martedì 23 giugno 2009

Pubblica utilità

Qua accanto, come di consueto, potete ora trovare il file in formato pdf di Una linea d'ombra. Il commissario Sensi (e la sua creatrice) ora si prenderà una vacanza estiva, che ovviamente passerà nei più trucidi ritrovi goth d'Europa.
Stay tuned.

Ah, se qualcuno di voi volesse cimentarsi in proprio, mandatemi un'email.

lunedì 22 giugno 2009

Una linea d'ombra - 23

Sotto tutti i punti di vista la giornata del commissario era stata una vera schifezza. Anzi, i due o tre giorni precedenti, erano stati una vera schifezza.

Prima aveva dovuto rinunciare a un threesome, per quanto improbabile, con le due aspiranti-veline. Poi gli avevano proposto un caso di molestie su minori. Poi il caso di molestie su minori si era trasformato in un caso di percosse e di disagio familiare. Poi il caso di percosse si era trasformato in una scopata niente male (e questo era uno degli unici due fatti positivi del periodo). Poi la scopata niente male si era trasformata in un omicidio (e questo, retroattivamente, aveva annullato la positività dell’azione precedente). Poi l’omicidio si era trasformato in un caso di disagio familiare ancora più marcato di quanto Sensi si fosse aspettato all’inizio. Poi da un caso ne erano venuti fuori due, con una moltiplicazione del carico di lavoro che Sensi non poteva certo apprezzare. Il caso di marcato disagio familiare si era trasformato in un’overdose, mentre il caso di omicidio si era trasformato in un caso di bomba. O come si diceva.

Alla fine Sensi si era ritrovato di nuovo con un caso di omicidio, irrisolto.

A quel punto il fondo era stato abbondantemente toccato, quindi fu con spirito sereno che Sensi si presentò all’obitorio e chiese di vedere il cadavere di Erica Buscetta.

La casa di Nicosia, una volta svuotata della bomba, non aveva rivelato niente di interessante.

Nicosia aveva fatto scomparire ogni cosa, lasciando solo un regalo di benvenuto per gli investigatori.

Seguito dai Servizi Sociali e dalla Salute Mentale, Davide Nicosia era stato diagnosticato come paranoico non schizofrenico. Non aveva allucinazioni o deliri eclatanti, ma era convinto in modo incrollabile che il mondo complottasse contro di lui.

Nel palazzo lo consideravano un tipo bizzarro.

Non aveva parenti in vita ed era piuttosto improbabile che avesse degli amici. Non aveva il porto d’armi e non frequentava i ritrovi dei militari. Non aveva lasciato tracce dietro di sé. Per quel che ne sapeva Sensi poteva anche essere andato a nascondersi sulle montagne, dove avrebbe fondato la sua personale autarchia nazista.

In pratica, si avviava allegramente a diventare l’ennesimo caso irrisolto della squadra mobile di Spezia.

Sensi fu scortato fino alla salma, che era stata messa su un tavolo di metallo, coperta da un telo.

“Può andare,” disse all’inserviente.

“Veramente dovrei restare con lei…”

Sensi respirò profondamente. “Se ne vada, per favore,” ripeté, con voce cupa. “Conoscevo questa donna.”

L’altro per un po’ sembrò indeciso, ma alla fine annuì seccamente e lo lasciò solo.

Sensi si avvicinò al tavolo.

Il lenzuolo verde, ospedaliero, era freddo al tatto. Sensi ne sollevò delicatamente un lembo all’altezza della testa di Erica.

Il volto era bianco violaceo, con una larga ecchimosi sul lato sinistro. Gli occhi erano già stati chiusi e probabilmente fissati. I capelli erano sporchi di sangue raggrumato e non bastavano a nascondere il fatto che il cranio, sul lato sinistro, aveva una forma particolare.

Sensi immaginò che le pompe funebri non si sarebbero litigate quel lavoro, quando finalmente in corpo sarebbe stato consegnato. Troppo poco rovinato per giustificare una bara chiusa, troppo per aver bisogno solo di una mano di fondotinta.

Ma, in fondo, non era probabile che Erica venisse restituita alla famiglia tanto presto.

Quel pomeriggio Sensi doveva incontrare i suoi genitori. La tentazione di andare in ferie era più forte che mai, ma persino lui si rendeva conto che non si sarebbe più potuto guardare nello specchio se l’avesse fatto.

E c’era già un'altra donna morta che lo aspettava nello specchio ogni volta che ci guardava, due sarebbero state troppe.

Titubante, accarezzò i capelli sporchi di sangue di Erica.

Erano freddi, proprio come tutto il resto.

Infilò le dita tra le ciocche, sporcandosi leggermente le mani. Il sangue raggrumato iniziò a disciogliersi.

“Tu lo capisci, vero?” mormorò.

Il sangue diventò completamente fluido e alcune gocce caddero sul pavimento. Sensi le osservò per qualche istante.

Poi, come mosse di vita propria, le gocce iniziarono a fluire, disegnando una sorta di rivolo. Il rivolo tracciò una scia sul linoleum, puntando in direzione della porta.

Erano solo poche gocce, e il sangue presto si esaurì. Ma la scia continuò a procedere, ora fatta d’ombra.

Una sottile scia d’ombra che si dirigeva verso la porta, e vi scompariva sotto.

Sensi ricoprì il viso del cadavere e osservò per qualche istante la linea d’ombra che scompariva sotto la porta.

Poi, diligentemente, iniziò a seguirla.

FINE.


domenica 21 giugno 2009

Una linea d'ombra - 22

I due se n’erano stati a bere Red Bull, mentre gli uomini dello SDAI disinnescavano la bomba. Il comandante di fregata Nunzio si era anche fumato un sigaro, godendosene, o così era sembrato a Sensi, ogni boccata.
Dopo un po’ era arrivato uno degli uomini-Michelin a fare rapporto.
“L’ordigno è stato disinnescato e messo in sicurezza, signore,” disse, facendo il saluto militare.
“Portatelo via,” ordinò Nunzio, continuando a fumare il suo sigaro.
Si voltò verso Sensi: “È piuttosto probabile che fosse mal preparato, sa? La maggior parte di questi bombaroli della domenica sono incapaci di assemblare una bomba al fertilizzante dall’adeguato potere dirompente.”
“Se me l’avesse detto dieci minuti fa sarei stato più contento.”
“Be’, se poi fosse esplosa ci avrei fatto una figura meschina,” ribatté l’altro. “E poi così non ha pensato alla sua epatite per un po’.”
Sensi sbuffò. “Scherzavo, non l’ho presa. La bava dei tossici fa solo schifo al cazzo, non trasmette infezioni. Be’, non quel genere di infezioni, comunque.”
“Lei deve condurre un’esistenza interessante, se mi permette di dirlo.”
“E deve vedere il sabato sera,” rispose Sensi, finendo di svuotare la sua lattina.

Una linea d'ombra - 21

Il capitano di fregata Mario Nunzio era in piedi in mezzo al cortile del condominio di via Milano, circondato da un grappolo di uomini pesantemente bardati. L’impressione generale era quella di un assembramento di omini della Michelin.
“Commissario,” lo salutò, vedendolo arrivare.
Sensi sventolò stancamente una mano. “Al servizio dei cittadini,” rispose. “Quando ho firmato non ho capito che mi stavano fregando.”
“Lo penso sempre anch’io.”
Sensi si fermò accanto a un tizio alto più o meno come una montagna e largo circa il doppio, avvolto in tre o quattro strati di giubbotto anti-proiettile e protezioni in kevlar assortite.
“Sono termiti particolarmente aggressive o c’è davvero una bomba?”
“Be’, c’è una massa di materiale che potrebbe essere una bomba al fertilizzante di piccole dimensioni e c’è una miccia al magnesio. Se quell’affare possa esplodere è ancora da vedere.”
Sensi voltò lo sguardo verso il cielo. “Espiare sto espiando, sei contento, adesso?”
Il capitano di fregata sorrise bonariamente. “Ha un filo diretto con Dio?”
“Macché. In compenso ho rapporti discreti con i piani bassi. Lei è sempre così imperturbabile?”
“Quando disinneschi bombe di mestiere inizia a venirti naturale.”
Sensi si passò una mano sulla faccia.
“E quanto ci vorrà per disinnescare questa?”
L’altro guardò l’orologio. “Una decina di minuti.”
Sensi sbadigliò. “Giusto il tempo di procurarmi una Red Bull.”
“Se vuole ne ho un paio in macchina,” disse il comandante di fregata.
Sensi inclinò la testa da un lato. “Se le piace anche la musica gotica dovrò sposarla.”
“Credo di essere fortemente predisposto per l’eterosessualità, mi dispiace.”
“Sciocchezze. Le assicuro che sono un ottimo partito. Mi accontento facilmente e mangio di tutto. Potrei appena aver contratto l’epatite, ma sono certo che non si formalizzerà.”
Il comandante di fregata rise di nuovo e gli diede un paio di pacche su una spalla, guidandolo verso la sua macchina. “Non c’è niente come un energy drink per le giornate come questa. Non so se la guarirà dall’epatite, ma in fondo potremmo anche venir spazzati via tutti e due dall’esplosione.”
Sensi annuì. “Ha ragione, poi non sarebbe più un problema.”

