “In questo caso mi sento in dovere di dirti che la deontologia professionale non è il mio forte.”

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