sabato 20 giugno 2009

Una linea d'ombra - 20

Sensi era partito sgommando. Una volta in via Milano aveva messo il lampeggiante sul tetto e l’aveva acceso, insieme alla sirena. Aveva percorso via Milano accelerando fino ai 90, aveva svoltato in via Fiume e aveva accelerato ancora, dribblando tra le macchine sulle due corsie.
Arrivato alla rotatoria di piazza Saint Bon aveva inchiodato sull’angolo e era schizzato giù, verso la farmacia.
“Polizia!” aveva gridato, entrando di corsa e sbracciandosi come un matto. “Una confezione di Narcan!” Aveva anche sventolato il distintivo, tanto per evitare le solite reazioni tu-non-sei-un-poliziotto. Ma la farmacista doveva avere una certa esperienza. Vista la fauna della zona Sensi non doveva essere il primo folle che entrava chiedendo del Narcan con urgenza.
Gli allungò una confezione e Sensi ripartì a razzo. Decisamente, se anche quella mattina se ne fosse stato a letto la sua vita sarebbe stata molto più semplice. Avrebbe potuto passare a raccogliere i morti verso mezzogiorno, comodamente.
Si immise nella rotatoria e si infilò nella galleria Spallanzani, con il piede a tavoletta sull’acceleratore. Le macchine si spostavano con un certo ritardo, e Sensi quasi ne beccò un paio.
In via Crispi, fuori dalla galleria, tirò dritto a tutti gli incroci senza guardare, girò in viale Italia e riprese velocità. Il suo wragler non era un mezzo da competizione, e a Sensi non piaceva guidare veloce, ma riuscì comunque a toccare i 120 passando davanti alla questura circa sette minuti dopo aver ricevuto la telefonata di Mainardi. Da lì a Toxic Ville c’erano poco più di cinquecento metri.
Sensi li fece in accelerazione costante, arrivando sotto lo squallido condominio di Morelli circa otto minuti dopo la chiamata di Mainardi.
Il portone era socchiuso e Sensi lo spalancò con un calcio. Poi iniziò a correre su per le scale.
La porta dell’appartamento di Moreno il Tossico era già spalancata. “Fai qualcosa, cazzo!” urlava una voce acuta, forse quella di Omar, o forse quella di Teresa.
Si proiettò attraverso la porta.
Se avesse trovato solo una lite coniugale, pensò, avrebbe arrestato tutti, o forse li avrebbe uccisi.
Ma, ovviamente, Omar e Teresa erano inginocchiati vicino al corpo riverso di Moreno, mentre Mainardi, con gli occhi sgranati guardava la scena con il cellulare in mano.
“Toglietevi dal cazzo,” disse Sensi, spostando a viva forza il ragazzino. “Datemi una delle siringhe di Moreno,” aggiunse, poi.
“Ho chiamato l’ambulanza, capo,” lo informò Mainardi, mentre Omar gli passava una siringa nuova.
Sensi aprì la confezione del Narcan e tirò fuori una fiala. Riempì la siringa con il suo contenuto, poi la piantò senza tante cerimonie nella spalla di Moreno, passando attraverso il maglione e qualsiasi strato di abbigliamento sottostante. Abbassò completamente lo stantuffo, poi cadde sulle proprie chiappe, respirando come un mantice.
“Cristo,” ansimò.
“Cosa gli hai fatto?” chiese Omar, che era in piedi dietro di lui.
“Gli ho salvato le chiappe,” rispose Sensi. “Era in overdose, giusto?”
“Sì,” disse Teresa, che era ancora inginocchiata accanto all’uomo, in maglietta e mutande. Le mutande, notò Sensi con un certo raccapriccio, erano del tipo con uno spacco davanti.
Osservò la sua opera. Moreno era ancora privo di coscienza, e apparentemente non respirava.
“Fantastico,” borbottò Sensi, rivoltandosi per inginocchiarsi accanto a lui. “Merda,” aggiunse.
Fece una smorfia schifata, tappò il naso dell’altro e appiccicò la propria bocca alla sua. Dopo un istante tolse la mano dal naso, strappò la siringa dalla spalla e iniziò a spingere con forza contro l’esile torace del moribondo. Si chinò e soffiò altra aria.
“Ha l’epatite,” si sentì in dovere di informarlo, Omar.
Sensi soffiò ancora, continuando a spingere ritmicamente sul cuore dell’altro.
Finalmente Moreno spalancò gli occhi.
Sensi, sputacchiando, tornò a sedersi sulle proprie chiappe.
“Tanto perché tu lo sappia,” disse all’uomo ancora riverso a terra, “questa è una delle cose più schifose che io abbia mai fatto. E non parlo della tua bava.”
Moreno lo guardò con aria confusa, poi ebbe un brivido.
“Adesso andrai in astinenza,” lo informò Sensi.
“Cazzo,” disse l’altro, con voce impastata.
“Se pensi di aver avuto una giornata di merda non hai visto la mia.”
Moreno cercò di tirarsi a sedere.
“Capo, che cosa…?” iniziò a dire Mainardi, avvicinandosi con una certa cautela.
Sensi si rialzò. “Avevo la mezza idea che questo imbecille si volesse fare il buco dell’addio,” borbottò. “Qualcuno ha della Red Bull?” aggiunse.
Il citofono suonò.
“Dev’essere l’ambulanza,” offrì Mainardi, senza muoversi.
“Bene. Non credo che si siano accorti che il portone è scassato. Forse è meglio che apri.”
Teresa, intanto, stava insultando allegramente il suo uomo.
“Ehy, commissario,” disse Omar, toccando Sensi su un braccio. “Bella mossa.”
Sulle scale iniziarono a risuonare dei passi veloci. Un istante dopo un tizio della Pubblica Assistenza infilò la testa dentro.
“È qua l’overdose?”
Moreno, ancora sul pavimento, sventolò una mano in segno di saluto.
L’infermiere si guardò intorno con espressione smarrita.
“Gli ho fatto una fiala di naloxone,” spiegò Sensi, tirandosi indietro i capelli. Poi guardò l’orologio.
“Se ora permettete, avrei una bomba a cui badare all’altro capo della città,” aggiunse.
La mattinata stava prendendo una piega decisamente surreale.

Una linea d'ombra - 19

Fuori c’era da gelare. La nevicata non era riuscita a decollare e adesso piovischiava. La pioggia, però, sembrava neve sciolta.
Sensi aveva brillantemente coordinato gli sfollati, dirigendoli verso i bar più vicini. Un anziano signore si era rifiutato di lasciare il suo appartamento e Sensi, alla fine, era riuscito a convincerlo ad uscire quando sarebbero arrivati gli artificieri, a patto che Tudini gli offrisse almeno due grappe.
Gli artificieri erano stati gradevolmente veloci.
Una decina di minuti dopo che Tudini aveva dato l’allarme era arrivata una Lancia, seguita da un pulmino della Marina Militare.
Dalla Lancia era sceso un tizio sulla cinquantina, dai capelli brizzolati, che indossava un giaccone beige molto imbottito. Il suo portamento militare era un po’ appannato dal mento morbido, che certamente si abbinava a un girovita altrettanto morbido.
Il militare si diresse a colpo sicuro verso Tudini, che lo accompagnò verso un Sensi che stava dondolando sui piedi per scaldarsi e che aveva tutta l’aria di ciondolare lì attorno.
“Capitano di fregata Mario Nunzio,” disse il tizio, allungando una mano. Sensi si presentò, battendo lievemente i denti.
“È il comandante del Nucleo SDAI,” spiegò Tudini, in tono ammirato. “Servizi difesa antimezzi insidiosi.”
“Ottimo. Io, qua, sono il capo lotta ai figli di puttana insidiosi, invece,” disse Sensi. “Ma se non sposto le chiappe al caldo presto non potrò più lottare contro nessuno.”
Il capitano di fregata gli rivolse un sottile sorriso. “Possiamo parlare dentro la mia macchina,” propose, e iniziò nello stesso istante a fare strada. Sensi lo seguì con un certo entusiasmo.
L’interno della macchina era tiepido, niente di più, ma era già un miglioramento rispetto a fuori. Sensi si piazzò sul sedile del passeggero, mentre Tudini saliva dietro.
“Mi spieghi,” disse il capo-artificiere.
Sensi si alitò sulle mani. “Non so nemmeno se c’è, una bomba,” spiegò. L’altro non fece una grinza.
“Ma questo tizio, Nicosia, forse ha ucciso una donna. Il suo appartamento è stato ripulito. È probabile che spiasse la tizia dalla finestra della camera da letto. Mi dà tutta l’impressione di un paranoico di quelli duri. Sul suo comodino c’erano tre libri, due li ho letti anch’io. In uno si parla di un gruppo terrorista che fabbrica una bomba al fertilizzante, nell’altro di un bombarolo. Nel terzo non so, ma è roba di corpi scelti, sicuramente. Ora, io non ho niente contro le letture ricreative, ma due su tre mi mette un po’ a disagio.”
Sensi si soffiò di nuovo sulle mani. “Ha staccato l’acqua, il gas, tutto quanto. L’armadio della camera da letto ha uno strano odore, molto lieve. C’è un pezzetto di scotch attaccato tra le due ante, ma non riesco a vedere se tiene in posizione un filo. Ah, e l’odore secondo me è quello di una miccia al magnesio, ma potrebbe essere anche un antitarme.”
L’altro lo fissò in silenzio per qualche istante.
“Sicché lei sospetta che dentro all’armadio ci sia una bomba a base di nitrato d’ammonio,” disse, alla fine.
“O magari un pupazzo a molla zeppo di antitarme,” rispose Sensi.
Il capitano di fregata gli rivolse un altro sottile sorriso.
“Se viene fuori che è solo antitarme provvederemo senz’altro a ristabilire l’habitat naturale delle bestiole, non tema.”
Sorrise anche Sensi, poi il suo cellulare iniziò a suonare.
“Sarei un po’ impegnato,” rispose Sensi, continuando ad alitarsi sulle mani.
“Capo, abbiamo un problema,” disse Mainardi, dall’altro capo.
“Se è più grosso del nostro entro in ferie con effetto immediato.”
“Dall’appartamento di Morelli provengono delle grida.”
A Sensi servì un attimo per ricordarsi che aveva ordinato a Mainardi di appostarsi davanti a Toxic Ville.
“Vai a controllare che cosa succede, arrivo,” disse.
Poi, senza dire una parola, scese dalla macchina e iniziò a correre verso il suo fuoristrada.
Mario Nunzio si voltò verso Tudini. “Fa sempre così o gli fanno impressione le termiti?” chiese.
Tudini scosse la testa, abbattuto: “No, fa sempre così.”

giovedì 18 giugno 2009

Una linea d'ombra - 18

Era riuscito ad alzarsi dal letto alle sei e mezza del mattino, un fatto praticamente unico. Forse era una punizione divina, pensò. Se fosse stato disposto ad alzarsi alle sei e mezza del mattino il giorno precedente, forse Erica sarebbe stata ancora viva.
Forse.
In fondo c’era sempre, un forse.
Lasciò Carmel a dormire nel suo letto singolo, i capelli scuri sparpagliati sul cuscino e la pelle color cannella che nell’oscurità sembrava risplendere.
Si vestì in fretta e uscì.
L’aria era così fredda che sembrava morderti la faccia. Alcuni radi fiocchi di neve svolazzavano sopra il marciapiede umido e buio. Sensi salì sul wrangler e accese l’aria calda al massimo.
Uno avrebbe pensato che a quell’orario antelucano le strade fossero vuote. Non era così: il traffico era sostenuto, ma scorrevole, il che era già un miglioramento rispetto alla media.
Sensi arrivò al condominio di via Milano alle sette e qualche minuto e parcheggiò in divieto accanto a una volante. Il cielo era grigio scuro, i fiocchi di neve erano meno radi, l’aria continuava a mordere.
Il commissario si allacciò il giubbotto fino al collo, controllò la pistola e chiuse la macchina.
Un agente in divisa lo fece entrare nel palazzo. Salì le scale con calma fino al secondo piano. Davanti alla porta di Nicosia stazionavano un altro paio di agenti in divisa e un Tudini dall’aria semi-addormentata.
“Non si è visto per tutta la notte,” disse l’ispettore, salutandolo con un cenno del capo.
“Quindi da quanto manca all’appello?”
“Per quel che ne sappiamo dal momento dell’omicidio.”
Sensi annuì. “Abbiamo l’autorizzazione?”
Tudini si toccò la tasca della giacca. “Ho portato anche un piede di porco e un cacciavite. La porta sembra bella robusta,” disse.
Sensi, con uno scatto improvviso, tirò una scarpata contro la porta di Nicosia, in alto, vicino alla serratura. Si sentì un crack agghiacciante e la porta si spalancò con un tonfo.
Tudini e gli agenti guardarono il varco con espressioni allucinate.
“È una questione di baricentro,” spiegò Sensi.
“E tu che cosa ne sai di baricentri?” replicò Tudini.
L’altro sorrise, si strinse nelle spalle e entrò. “Niente, ma la serratura faceva cagare.”
L’interno dell’appartamento era gelido ed era in ombra, ma le tapparelle erano aperte e le finestre chiuse. Nel soggiorno non c’era niente che facesse pensare in modo lampante al covo di un omicida. C’erano un paio di poltrone chiare, un gigantesco televisore vecchio tipo e qualche mobile assortito.
Sensi accese la luce e passò nella camera da letto. Il letto, a due piazze, era perfettamente rifatto. Sul comodino c’erano alcuni libri e un posacenere vuoto, ma non pulito.
Sensi si infilò un paio di guanti di lattice e sollevò uno dei libri.
“Lee Child,” informò gli altri. “Jeffery Deaver, Stephen Leather.”
Tudini gli rivolse uno sguardo vacuo. “Sarebbero gialli?”
“Deaver sì. Gli altri due… sai, credo che sia meglio che tu esca un attimo insieme agli agenti. Due su tre li ho letti, e non vorrei…”
“Ermanno, che cosa stai dicendo?”
“Esci, cazzo!” gridò il commissario.
Tudini fece segno agli altri due di allontanarsi. “Io resto qua,” spiegò.
Sensi sbuffò, poi iniziò a guardarsi attorno.
“Qual è il primo posto dove guarderesti, se stessi cercando delle prove?” chiese.
“Noi stiamo cercando delle prove,” ribatté l’altro.
“Ok, dove?”
“Nel comodino, nell’armadio, nel frigo…”
“Buffo, io avrei guardato sotto il letto,” disse il commissario. Sembrava di un umore ancora più strano del solito.
Si accucciò accanto al comodino e si voltò verso Tudini. “Potresti almeno andare sulla porta?” chiese.
Tudini obbedì. Il commissario avvicinò la faccia a uno dei cassetti e lo annusò. Poi guardò con attenzione tutto attorno, infine lo aprì di qualche millimetro, voltando la faccia dall’altra parte.
Il cassetto si aprì senza rumore.
“Cristo,” disse Sensi, finendo di aprirlo. Diede una distratta occhiata all’interno. “Tu resta lì, eh?”
“Vorrei solo sapere che cosa pensi che possa succedere, Ermanno. Perché se hai il sospetto…”
“Zitto. Ora apro l’altro.”
Sensi ripeté la procedura con il secondo cassetto, gettò una rapida occhiata al suo contenuto e si rialzò in piedi.
“Allora?”
“Sono vuoti,” disse il commissario. Si avvicinò all’armadio e si accucciò lì accanto. Osservò con attenzione la chiusura delle ante.
“Potrebbe essere questo,” disse. “Cioè, io di esplosivi non ne capisco niente, ma ha uno strano odore e qua, nella fessura, c’è come un pezzetto di scotch. Non riesco a capire se c’è attaccato un filo, però. Che faccio, apro?”
“No! Ermanno!”
Sensi si rialzò e si mise a ridere. “Chiama gli artificieri, sgomberate il palazzo, io intanto guardo le altre stanze.”
“Non è meglio uscire?”
“Mi sono svegliato alle sei e mezza, adesso non mi muovo finché non ho visto quel che c’è da vedere.”
Mentre Tudini se ne andava, col cellulare già attaccato all’orecchio, Sensi iniziò a girellare per l’appartamento. Nicosia non ci aveva lasciato dentro molto. In frigo c’era un cartoccio del latte e qualche zucchino, nella dispensa una confezione ancora sigillata di cereali integrali, nel bagno un pacchetto di cerotti mai aperto. La lavastoviglie era stata caricata a pieno carico e le stoviglie erano ancora dentro. Il cesto della biancheria sporca era vuoto. Nella libreria in soggiorno mancavano almeno una ventina di volumi, a giudicare dai buchi. Il pavimento, i mobili, la tv, erano puliti, quasi splendenti. All’aspirapolvere era stato tolto il sacchetto. Il cestino della spazzatura non c’era, anche se c’era uno spazio vuoto sotto il lavandino dove forse era stato alloggiato.
La caldaia era spenta, il gas e l’acqua erano chiusi.
Sensi andò a guardare dalle varie finestre. Il soggiorno non ne aveva, la camera da letto e il bagno davano sullo stesso cortile interno su cui dava il portone, quella della cucina dava su via Milano.
Nella casa c’era un freddo fottuto, i vetri non erano appannati, e attraverso la finestra della camera da letto Sensi riusciva a vedere perfettamente gli inquilini del condominio che si affollavano nel cortile, alcuni ancora in vestaglia.
Alitò sui vetri fino ad appannarli un po’. Su quello di destra c’era un cerchio approssimativo, probabilmente il segno di qualcuno che aveva ripulito la condensa con la mano o con la manica. Dal buco si vedeva la parte del cortile, di fronte al portone.
Sensi si cacciò le mani in tasca e uscì dall’appartamento.

mercoledì 17 giugno 2009

Una linea d'ombra - 17

Era riuscito a convincere Carmel a cenare con lui con l’unico ausilio delle sue occhiaie viola. Le aveva raccontato tutto mentre lei mangiava una pizza seduta sul suo divano e lui succhiava dei cubetti di ghiaccio, steso lì accanto.
Ora Carmel stava lavando i bicchieri nel suo lavandino, dandogli le spalle.
“Sai, hanno inventato un macchinario apposta per questo,” le disse Sensi. “Si chiama lavastoviglie, è proprio lì sotto.”
“Ce metto un istante,” replicò lei.
Sensi si alzò e le si affiancò. “Allora passami almeno quei bicchieri, li asciugo.”
Carmel ne appoggiò uno sul ripiano del lavandino.
“Perché te ne sei andato alle quattro?” chiese.
Sensi iniziò ad asciugare il bicchiere. “Perché lei questa mattina doveva alzarsi alle sei e mezza, e io volevo dormire.”
Carmel gli appoggiò davanti un altro bicchiere. Non si stava limitando a lavare i piatti di quella sera, ma si stava accanendo contro tutte le stoviglie sporche che trovava. E visto che quello era l’appartamento di Sensi, ce n’era un certo numero.
“Se fossi rimasto forse non sarebbe morta,” disse lui, continuando ad asciugare.
“Sì,” rispose lei. “Manno, ma perché me devi contare este cose, eh?”
Lui si strinse nelle spalle.
Carmel chiuse il getto dell’acqua e si voltò verso di lui. Come sempre, era bella.
“Io non voglio sapere delle donne che vedi, lo comprendi esto?”
Sensi si limitò a guardarla. “Ti ho chiesto mille volte…” iniziò.
“E io te ho resposto mille volte e una che con te non ce posso stare. Sei troppo loco per mi. Ma non voglio sapere niente de quello che fai con…”
“Ok,” disse Sensi, che non voleva sentire la fine del discorso.
Carmel gli accarezzò una guancia. “Lo siento,” disse, e intendeva che le dispiaceva.
“Lo so.” Sensi si allungò verso di lei e la baciò sulle labbra. “Ti…” disse. “Forse ti…” corresse.
“C’è siempre un forse,” sorrise Carmel, mentre lui tornava a baciarla.
“Immagino che ci sia in ogni caso,” disse lui, sorridendo a sua volta. “Andiamo di là?”
“Almeno quello te riesce benino,” concesse lei.

Una linea d'ombra - 16

Fuori l’aria era fredda e umida, uno standard spezzino. Ancora non aveva piovuto, ma forse più tardi avrebbe nevicato. Sensi sperava di no. A Spezia nevicava una volta ogni tre anni, ma quando succedeva le strade diventavano un inferno completo. Roba che in confronto la famosa rotonda a sette giri inglese sembrava un gioco per bambini.
Mentre si immetteva nel traffico normalmente infernale delle sette di sera, Sensi telefonò a Tudini.
Davanti a lui una Punto in tripla fila si lanciò improvvisamente in mezzo alla strada, rischiando di investire dei pedoni che avevano avuto l’ardire di provare ad attraversare sulle strisce.
“Max?” chiese Sensi, quando l’ispettore rispose, “hai mica parlato con un certo Davide Nicosia, oggi pomeriggio?”
Sensi sentì che l’altro sfogliava un taccuino.
“No, Ermanno. Non era in casa. Riprovo domani. Concluso qualcosa?”
“Metti qualcuno a sorvegliare l’appartamento.”
“Di Nicosia?”
“No, del Mago Silvan.”
“Pensi che sia stato lui?”
“Be’, come fai a fidarti di uno che di mestiere uccide canarini?”
Il silenzio di Tudini lo avvertì che l’ultima battuta non era alla sua altezza. “Non Nicosia, naturalmente. Quelli che uccidono i canarini sono gli illusionisti. Quando il canarino scompare dalla gabbietta, hai presente? In realtà la gabbietta si chiude come una fisarmonica e il canarino rimane spiaccicato dentro.”
“Ah, ma Nicosia non è un illusionista.”
“No, in effetti no.”
Tudini ci pensò ancora per qualche secondo. “Quindi non ha ucciso nessun canarino,” disse, alla fine.
“No, credo che abbia ucciso Erica,” rispose Sensi, prima di riattaccare.
Doveva vomitare di nuovo.

martedì 16 giugno 2009

Una linea d'ombra - 15

In piazza Verdi c’erano due saloni di parrucchiera. Uno era grande e nuovo, sul lato sud, uno era piccolo e vecchiotto, sul lato nord, incassato tra un negozio d’abbigliamento maschile in cui Sensi non si sarebbe comprato neanche un paio di calzini e un tabacchino dalla vetrina piena di oggetti disparati, non necessariamente collegati col fumo: statuette, scacchi, portachiavi, lavalamp. Sensi aveva quasi la tentazione di comprarsi una lavalamp viola a forma di fallo (ma forse che fosse a forma di fallo era solo una sua idea), ma poi lasciò perdere.
Si infilò nel salone piccolo e vecchiotto.
Era un ambiente lungo e stretto. Su un lato c’era un grande specchio, con davanti tre poltroncine occupate da altrettante signore avvolte in pastrani color argento, con i capelli a diversi stadi di ammollo.
In fondo c’erano due lavatesta e in un angolo, quasi abbandonata, una poltrona con sopra quello che assomigliava a un casco spaziale.
Di primo acchito nessuno parve fare caso al commissario.
Una donna giovane, con i capelli di uno squillante biondo platino, era impegnata a impastare i capelli di un’altra, che erano coperti da una sorta di melma violacea. Un’altra tizia, mingherlina, stava usando un rumorosissimo phon sulla chioma di una cliente piuttosto stagionata. La chioma era di un gradevole colore azzurrino.
Alla fine la tizia con i capelli biondo platino si sfilò i guanti con uno schiocco e andò verso di lui.
“Ciao,” disse, guardando con occhio professionale i capelli lunghi e ingarbugliati di Sensi. “Ti serve un appuntamento?”
“Non credo,” rispose il commissario.
“Peccato. Hai un nero naturale stupefacente.”
Sensi, involontariamente, si tirò indietro i capelli. “Be’, grazie. Ma temo che sia una visita ufficiale. Sono il commissario Sensi, squadra mobile.”
L’altra si mise a ridere, poi, come il commissario in fondo si aspettava, disse: “Tu non sei un poliziotto!”
Sensi, rassegnato, tirò fuori il distintivo.
“Oh, wow. Allora?”
Sensi rimise via il distintivo. “Erica Buscetta.”
“Sì? È stata qua ieri, le è capitato qualcosa?”
Sensi annuì. “Come ti è… sembrata?” si mantenne sul vago.
“No, bene, perché? Che cosa le è successo?”
“Aveva un occhio nero,” disse Sensi, senza rispondere. Chissà se avevano un bagno, là dentro. Probabilmente non avrebbero apprezzato se si fosse messo a vomitare in un lavatesta.
“Sì, l’ho visto. È stato un suo allievo, una roba da non crederci. Ma lei era ok, stava bene. Era di buon umore. Doveva uscire con un tipo, uno simpatico.”
“Scusa, hai per caso un bagno?”
La parrucchiera sembrò presa alla sprovvista. “Sì, là in fondo, ti faccio vedere.”
Sensi si era già lanciato da quella parte. La parrucchiera lo vide entrare come una furia e poi sentì l’inconfondibile rumore di qualcuno che vomita.
Si sedette sullo sgabello che c’era nella minuscola anticamera del bagno, sotto alle giacche delle clienti.
Dopo qualche secondo lo strano poliziotto uscì fuori.
“Scusa, ho fatto indigest-“
“È morta, giusto?”
Il poliziotto si voltò e vomitò ancora.
La parrucchiera sentì tirare lo sciacquone e l’acqua del lavandino che scorreva, poi l’uomo riemerse.
“Sì,” disse.
La parrucchiera si morse un labbro. “Cazzo,” mormorò. “È stato quel tizio, quello simpatico?” chiese, con voce rotta.
Sensi scosse la testa.
“Eri tu quel tizio simpatico?” chiese, allora, lei.
“Dovresti entrare in polizia.”
“Il sangue mi fa impressione.”
Sensi si asciugò un po’ d’acqua dal mento usando la manica del giubbotto.
“Che tu sappia c’era qualcuno che la disturbava? Che le dava noia, la tampinava, non so?”
La parrucchiera ci pensò per qualche minuto. “Aveva un ex-ragazzo. Ma quello più che altro era un imbecille. Le aveva fatto le corna, Erica ci era rimasta malissimo.”
“Qualcun altro?”
“C’era un matto che abitava nel suo palazzo,” disse la parrucchiera. “Be’, che era un matto lo dico io, a Erica stava simpatico. Le portava cose da mangiare, roba così.”
“E perché era un matto, secondo te?”
L’altra si strinse nelle spalle. “Impressione. Uno non ti porta da mangiare se non ha in mente qualcosa, ma Erica diceva che era solo amichevole. Personalmente non ho mai incontrato un tizio amichevole che non mi volesse entrare nelle mutande.”
Sensi fece un piccolo sorriso.
“Proprio così,” disse l’altra, indicandolo. “Esattamente quel tipo di sorriso amichevole.”
“Continuo a pensare che dovresti fare lo sbirro.”
“Questo perché non hai mai visto come faccio i capelli.”
L’altro sorrise ancora, poi si tirò un foglio fuori da una tasca. “Poteva chiamarsi Davide Nicosia?” chiese.
La parrucchiera si mordicchiò ancora un labbro. “Davide, Roberto, una cosa così. Non ho memoria per i nomi.”
“Ok, grazie.”
La parrucchiera si alzò.
“Di niente, bello. Se decidi di tagliarti i capelli fammi un fischio. Quel colore ce l’ha uno su un milione.”

lunedì 15 giugno 2009

Una linea d'ombra - 14

I Servizi Sociali avevano degli uffici in una costruzione isolata all’angolo tra via Fiume e viale Aldo Ferrari. Era un palazzotto circondato dagli alberi, probabilmente del 1800 o degli inizi del ‘900, che era occupato per metà dalla ludoteca cittadina.
Sensi parcheggiò la sua macchina nel minuscolo cortile, bloccandone un altro paio. Con un po’ di fortuna una delle due poteva essere quella dell’assistente sociale che cercava, che così non avrebbe potuto svignarsela.
All’accettazione un tizio vestito da postino gli disse che Elena Turri era fuori servizio.
Sensi non fece una grinza e chiese della sua collega, tale Datterio.
Ma anche lei, sfortunatamente, era fuori servizio.
“Allora mettiamola così: c’è un qualunque assistente sociale con cui possa parlare, all’orario sconveniente delle…” diede un’occhiata all’orologio “…quattro e venti del pomeriggio?”
“Se avesse preso un appuntamento…” disse il postino, con aria sconfortata.
“E la segretaria?” provò Sensi.
“Dovrebbe aver staccato proprio…”
Una donnetta rotonda e agitata fece il suo ingresso proprio in quel momento da una porta laterale: “C’è un fuoristrada che mi blocca l’uscita!” esclamò, rivolta al postino.
“Mi dia una buona notizia: è lei?” chiese Sensi, nello stesso momento.
“Sì,” ammise il postino, che chiaramente si pentiva di non essersene andato mezz’ora prima.
Sensi rivolse alla donna un sorriso largo come quello di uno squalo. “Che fortunata coincidenza. Cercavo proprio lei!”
Lei sospirò, evidentemente seccata, e guardò l’orologio. “Be’, è un po’ tardi, me ne stavo andando. Per le consulenze individuali…”
Sensi le piazzò il distintivo davanti al naso. “Io lo chiamerei più ‘interrogatorio informale’, ma può dargli il nome che preferisce. In quanto al fatto che se ne stava andando, le devo rivelare un piccolo segreto. Sa il fuoristrada che le blocca la strada? È il mio.”
La segretaria fece quasi un salto all’indietro, poi si infilò un paio di occhialetti a mezzaluna per leggere quello che c’era scritto sul distintivo.
“Commissario capo Ermanno Sensi. Credo che abbia un paio di minuti per ricevermi. A meno che non voglia tornare a casa a piedi, è ovvio.”
L’altra sospirò. “Be’, poteva dirlo subito. Venga.”
“A dire il vero stavo pensando di farmi prestare un paio di ganasce dalla stradale. Inizio a credere che, se continuerò a frequentare i Servizi Sociali, mi saranno utilissime.”
La segretaria, sconfortata, gli fece strada attraverso una porta di servizio e poi su per una scaletta stretta e male illuminata. Se quella era l’area aperta al pubblico, chissà com’erano le cantine. Forse c’erano le bare delle assistenti sociali Turri e Datterio.
Finalmente arrivarono in un piccolo ufficio dal tipico stile istituzionale: faldoni ovunque e poster squallidi alle pareti. La segretaria si incastrò dietro alla scrivania e accese il computer.
“Allora,” disse.
Era una donna sulla cinquantina, con dei capelli rosso scuro che formavano una specie di bolla sopra la sua testa e una collana a grosse palle azzurre.
“Credo di aver parlato con lei ieri. Omar Gomez.”
L’altra annuì. “Sì, il ragazzo di Teresa e Morelli.”
“Il padre naturale?”
La segretaria scosse la testa. “Tornato a San Salvador, credo. Ma anni fa. Nell’ultimo decennio Teresa è stata insieme a Moreno – Morelli, voglio dire.”
“Sì, sono stato a casa loro.”
“Una situazione difficile.”
Sensi rise. “Se quella è difficile chissà come sono quelle fottutamente incasinate.”
Rise anche la segretaria. “Ha visto anche il piccolino?”
“All’inizio pensavo che fosse un bambolotto. Comunque, lei ne sa qualcosa della denuncia che ha fatto il giovane Gomez?”
L’altra scosse di nuovo la testa. “Sa, dovrebbe parlarne con la Turri. Il caso è suo.”
“Inizi a parlarmene lei. È la segretaria, le segretarie sanno sempre tutto.”
Forse la blanda forma di adulazione ebbe qualche effetto, perché la donna si piazzò gli occhialetti sul naso con fare professionale e iniziò a digitare sul computer.
“Lasci perdere quell’affare. Mi dica che cosa ne pensa lei.”
L’altra sembrò presa alla sprovvista. “Be’, ecco.”
“Erano stronzate o c’era qualcosa di vero?” incalzò Sensi.
“Insomma, non saprei. Se devo dire che qua ci hanno creduto tutti…”
“Ok, erano stronzate. È la stessa conclusione a cui sono arrivato anch’io. Parliamo della Buscetta, adesso. La conosce?”
La segretaria aggrottò la fronte. “Non bene. L’ho vista qualche volta, suppongo. Non mi sembra la tipa da… be’, ecco. Comunque, era anche per questo che qua eravamo tutti scettici.”
“Già. Adesso vengono le domande difficili, si prepari,” le disse Sensi, sporgendosi leggermente verso di lei. “Ci sono state delle chiacchiere? Qua, dico, in questi uffici?”
“C-che genere di…”
“Su questa storia. Era una di quelle cose di cui si parla, su cui si fanno commenti?”
“Non credo di…”
“Avanti, capisce benissimo. Un mese fa abbiamo trovato il corpo di uno che si era fulminato infilandosi un arricciacapelli nel sedere… in questura lo sapevano anche i muri. Se ne parlava alla macchina del caffè, in mensa, in ascensore.”
La segretaria sorrise. “Cioè, proprio…”
“Dritto nel culo, manico compreso. Si è fulminato, ma sarebbe anche sopravvissuto se non fosse scivolato sulle mattonelle del bagno.”
“Pazzesco.”
“Già. E le potrei raccontare di quella che è arrivata per denunciare il marito che le aveva nascosto il telecomando.”
“No! Ed è perseguibile?”
“Non ne ho idea. Le ho consigliato di comprarsi un telecomando universale e di tenerselo sempre in borsetta.”
“Buona idea.”
Sensi tornò a rilassarsi contro lo scomodo schienale della sua sedia. “Ora, quello che voglio sapere è questo: era una di quelle storie?”
“Be’, non proprio. Se n’è un po’ parlato. Riccardi ha detto che se la Buscetta gliel’avesse fatta a lui, la… hem…”
“Sega?” propose Sensi.
“Già. Ecco, Riccardi non si sarebbe lamentato.”
“È quello che ha detto anche l’ispettore Mainardi.”
“Sì, lei è una ragazza carina.”
Sensi soffocò un conato di vomito. Obbiettivamente, non poteva continuare così.
“Si sente bene?”
“Benissimo, ho mangiato un po’ pesante. Quindi diceva che un po’ se ne è parlato.”
L’altra scrollò le spalle. “Un po’.”
“Bene, adesso provi a ricordarsi… chi c’era, quando ne avete parlato? Questo Riccardi, e poi?”
“Ma perché…?”
“Glielo spiego dopo, si concentri.”
La segretaria strizzò gli occhi dietro gli occhialetti a mezzaluna, segno che si stava sforzando.
“Be’, la Turri, forse la Datterio…”
Quindi, pensò privatamente Sensi, ogni tanto anche la Turri e la Datterio comparivano. “Chi altro? Qualche utente?”
“Può darsi… non me lo ricordo. Ma gli utenti non potevano sapere di chi stavamo parlando.”
“Un ragazzo spastico?”
L’altra scosse la testa. “Lo escludo.”
“Allora mi faccia un ultimo favore. Potrebbe controllare se c’è qualcuno dei vostri utenti che abita nei dintorni di via Milano? Vanno bene anche via Napoli, via Roma…”
“Tutta la zona a sud di piazza Brin, giusto?”
Sensi annuì.
La segretaria iniziò a digitare sul computer, concentrata. Andò avanti per dieci minuti buoni, mentre il commissario guardava il soffitto.
Dopo un po’ la vetusta stampante sulla scrivania della segretaria si mise in moto, e ne uscì un foglio pieno di nomi.
“Il fatto è che non so se le posso dare questi nomi,” disse la donna, con aria dubbiosa.
Sensi prese il foglio e se lo cacciò in tasca.
“Può sempre dire che un pericoloso psicopatico minacciava di bloccare la sua auto per sempre,” offrì, prima di scivolare via.

Una linea d'ombra - 13

Il commissario aveva tenuto nel suo ufficio una riunione informativa più laconica del solito, nella quale aveva spiegato perché pensava che Omar Gomez non avesse niente a che fare con la morte di Erica.
“Ma visto che non sarebbe la prima volta che mi convinco di una completa cazzata, tu, Mainardi, da stasera ti piazzi davanti a Toxic Ville e controlli la situazione.”
Mainardi sembrò infelice ma rassegnato. “Mi porterò un thermos,” borbottò.
“Max, tu ti ripassi i vicini uno per uno, cercando di capire se hanno visto o sentito qualcosa ma sono troppo stupidi per aver pensato di dirlo a Mainardi questa mattina. Lei, ispettrice… rimanga su quello che sta facendo,” concluse Sensi, rivolto alla Riu.
Ovviamente non aveva la più pallida idea di che cosa stesse facendo l’altra, ma era probabile che fosse qualcosa di effettivamente anti-crimine.
Poi guardò l’orario e annunciò che avrebbe provato a passare dai Servizi Sociali.

domenica 14 giugno 2009

Una linea d'ombra - 12

Quando uscì dal bagno trovò ad attenderlo un Tudini e un Mainardi che lo guardavano con aria perplessa. Tudini aveva in braccio il bebè.
“Forse sono incinto,” disse Sensi. “Avete una mentina o qualcosa del genere?”
Mainardi gli allungò un chewingum alla fragola.
“Commissario,” disse Moreno, che sembrava leggermente meno in coma rispetto a prima, “posso dirti due parole?”
Sensi annuì e l’altro si tirò stancamente in piedi e prese il neonato dalle braccia di Tudini.
“Andiamo qua fuori, staremo più tranquilli.”
Moreno lo precedette sulle scale verdastre, si accese una sigaretta e si mise a sedere sui gradini, sempre col bimbetto in braccio. Sensi si sedette accanto a lui.
“Omar è nella merda?” chiese il patrigno, con voce spenta.
Sensi non sapeva esattamente che cosa rispondergli. “Tanto bene non è messo, ma con noi non ha problemi.”
“Non mi ha voluto dire cosa ha combinato. È un po’ strano.”
Gli tremava una gamba, ma Sensi non riusciva a decidere se era un effetto dell’eroina che iniziava a mancargli o se era il suo modo di cullare il bimbo.
“Ieri l’altro ha avuto un problema con un’educatrice che lo stava aiutando con i compiti,” disse. “Le è saltato al collo e l’ha picchiata.”
“Oh, Cristo,” borbottò Moreno.
“Poi, pensando che così si sarebbe risparmiato una denuncia, si è inventato che lei l’aveva molestato.”
L’altro chiuse gli occhi e iniziò ad accarezzare ritmicamente la testa del neonato.
“Poi, questa mattina, qualcuno ha ucciso l’educatrice.”
Moreno riaprì gli occhi. “Non può essere stato lui. Era qua.”
“Be’, per essere onesti, la tua testimonianza non vale un cazzo. Ma, sì, non penso che sia stato lui.”
L’altro sembrò sollevato. “È un bravo ragazzo,” disse.
Sensi si tirò indietro i capelli. “Lo sai che non potete continuare così, vero?”
Moreno restò in silenzio.
“Tu e la tua donna vi dovete disintossicare. Dovete andare in una comunità, ma per un bel pezzo.”
“E Omar?”
“Non avete qualche parente?”
L’altro si strinse nelle spalle.
“Mica lo state aiutando.”
“Lo so, ma, sai… le cose andavano abbastanza bene, prima. C’ero stato in comunità, cosa credi? Un anno e mezzo in cima ai monti. Ero pulito come, non so, come qualcosa di molto pulito. Anche Teresa era pulita, tipo, e avevo un lavoro. È stato lì che abbiamo fatto Giacomino.” Dondolò un altro po’, tenendosi il bimbo sul petto.
“Poi mi è scaduto il contratto e… be’, non c’erano soldi, e così…”
“E così siete tornati a bucarvi e a fare marchette. Non è la storia più originale del mondo.”
“Se torno in comunità cosa succede a Giacomo?”
Sensi scosse la testa. “Devi parlarne con loro. Penso che ci siano delle comunità dove tengono anche i bimbi così piccoli.”
“Da soli?”
“No, idiota. Coi genitori. Ma il problema è che tu e Teresa non vi potete prendere cura proprio di un cazzo di nessuno. A me non frega niente se vuoi bene a tuo figlio e anche al figlio della tua donna, e vedrai che non frega niente neanche ai servizi. Avere dei genitori come voi è uno schifo e lo sai benissimo anche tu.”
Moreno continuava a dondolare in silenzio, accarezzando la testa del pupo, e Sensi immaginò che si sarebbe messo a piangere da un momento all’altro.
“Quindi, preparati all’idea. Uno di questi giorni, spero prima che dopo, verrà qualcuno dei servizi e ti dirà esattamente quello che ti ho detto io, solo che dietro ci sarà l’ordine di un giudice. Fai un favore a te stesso, prendi il pupo e vai tu per primo. Magari riusciranno a piazzarti da qualche parte anche con lui, non lo so. Ma a che cazzo ti serve tenertelo attaccato addosso se stai tirando le cuoia per la roba e per l’epatite, eh?”
Adesso Moreno aveva iniziato a piangere, ma Sensi non aveva ancora finito con lui.
“Non è meglio perdersi qualche vagito del bambino – che tanto non c’è – e non perdersi, tipo, la sua licenza elementare, o quando si sbuccerà le gambe giocando a calcetto, o quando avrà bisogno di un padre abbastanza in forma da andarlo a prendere in discoteca?”
“Cazzo, commissario…” piagnucolò Moreno.
“Già, mi sto commovendo da solo.”
L’altro lo guardò con gli occhi umidi e Sensi pensò che assomigliava a un cane malato che prova a convincerti a non fargli l’iniezione. Tranne che, in effetti, un’iniezione probabilmente era proprio quello che Moreno desiderava, in quel momento.
Si alzò in piedi e gli tese una mano per aiutarlo a fare altrettanto.
“Grazie, sei un bravo sbirro,” gli disse Moreno, sistemandosi meglio il bimbo in braccio.
“Questa me la tatuo sulle chiappe.”
“Dico davvero.”
Sensi gli fece l’occhiolino. “Anch’io. Niente scherzi.”

Una linea d'ombra - 11

Toxic Ville, come l’aveva ribattezzata mentalmente Sensi, era uguale al giorno prima. La madre di Omar, Teresa Rosario, era una donna giovane che sembrava una cinquantenne, con i fianchi larghi e la sclera degli occhi gialla. Per un istante Sensi vide una vaga somiglianza con Carmel, la sua pseudo-fidanzata, e quasi dovette tornare a vomitare.
Omar era tappato in camera sua, Moreno guardava la tv a basso volume e il neonato se ne stava immobile sul divano facendo bolle dalla bocca.
Sensi entrò nella stanza di Omar.
“Ciao,” disse, iniziando a spostare i suoi vestiti dal letto senza che l’altro si scomponesse. Il ragazzo si tolse le cuffie e lo guardò con espressione vacua.
“Ah, sei tornato,” borbottò, senza entusiasmo.
“Già. Devo farti ancora una domanda. Dov’eri questa mattina dopo le quattro?”
L’altro inarcò le sopracciglia. “Ero qua, dove vuoi che fossi?”
“C’è qualcuno che può testimoniarlo?”
Omar sbadigliò. “Mia mamma, Moreno.”
“Qualcuno di vagamente attendibile, intendevo.”
L’altro scosse le spalle.
“E spegni quel cannone, per favore.”
Omar diede un’altra alzata di spalle e appoggiò la canna accesa sopra il solito portacenere strabordante.
“Questa mattina, dopo le quattro, è stato commesso un crimine.”
“Wow, scommetto che solo l’idea te lo fa venire duro.”
“Se non riesci a convincermi che sei stato qua tutta la notte sarò costretto ad arrestarti per questo crimine.”
“Ora sì che mi sto cagando in mano.”
“Quindi te ne sei stato qua. Mamma e Moreno se ne sono stati in camera loro, fatti persi, e tu potresti essere andato fino a Torino e ritorno, per quello che ne sanno loro. Inizi ad afferrare?”
Omar espirò ed inspirò, come se cercasse di rimanere calmo.
“Sono stato qua. La mamma era in camera sua a scopare un grasso vecchio flaccido per una ventina di euro, Moreno era sul divano a farsi una pera, il mio fratellastro si cacava addosso come al solito e io me ne sono stato qua a godermi l’allegro clima familiare, ok?”
“Lo sai il nome del grasso vecchio flaccido?” domandò Sensi, senza battere ciglio.
“No!” strillò il ragazzino. “No che non lo so, cazzo! Prova a chiederlo a Teresa, se proprio ti stuzzica!”
Sensi si alzò. “Se non se lo ricorda neanche lei, o se il tizio non si ricorda di te, ti porto dentro.”
Anche Omar si alzò in piedi. “Portami un po’ dove cazzo vuoi, sbirro! Vuoi sapere che cosa ho fatto questa notte? Lo vuoi sapere davvero?”
“Non immagini quanto,” rispose Sensi.
Omar gli mostrò il dito medio. “Mi sono scopato tua madre, sbirro.”
Sensi scosse la testa, contrariato.
“Forse non mi sono spiegato. Dammi una prova che non ti sei mosso di qua, o-“
“O mi metti dentro, sai che strizza! Sono minorenne, bello, non puoi farmi proprio nien-“
Omar non terminò la frase. Sensi l’aveva preso per il bavero della felpa oversize e l’aveva sollevato in aria, poi l’aveva attaccato contro il muro come un post-it.
“Non posso farti niente? Ma tu che cazzo ne sai di quello che posso farti, eh?” gli sussurrò il commissario. Omar provò a scalciare in aria. Come cavolo faceva quel tizio magrolino a tenerlo su con un braccio solo?
E poi, per un istante, Omar vide i suoi occhi che riflettevano la luce come quelli di un animale, ed erano di un colore che sembrava sangue.
“Lasciami!” provò a gridare, ma le sue corde vocali, compresse dal pugno dell’altro, non collaborarono.
“Sto aspettando,” disse Sensi, gelido. Non sembrava affaticato, sembrava solo incazzato nero. Non incazzato come la mamma quando Omar le chiedeva qualcosa, qualsiasi cosa, e non incazzato come Moreno quando non aveva i soldi per farsi. No, quella era una qualità di incazzatura tutta nuova per Omar, e molto più spaventosa.
“Ok, senti…”
Lo sbirro allentò un po’ la presa.
“Fammi… scendere…”
Omar si ritrovò di nuovo con i piedi per terra e tossì un paio di volte.
“E va bene, guarda che cosa ho fatto stanotte, ok?” piagnucolò, tirandosi su le maniche della felpa. “Solo questo,” iniziò a singhiozzare. “Nient’altro…”
Sensi osservò per qualche secondo i nuovi tagli che erano comparsi accanto alle cicatrici di quelli vecchi, poi uscì dalla stanza e andò a farsi la seconda vomitata della giornata.

venerdì 12 giugno 2009

Una linea d'ombra - 10

Il commissario non era mai stato, per quel che ne sapessero i suoi uomini, una persona dal carattere solare. Nelle giornate di buonumore, che erano rare come le giornate serene di Spezia, era irritabile, sarcastico e vagamente indisponente.

Quando era di cattivo umore, ossia abbastanza spesso, era l’equivalente umano di un cactus, solo vestito come un gotico.

Ma la squadra mobile raramente l’aveva visto di un umore così nero e così poco loquace.

Da quando avevano trovato, su segnalazione di un vicino, il cadavere della Buscetta, il capo si era limitato a monosillabi funerei e a occhiate cupe.

Tudini aveva provveduto a indire una riunione nel suo ufficio ed era andato personalmente a recuperare Sensi nel suo.

L’ufficio di Tudini era il classico luogo da impiegato pubblico. La scrivania era un po’ in disordine, ai muri c’erano degli scialbi poster di paesaggi, le poltroncine erano lise e il computer era di un modello già vecchio quando era uscito dalla fabbrica.

“Il medico legale non ha ancora effettuato un’autopsia della vittima – è fissata per lunedì mattina,” iniziò Tudini, in piedi accanto alla sua scrivania con il taccuino in mano. “Ma ha eseguito alcuni rilievi preliminari. La Buscetta è stata colpita ripetutamente alla testa con un corpo contundente non identificato di forma tubolare, forse una spranga o un tondino di ferro. La natura ripetuta dei colpi indica che non può trattarsi in alcun modo di un incidente domestico, per cui l’abbiamo classificato come omicidio. La morte è sopraggiunta nelle ultime ore della notte o nelle prime ore del mattino, ed è stata pressoché istantanea.”

“Ci sono ferite da difesa?” chiese la Riu, che se ne stava in piedi accanto alla porta.

“Il polso destro è fratturato, quindi probabilmente l’assassino l’ha colpita mentre cercava di fermarlo.”

“La porta non presenta segni di scasso,” disse Mainardi, sfogliando a sua volta un taccuino. Sensi, per una volta, non sembrò minimamente infastidito dagli onnipresenti supporti cartacei. Si limitò a restare appoggiato alla porta, a sinistra della Riu, senza emettere una parola. Cosa che poi aveva fatto fin dalla mattina. “Quindi dobbiamo presumere che abbia lasciato entrare l’assassino volontariamente,” continuò Mainardi.

“O che l’assassino fosse già lì con lei,” aggiunse Tudini. “Il medico legale ha detto che nelle ore precedenti alla morte la Buscetta ha avuto uno o più rapporti sessuali, apparentemente consensuali.”

“Questo lo sappiamo già,” intervenne Mainardi. “Non ci interessa.”

Tudini aggrottò le sopracciglia, ottenendo il risultato di assomigliare in modo inquietante a un primate pensoso. “Insomma, direi di sì, invece. Ma il partner sfortunatamente ha usato il preservativo.”

“Be’, qua dobbiamo metterci d’accordo,” interloquì Mainardi, “non possiamo dire una volta che usare il preservativo previene l’AIDS e la volta dopo dire che usare il preservativo ostacola le indagini per omicidio. Mandiamo un messaggio contraddittorio.”

“Mainardi, ma hai bevuto?” ribatté Tudini.

“Dico solo che la prossima volta che andrò a fare prevenzione del crimine in una scuola…”

“Basta, Mainardi.”

Tudini, la Riu e Mainardi si voltarono verso Sensi, che aveva appena parlato con voce seccata e si era staccato dalla porta.

Il commissario si andò ad appoggiare alla scrivania di Tudini e fece scrocchiare le ossa del collo.

“Ci sono andato a letto io, questa notte. Ma non è stata un’esperienza così tragica da farmela uccidere questa mattina. Anche perché lo sapete come sono, alla mattina: non sono in grado di fare alcunché.”

Il resto della squadra lo fissò in silenzio per vari secondi, ognuno elaborando un diverso scenario mentale.

Tudini, che era pragmatico e devoto, iniziò a pensare ai possibili risvolti processuali, nel caso che avessero preso l’assassino.

La Riu rimosse coscienziosamente dal proprio cervello qualsiasi immagine mentale del capo nudo che faceva porcherie, riuscendoci solo in parte.

Mainardi si sparò un film completo, con tanto di rumori e effetti speciali, che terminava con la Buscetta che aveva uno strepitoso e ululante orgasmo.

“Me ne sono andato verso le quattro, e la porta era chiusa. Questo, più o meno, è tutto,” aggiunse Sensi.

La Riu scosse la testa. “Cristo santo, commissario,” iniziò a dire.

“Cristo santo, ispettrice,” replicò Sensi, sarcastico. La Riu mise prontamente il broncio, ma se ne restò in silenzio.

“Ora,” continuò Sensi, tirandosi indietro i capelli, “forse la mia coscienza non è candida come un giglio, ma credo che ci sia almeno una persona collegata a questo caso con la coscienza un po’ più sporca della mia.”

“Il ragazzino,” disse Tudini. “Omar Gomez. Ci stavo pensando anch’io.”

Sensi si staccò dalla scrivania. “Bene, andiamo a sentire che cosa ha da dire.”

“Commissario,” lo bloccò la Riu, “è sicuro che sia una buona idea che sia lei a interrogarlo?”

L’altro sollevò i palmi delle mani. “Penso che sia un’idea di merda, in realtà, ma credo che lo farò lo stesso. Sa, svegliarmi la mattina con le mani che sanno ancora dell’odore di una donna morta mi fa girare un po’ i coglioni.”

La Riu aprì la bocca per replicare, ma Sensi la fermò. “A meno che quella donna morta non sia un’ispettrice di polizia, è chiaro. In quel caso potrei anche conviverci. E adesso corra a farmi rapporto e si levi dalle palle.”

“Sissignore,” ringhiò la Riu, e si allontanò a passi lunghi e rigidi.

Sensi si passò una mano sulla faccia. Probabilmente aveva un po’ esagerato.

“’Fanculo,” borbottò, e recuperò il giubbotto.

giovedì 11 giugno 2009

Una linea d'ombra 9

Mainardi e Tudini guardavano il cadavere con una certa stanchezza. Non era uno degli esemplari più raccapriccianti che gli fossero capitati nelle loro carriere di diversa durata, ma comunque un cadavere non è mai uno spettacolo particolarmente piacevole.
Se è il cadavere di una persona che hai già visto da viva, poi, è uno spettacolo vagamente deprimente. Be’, a meno che non si tratti del banchiere che ti ha negato un prestito, è ovvio.
Quando c’è un cadavere nella stanza, tutto il resto sembra scomparire, motivo per cui gli arredatori non consigliano mai di metterne uno in soggiorno. E questa, meditava Mainardi, che aveva da poco comprato una casa con un mutuo ventennale, era una delle poche cose che un arredatore poteva fare a favore dell’estetica di un appartamento.
Fu risvegliato dai suoi pensieri dai passi pesanti di qualcuno sulle scale.
Un istante dopo il commissario entrò dalla porta aperta, salutato dai benvenuti svogliati dei due agenti di piantone.
Mainardi e Tudini si voltarono per accoglierlo.
“Penso che abbiamo un problema, capo,” disse Mainardi, indicando il cadavere.
Anche Sensi lo guardò. Per qualche secondo osservò il cadavere di Erica Buscetta steso sul pavimento, con la testa in una pozza di sangue ormai secco, senza dire una parola.
Poi Mainardi lo vide diventare all’improvviso di un colorito verdastro, e Sensi, sempre senza parlare, corse verso una porta chiusa e si infilò nel bagno.
Tudini e Mainardi lo sentirono vomitare per cinque minuti buoni.
“Che cosa…?” borbottò Tudini, che aveva visto il commissario scherzare e fare battutacce con le mani infilate nella cavità toracica di un cadavere abbondantemente putrefatto.
Mainardi guardò il corpo della Buscetta e la porta del bagno da cui continuava a provenire un inconfondibile rumore di conati, e fece la prima deduzione della sua carriera investigativa.

Una linea d'ombra - 8

Sensi dormiva. Non dormiva proprio beatamente, ma dormiva sodo, con la faccia schiacciata contro il cuscino del suo letto singolo, circondato dai suoi vestiti sporchi, dai suoi dischi e dai suoi libri.
Anche se era già mezzogiorno passato non era assolutamente pronto per svegliarsi.
Purtroppo il suo telefono di casa non aveva alcun rispetto per questo sentimento, e si mise a suonare senza preavviso.
Ovviamente Sensi tentò di ignorarlo, ma il telefono continuò.
Sperò ardentemente che Salvemini non volesse un altro rendez vous. Due mattine di seguito con Salvemini probabilmente l’avrebbero costretto a passare dal Prozac all’eroina e Sensi non era ansioso di passare all’eroina.
Si arrese all’evidenza che il telefono avrebbe continuato a suonare ininterrottamente finché non avesse risposto e afferrò il cordless per portarselo sotto alle coperte.
Rispose senza dire una parola.
“Ermanno?” gli giunse la voce di Tudini.
“No, sono cameliela cinese. Io lascia massaggio, sì?”
“Ermanno, devi venire subito.”
Sensi sospirò. “Dove?” provò a chiedere.
La risposta non gli piacque per niente.

mercoledì 10 giugno 2009

Una linea d'ombra - 7

La sala d’attesa del pronto soccorso del Sant’Andrea era affollata di umanità varia. Sensi precedette la Buscetta allo sportello dell’accettazione, dove erano in attesa già un paio di persone.
L’educatrice si era infilata un paio di jeans, un maglione a collo alto bianco e una giacca imbottita corta verde bottiglia. Sensi iniziava a essere curioso di vedere il livido che aveva sul culo.
Aspettò pazientemente che le persone davanti a loro elencassero i propri disturbi, poi premette il distintivo contro il vetro dello sportello.
“Sono il commissario capo Sensi,” spiegò all’infermiere esausto davanti al computer. “Sarei grato se qualcuno visitasse questa signora e le refertasse le percosse.”
L’infermiere gli lanciò uno sguardo vacuo. “I medici sono tutti impegnati. Vedo cosa posso-“
“Non sarei venuto di persona se non ne avessi avuto bisogno. Sa, anch’io sono tutto impegnato.”
“Sì, mi rendo conto, ma…”
“Per non parlare del fatto che le sto rivolgendo una richiesta ufficiale. E la signora si chiama Buscetta, non so se mi spiego.”
“Sì, signore, ho capito. Lasciamo morire un paio di incidentati gravi e facciamo passare la signora, allora.”
“Questo è l’atteggiamento mentale giusto.”
L’infermiere sbuffò e premette il pulsante che apriva la porta scorrevole. “La faccia entrare, intanto.”
“La ringrazio per essere stato così sensibile alle prevaricazioni,” disse Sensi, e sospinse la Buscetta dentro. “La aspetto qua. Provi a simulare un accento siciliano, se ci riesce. E se vuole andare dalla parrucchiera, è chiaro.”
L’educatrice sorrise. “Bedda matri… stong’ sperut’ e i add’a parrucchiera!”
“Mh. Credo che la seconda parte fosse in napoletano. Si limiti a ripetere ‘bedda matri’, ok?”
L’altra sospirò e entrò nel pronto soccorso, Sensi si andò a sedere in un posto libero tra l’umanità dolente della sala d’aspetto.
L’aria era innaturalmente calda, rispetto al gelo che c’era fuori, ma era tagliata a intervalli irregolari dalla lama di freddo che entrava ogni volta che qualcuno apriva la porta. Sensi si sfilò il giubbotto e lo appallottolò dietro la sua schiena. Un ragazzetto obeso vestito di nero lumò con interesse la sua felpa dei Neu!. Per un po’ il commissario rimase ad osservare il viavai all’accettazione, ma si stancò quasi subito. Lasciando la giacca come segnaposto andò al distributore automatico di bibite che c’era in un angolo.
“Non ci sono le palette,” gli disse una signora, volenterosa. Apparentemente aveva un piede in cancrena. Sensi si chiese se fosse successo mentre aspettava il suo turno o se avesse cominciato a marcire prima.
Prese una lattina di coca, visto che di Red Bull non ce n’era.
Tornò a sedersi sopra al suo giubbotto. Accanto a lui un tizio sulla ventina in tuta da operaio autostradale arancione si teneva in grembo una mano sulla quale era stata sparata una graffetta metallica di proporzioni imponenti.
Il tizio si accorse di essere osservato, e gli rivolse un largo sorriso candido.
“Stato incidente,” spiegò, con accento dell’est. “Avevo sparagraffette in mano e pum! Nella mia mano. Qui da tre ore. Loro dice che non urgente.”
“Mh-mh. È quasi estetica. Pensi che c’è gente che paga per farsi un piercing.”
Il ragazzo rise. “Ma non piercing alla mano, forse!”
“C’è gente che si fa bucare ovunque, mi creda,” ribatté Sensi, che in effetti aveva un piercing sulla punta del cazzo.
“Be’, mica io. Stato incidente. Capo mi accompagna qua e dice dopo torni a lavoro. Ma io non pensa che torna a lavoro prima di domattina. Forse dormo qua.”
Sensi guardò le porte scorrevoli. Quanto cazzo ci voleva a refertare quattro lividi?
“Già, forse anch’io,” replicò.
“Tu italiano?”
Sensi sorrise. “Per un pelo. Sono di Gorizia.”
“Ah, Gorizia io conosce! Stato a Monfaldone con autostrada.”
“Già, Monfalcone è lì vicino.”
“Io di Romania, ma non zingaro.”
“Io, invece, sono per metà sloveno.”
“Tuo papa è di Slovenia?”
Sensi si chiese come avesse fatto a cacciarsi in quella conversazione. “No, mio padre è, era, mah, italiano. Suppongo che sia ancora vivo, per quel che conta.”
“Tu non d’accordo con tuo papa,” dedusse astutamente il rumeno.
“Nessun essere umano di buon senso andrebbe d’accordo con mio padre, credimi.”
Le porte scorrevoli del pronto soccorso si aprirono per far uscire un tizio con le stampelle. Chissà, forse prima di entrare camminava perfettamente, pensò Sensi, che in effetti avrebbe pensato a tutto pur di non pensare a suo padre.
“Mio papa e mia mama è in Romania,” disse l’operaio con la graffetta nella mano. “Io pensa che forse può venire qua, ma immigrazione dice no. Così loro resta in Romania e anche miei fratelli. Tu ha fratelli?”
Sensi stava per rispondere che aveva un fratello, ma le porte scorrevoli si aprirono di nuovo e questa volta uscì la Buscetta, che apparentemente camminava ancora con le sue gambe.
“Tua ragazza molto carina. Io spera sta bene.”
Sensi sorrise. “Sta bene, ma non è la mia ragazza. Ciao, amico. Spero che ti levino quella graffetta senza bisogno di amputarti la mano.”
L’operaio rise. “Io pensa che forse me ne va a casa e la toglie col cacciavite.”
“Probabilmente è più sicuro,” convenne Sensi, rimettendosi il giubbotto e raggiungendo l’educatrice. “Allora?”
“Tutto ok,” disse lei. “Hanno detto che vi inoltreranno i referti domani.”
Sensi si grattò il mento. “Be’, tanto non volevamo fare un arresto lampo. Ci viene già difficile fare degli arresti non-lampo, non so se mi spiego. Adesso la accompagno in questura, ok?”
L’altra annuì. “Grazie. E non c’è bisogno che mi dai del lei. Obbiettivamente, se dici ancora una volta ‘signora Buscetta’ inizierò a credere che mia madre è qua attorno.”
Sensi meditò brevemente sull’informazione. “In questo caso mi sento in dovere di dirti che la deontologia professionale non è il mio forte.”

Una linea d'ombra - 6

Mainardi e Tudini si erano gelati le chiappe, ma solo finché non si erano chiusi in un confortevole bar dei dintorni.
Mainardi aveva ribadito che lui non avrebbe avuto problemi a farsi molestare da quella tizia, ma Tudini aveva scosso la testa in modo pessimista e aveva continuato a bere un cappuccino dietro l’altro.
Sensi l’aveva chiamato dopo una ventina di minuti.
“Cambio di programma. Accompagno la Buscetta al pronto soccorso. Voi tornate in questura.”
Tudini aveva annuito. Poi, rendendosi conto che l’altro non poteva vederlo, aveva detto: “Ok, Ermanno. È un caso di…”
“Percosse. Solo percosse. Forse l’aura negativa di Salvemini si è dissipata.”

lunedì 8 giugno 2009

Una linea d'ombra - 5

“Ermanno, qua dobbiamo subito far intervenire qualcuno. I servizi sociali, il tribunale dei minori…”
“La protezione civile…” concluse Sensi, risalendo nel wrangler.
Tudini non lo ascoltò. “Quel bambino, quell’uomo…”
“Sì, sì,” troncò il discorso il commissario. “Di’ alla Riu di attaccarsi al telefono e di far muovere il culo a qualcuno. E poi mettiti comodo ad aspettare.”
Tudini si allacciò coscienziosamente la cintura mentre Sensi usciva dal parcheggio e si ri-immetteva nel traffico. “Ma prima chiama Mainardi e digli che lo passiamo a prendere. Andiamo a interrogare la temibile masturbatrice.”
L’ispettore gli lanciò un’occhiata sospettosa. “Dici che se l’è inventato?”
“Mah.”
E dal commissario non fu più possibile ricavare una parola fino a che non furono sotto la casa di Erica Buscetta.
Erano dalle parti di piazza Brin, ma nella zona bassa, quasi al confine col centro storico. Qua l’edilizia popolare aveva costruito dei condomini di mattoncini, di cinque o sei piani, attorno a dei cortili un tempo attrezzati con qualche intrattenimento per i bambini, degli scivoli o delle giostre di ferro. I cortili si erano riempiti di erbacce e di cacche di cane e i giochi si erano arrugginiti, ma i condomini nel complesso reggevano.
Al contrario che nei palazzi che davano su piazza Brin, qua gli appartamenti erano quasi tutti assegnati dal Comune – erano le cosiddette Case Popolari. La maggioranza erano occupate da vecchietti che se le tenevano strette con le unghie e con i denti, qualcuna era stata occupata illegalmente da famiglie che ci vivevano da anni, qualcun’altra era stata venduta ai proprietari, che poi l’avevano rivenduta o affittata. Probabilmente era quello che era successo a quella della Buscetta.
Sensi suonò al citofono, che si era salvato per un pelo da un gigantesco murales che inneggiava alla droga libera, e si fece aprire. La voce che aveva risposto era assonnata, ma non sembrava preoccupata che la polizia potesse arrestarla.
Sensi, Tudini e Mainardi salirono fino al quarto piano senza ascensore, dove li attendeva una porta socchiusa.
Sensi bussò leggermente e finì di aprire la porta.
Dietro, in piedi, c’era una donna sulla trentina, con i capelli corti e scuri, che indossava un pigiama di flanella e un paio di ciabatte a forma di coniglio.
Contrariamente alle sue previsioni, non era per niente un cesso, ma l’occhio destro gonfio e tumefatto non aumentava un granché le sue doti seduttive.
“Commissario Sensi,” disse, mostrandole il distintivo. “Gli ispettori Mainardi e Tudini. Possiamo scambiare due parole?”
La donna si fece da una parte. “Sì, certo. Scusate per il disordine.”
Sensi si guardò attorno. Le pareti erano tinteggiate di viola chiaro, e nel soggiorno c’era un panciuto divano verde. Il ‘disordine’, probabilmente, erano dei libri e delle riviste lasciati qua e là e una coperta patchwork abbandonata sul divano.
“Erica Buscetta, giusto?”
“Sì, sono io. È successo qualcosa?” chiese, in tono un po’ insicuro.
“Non so. Vogliamo parlare del suo… incidente domestico?” ribatté Sensi, slacciandosi la giacca. Là dentro, almeno, faceva caldo.
La donna prese un’espressione incerta. Poi fece un piccolo sorriso. “Ok, gradite qualcosa? Ho del tè e poi… hem, solo il tè, credo. Forse del latte.”
Sensi osservò per qualche istante, in silenzio, il suo pittoresco occhio nero.
“Tudini, Mainardi,” disse, poi, “andatemi a prendere una Red Bull, ok?”
I due si guardarono tra loro.
“Sì, capo,” annuì, poi, Mainardi, e tirò via l’ispettore più anziano. “Arrivederci.”
“Prego, si accomodi,” disse l’educatrice, quando i due si furono richiusi la porta dietro. “Grazie per…” e indicò vagamente la direzione da cui se ne erano andati Mainardi e Tudini.
Sensi si andò a sedere sul divano, che era panciuto esattamente come sembrava, spostando leggermente la coperta patchwork. L’educatrice si sedette all’altro capo.
“Se le dico Omar Gomez le viene in mente qualcosa?”
L’educatrice si sfilò le ciabatte e si rannicchiò con i piedi sotto il corpo.
“Non volevo denunciarlo. È un ragazzino pieno di problemi,” disse.
“Già. Sono stato a trovarlo. Mi può raccontare che cosa è successo?”
L’altra scosse la testa e fece vagare lo sguardo sul soffitto. “Guardi, con esattezza non lo so neanch’io.”
“Cominci dall’inizio.”
“Io faccio l’educatrice al Chiodo,” spiegò lei. “Ha presente?”
Sensi fece un vago sorrisetto. “Metà dei minori che arrestiamo vengono di lì. È un istituto commerciale, giusto?”
“Esatto. Io devo seguire un ragazzo che ha dei problemi di motilità.”
“Lavora per una cooperativa sociale?”
“Sì, la Gabbiano Verde. Lavoro al Chiodo da circa due anni.”
Sensi accavallò le gambe e provò a rilassarsi contro lo schienale. La giornata di merda si avviava a passo sostenuto verso la completa schifezza.
“Omar ha dei problemi… be’, ha dei problemi in tutte le materie. Un po’ di tempo fa l’hanno fermato mentre aveva con sé dell’hashish, e sembrava che avesse deciso di darsi una sistemata. Ma era indietro, più o meno su tutto il programma. Quando la professoressa gli ha detto che l’avrebbe interrogato di italiano mi ha chiesto se gli davo una mano a ripassare.”
Sensi annuì. Fin qui più o meno tornava tutto.
“Che cosa doveva ripassare?”
“Saba e Montale.”
“L’ha fatto venire qua?” domandò Sensi, in tono neutro.
L’altra annuì, mordicchiandosi un’unghia. “È stata un’idiozia, ma è solo un ragazzino…”
Sensi avrebbe potuto compilare un elenco infinito di tutti gli adulti che aveva sentito dire una frase del genere e che poi se ne erano pentiti.
“Cos’è successo?”
L’educatrice fece un gesto vago. “Abbiamo iniziato a ripassare. Lui era disattento, faceva delle battute fuori luogo e ho avuto l’impressione che si fosse drogato.”
“Mi spieghi.”
“Era agitato, non riusciva a stare fermo. Gli ho chiesto direttamente se avesse sniffato qualcosa. È stato lì che mi ha fatto l’occhio nero.”
Erica gli fece un sottile sorriso e si strinse nelle spalle. “È come… impazzito. Ha iniziato a colpirmi. Che imbecille.”
Non era chiaro se si riferisse a lui o a se stessa.
“L’ha picchiata,” disse Sensi.
“Eh, sì.”
Il commissario rimase in silenzio per qualche istante, guardandola. Poi disaccavallò le gambe e appoggiò i gomiti sulle ginocchia.
“L’ha solo picchiata?” chiese.
L’altra lo guardò per un attimo con espressione stupita. “Ah,” disse poi. Sorrise. “Sì, mi ha solo picchiata. Mi ha dato un pugno in faccia… be’, quello si vede.” Si alzò in piedi e si sollevò un lembo del pigiama, mostrando le costole. “Mi ha anche dato un pugno qua.” Si riabbassò il pigiama e si voltò. “E anche un calcio in culo. Le devo far…?”
Sensi rise. “Non direi. Sa, anche le costole erano superflue.”
L’educatrice si rimise a sedere.
“Pensa che sia un’idiota, giusto?”
“Sono molto sollevato,” rispose Sensi. “Sa, ho avuto una giornata di merda. Uno stupro sarebbe stata la ciliegina sulla torta. Posso chiederle di nuovo se è assolutamente certa che non l’abbia toccata, molestata, obbligata a fare qualcosa… Non deve rispondere di no solo per salvarmi da una giornata di merda.”
Lei rise. “No, davvero, sono stata malmenata, e anche un po’ insultata, ma nient’altro. Quando ha finito se n’è andato da solo.”
“E non c’è stato niente di sessuale, durante tutto il tempo?”
“Devo rispondere di sì per farla contento?”
Sensi si tirò indietro i capelli.
“Tra l’altro, è normale che lei abbia i capelli così lunghi?” interloquì l’educatrice, che si era notevolmente ravvivata da quando si era resa conto di non essere stata poi così sfortunata.
“Gomez l’ha denunciata per molestie,” disse l’altro, ignorando la domanda sui capelli.
“Cooosa?!” strillò l’educatrice, balzando in piedi. “Che molestie? Che cazzo… cioè, scusi, ma che cavolo…”
“Sa, l’ho già sentita altre volte, quella parola.”
“Sì, ok, immagino. Be’, allora… che cazzo di molestie?”
Anche Sensi si alzò. “Segreto istruttorio.”
“Io non ho molestato proprio nessuno! Quello è uno stronzetto sedicenne ed è anche uno spacciatore in erba… perché cazzo avrei dovuto molestarlo? Io ho una vita sociale normale e…”
Erica fece un gesto estenuato. “No, ok, non ho una vita sociale normale: lavoro un casino e prendo una miseria di stipendio. Certo che non ho una vita sociale normale, ma non vado neanche a molestare dei mocciosi strafatti!”
“È stata chiara. Le giuro che ho interiorizzato il concetto.”
Lei sospirò platealmente, poi iniziò a piangere, poi si asciugò gli occhi con rabbia e infine diede un calcio al divano panciuto.
“Ok, fine dello show,” disse poi. “Che cavolo dovrei fare, ora?”
Sensi si strinse nelle spalle. “Se vuole può denunciarlo per percosse.”
“Certo che lo denuncio per percosse, quello stronzo! Dove devo firmare?”
Sensi alzò le mani. “Un attimo. Prima deve andare al pronto soccorso e farsi refertare le lesioni, è così che funziona.”
L’altra stava passeggiando avanti e indietro per il suo salotto. “Ok, sì, pronto soccorso. E poi?”
“Poi viene in questura e sporge regolare denuncia.”
“Denuncia, ok. Che cosa…”
Sbuffò, si asciugò gli occhi, poi sbuffò di nuovo. “Lo arresterete?”
Sensi sorrise. “Un minore? Se fossi in lei non ci perderei il sonno.”
“Quello deve farsi vedere da qualcuno.”
“Può darsi.”
Lei continuò a camminare avanti e indietro per l’appartamento, passando dall’incazzatura alla tristezza e ritorno. “Ha una situazione familiare di merda, lo sapete, no?”
“Lo sappiamo.”
“Il suo patrigno è un tossico.”
“Sì, lo so.”
“Sua madre è una prostituta e una tossica.”
“E il fratellino sembra un bambolotto vecchio modello, di quelli che non piangono e non fanno la pipì, sì, lo sappiamo già.”
Erica continuava a passeggiare avanti e indietro per l’appartamento, in crisi.
“E devo andare al pronto soccorso, eh? Dio, ci perderò delle ore. Alle tre ho un appuntamento dalla parrucchiera. Lei sa quant’è difficile avere un appuntamento decente dalla parrucchiera?” Gli lanciò un’occhiata distratta. “No che non lo sa.”
“In effetti no. Senta, al pronto soccorso ce la porto io, ma lei dopo dovrà andare a sporgere denuncia, ok? E se salta l’appuntamento dalla parrucchiera…”
“Non volevo sembrarle frivola. Ma ho già un occhio nero, anche i capelli incasinati era un po’ troppo.”
Sensi sorrise. “Volevo dire, che anche con i capelli incasinati è abbastanza ok, è l’occhio nero che rovina l’insieme, ma vedo che ci aveva già pensato da sola.”
L’altra si mise a ridere.
“Certo che lei sa proprio come tirare su l’umore a una donna, eh?”
“Da quando sono stato sui giornali non ho più bisogno di questi mezzucci.”
L’educatrice lo guardò per qualche secondo con la fronte aggrottata.
“Ma certo,” disse, alla fine. “Lei è quello che ha catturato il serial killer! Sul giornale sembrava più…”
“Per favore, non lo dica.”
“…sembrava più brutto. Forza, vada a recuperare i suoi uomini, si staranno gelando le chiappe, là fuori. Io sarò pronta in una frazione di secondo.”

venerdì 5 giugno 2009

Una linea d'ombra - 4

Il ragazzino, si scoprì, abitava a Bragarina. Era piuttosto probabile che, dalla questura, facessero prima a piedi, ma il commissario non se la sentiva di gelarsi le chiappe attraversando il parco che li separava dalla via della loro vittima.

Si mise alla guida del suo wrangler nero e si infilò nel traffico delle undici del mattino, con Tudini accanto.

In tutte le altre città del mondo le undici del mattino sono un periodo di fiacca. Chi doveva entrare al lavoro alle otto o alle nove era già entrato, i negozi erano aperti, le casalinghe a fare la spesa, i bambini a scuola. In teoria uno avrebbe dovuto aspettarsi di trovare per la strada solo furgoncini delle consegne e pensionati zelanti. Il fatto che Spezia fosse composta al 70% di pensionati, naturalmente, serviva in parte a spiegare il problema. Le strade erano intasate di macchine. Ma non di macchine frizzanti piene di gente che sta andando da qualche parte e vuole arrivarci prima della prossima glaciazione globale, no. Erano piene di macchine piene di gente vagolante, che non sapeva bene come buttar via il suo tempo, che procedeva a passo di tour panoramico, che aspettava speranzosa la prossima glaciazione per rompere un po’ il tran-tran.

Sensi percorse i cinquecento metri scarsi che li separavano dal brutto palazzotto anni ’60 della vittima in circa venti minuti e finì per parcheggiare in divieto nell’enorme parcheggio antistante, che a quell’ora, di logica, avrebbe dovuto essere vuoto, ma che invece straripava di macchine.

“Ermanno,” gli disse Tudini, mentre lui si chiudeva il giubbotto di pelle fino al mento. Forse, a pensarci bene, la successiva glaciazione globale era già iniziata. “Cerca di usare del tatto con questo ragazzino, va bene?”

“Ma se sono la persona più empatica del mondo,” protestò il commissario, ma non sembrava veramente offeso.

Il portone del palazzo era decorato a destra e a sinistra da due murales di fattura non eccelsa che inneggiavano all’uso della marijuana. Parte dei rami di una gigantesca foglia verde e seghettata copriva la pulsantiera del citofono, rendendo impossibile discernere i nomi sulle targhette.

“Suoniamo a un campanello a caso?” propose Tudini.

Sensi spinse il portone. “È aperto,” disse. 

L’interno era illuminato da una luce al neon intermittente e freddo come una catacomba. Qualcuno aveva pensato di ravvivare le pareti verde marcio continuando anche qua la campagna artistica per la diffusione della marijuana.

“Saliamo,” disse Sensi e si infilò su per le strette scale scrostate, ignorando l’ascensore. Non che condividesse le ansie dei suoi colleghi da telefilm nei confronti degli ascensori, ma quello in questione aveva l’aria di essere stato rottamato nell’83.

Salì prudentemente per un paio di rampe, occhieggiando le targhette sulle porte. Nelle scale c’era un odore misto di cane sporco e sudore, ma un paio di adesivi chiarivano eloquentemente che le visite dei Testimoni di Geova non erano benaccette, segno che anche lì doveva vivere della brava gente.

I Rosario-Gomez-Morelli abitavano al terzo piano. Sulla loro porta non si menzionavano i Testimoni di Geova, ma qualcuno, ultimamente, aveva avuto dei problemi a centrare la serratura. I suoi problemi dovevano poi essersi estesi fino a non trovare più neanche le chiavi, perché c’erano anche dei segni di scasso malamente riparati.

“Bel lavoretto,” commentò Tudini, che stava ancora ansimando per via dei tre piani di scale.

“Se avessero messo un bell’adesivo anche loro, i Testimoni di Geova non avrebbero tentato di entrare con la forza,” rispose Sensi, fatalista.

Suonò il campanello, che emise un suono gracchiante perfettamente in linea con gli standard del palazzo. Non giunse risposta.

“Forse non ci sono,” disse Tudini. “Forse il ragazzo e a scuola e i genitori sono al lavoro.”

“Forse sono tutti a visitare il museo etrusco, o ad aiutare i senzatetto, o a fare una corroborante passeggiata,” annuì Sensi. “O forse Moreno è strafatto in soggiorno e non è sicuro di riuscire ad arrivare alla porta.”

Riprese a suonare e diede anche un paio di calci sullo stipite.

“Arrivo!” gli giunse una voce strascicata, dall’interno.

“Niente museo etrusco,” commentò Sensi. Poi la porta si aprì con un rumore cigolante.

Dietro c’era un tizio altissimo, magrissimo, con i capelli neri e sporchi, la carnagione giallastra e con un bebè in braccio. Indossava i pantaloni di una felpa verdina, una maglietta bianca piuttosto sciupata e teneva il neonato contro un fianco. Stava fumando una sigaretta.

“Teresa non c’è,” disse, facendo cadere un po’ di cenere per terra.

Sensi gli mise sotto il naso il suo distintivo.

“Sergio Morelli, detto Moreno?”

L’altro, per un attimo, sembrò sul punto di scappare, ma poi sospirò con aria rassegnata.

“See. Che cosa ho fatto, ora?”

Sensi gli scivolò accanto ed entrò in casa.

“No, ma accomodatevi, eh?” gli disse Moreno, dalla porta. Poi la richiuse con un calcio e li seguì all’interno.

Quel che si vedeva della casa era un tinello, un bagno e due porte chiuse.

Sensi lasciò vagare lo sguardo per un istante, ma quando vide la stagnola bruciacchiata sul tavolino, decise che poteva anche fare a meno di guardare. Sfortunatamente, spostò gli occhi proprio su una confezione da sedici di siringhe.

“Moreno, ti rendi conto che solo nella prima stanza c’è da darci lavoro per un mese?”

L’altro non sembrò scosso. “L’uso non è un reato.”

“Come no. Benvenuto nel presente, dolcezza. Nel presente tutto è un reato, nel caso ti fosse sfuggito. Comunque, lasciamo perdere le evidenti tracce di sostanze e parliamo del tuo figliastro, Omar.”

L’altro sospirò di nuovo. “Che cosa ha fatto?”

“Scusa, è nomale che quel bimbetto non si muova, o è una nuova versione fichissima di Cicciobello? Sai, la versione che non piange, non caga e non fa niente per rompere le palle come un bimbo vero?”

Morelli sollevò il bambino, che era avvolto in una tutina rosa troppo grande. “Ha il sonno pesante,” disse, con un mezzo sorriso sdentato. Lo prese meglio e se lo appoggiò contro il petto. Il neonato emise una sorta di gorgoglio, segno che almeno era vivo.

“Commissario…” iniziò Tudini, la cui espressione da Neanderthal si era fatta più aggrondata di minuto in minuto.

“Un attimo. Vorrei parlare con Omar, se c’è.”

Morelli indicò con un dito una delle porte chiuse. “Là dentro. Non si incazzi se la manda affanculo, l’educazione non è il suo forte.”

“Eh, uno fa del suo meglio per educarli a modino, e poi quelli vengono su tutti storti.” Sensi annusò l’aria, avvicinandosi a lui. “Tudini, cambia questo bimbetto, mentre io parlo con l’adolescente molestato, ok?”

Andò alla porta che gli aveva indicato Morelli e la aprì senza tante cerimonie.

Dentro c’era, in effetti, un adolescente. A prima vista era difficile individuarlo, perché la stanza era quasi satura del fumo speziato di uno spinello, e non doveva essere neanche il primo della giornata. Sensi si chiese oziosamente se la propaganda giù nel portone fosse riuscita a convincere Omar o se Omar fosse l’artefice della propaganda.

Un ragazzino sui sedici anni, forse percependo una variazione nel gradiente dell’aria, alzò gli occhi per guardarlo. Le orecchie erano completamente coperte da una cuffia collegata a uno stereo scassato.

Sensi spense lo stereo e si richiuse la porta alle spalle. Il ragazzino si tolse le cuffie.

“E tu chi cazzo sei?” chiese, con voce leggermente impastata.

“Uno sbirro,” rispose Sensi. Poi spostò un po’ dei vestiti ammucchiati sul letto e si sedette in un angolo. “Sono qua per via della denuncia che hai fatto ai servizi sociali. Ma ti sarei grato se spegnessi quel cannone.”

“L’uso non è…”

“Non dovresti credere a tutte le cazzate che ti racconta Moreno. L’uso adesso è un reato, ma non è il reato che interessa a me.”

Il ragazzino spense controvoglia lo spinello dentro un posacenere debordante. Sensi rimpianse mentalmente le due aspiranti veline di qualche ora prima, poi si rassegnò a dire: “Allora. L’educatrice.”

L’altro si strinse nelle spalle. “È in classe mia, per assistere un ragazzo spastico.”

“Cosa è successo?”

“Niente, è che io dovevo passare il saggio di italiano, ok? Non è proprio il mio forte, mia mamma è salvadoregna, Moreno… be’.”

“Ok.”

“Sono andato da lei perché ha detto che mi dava, tipo, una mano. Ma la mano me l’ha messa nelle mutande,” dichiarò Omar, con un sorrisetto.

Sensi rimase in silenzio.

“Be’, eravamo lì che stavamo, tipo, ripassando, no? E questa, dal niente, mi infila una mano nei pantaloni e inizia a menarmelo.”

“Cosa stavate ripassando?” chiese Sensi.

L’altro si strinse nelle spalle. “Roba. Comunque sul momento rimango un po’ sfasato, no? E quella continuava a menarmelo, con una faccia tipo: quanto mi piace toccarti il cazzo.”

“Mh.”

“E poi inizia a dirmi delle cose, tipo dei commenti sul mio pacco, ok? E poi mi sono alzato e ho detto: no, cazzo.”

“No, cazzo,” ripetè Sensi.

“Non era neanche una brutta sega, guarda. Ma ho pensato: io non voglio, ok?”

“E lei cosa ha detto?”

“Niente, ha provato a rimettermi una mano lì. Era davvero affamata. Ma io me ne sono andato. Poi ho pensato: che cazzo, questa è una molestia. E così sono andato ai servizi, e lì c’era questa tizia che mi ha detto che la denunciavamo.”

“Come si chiama?”

“Chi?”

“L’educatrice.”

“Erica.”

Sensi sorrise. “Per caso ha anche un cognome?”

“Erica Buscetta.”

L’altro annuì. “Ok, adesso andiamo a verificare. Qualcos’altro da aggiungere?”

Il ragazzino si strinse nelle spalle. “No, niente. Che devo fare, adesso?”

Sensi avrebbe voluto suggerirgli di raccontare subito tutto ai suoi amici, ma si trattenne. “Te ne rimani buono e aspetti che facciamo il nostro lavoro. Hai qualche precedente?”

L’altro sembrò a disagio. “Un paio di mesi fa mi hanno trovato con del fumo. Devono ancora processarmi, però.”

“Quanto fumo?”

“Tre etti.”

“Be’, neanche un pachiderma se ne fumerebbe così tanto per uso personale.”

Omar si strinse nelle spalle.

“Penso che ti beccherai un periodo di messa alla prova, e dovrai pisciare per un sei mesi.”

“Pure Moreno dice così.”

“Giusto, la voce dell’esperienza. Ti sollevi un attimo le maniche?”

L’altro fece uno scatto indietro. “Guarda che io non mi faccio!”

“Non l’ho mai pensato. Te le sollevi un attimo?”

Il ragazzino, controvoglia, si tirò su le maniche della felpa oversize. Sul braccio sinistro aveva un taglio, ormai cicatrizzato, che correva dal gomito al polso, sul lato interno del braccio, quello morbido. Lì accanto c’erano un altro paio di tagli, ma meno convinti.

“Come facevi a saperlo?” chiese Omar, mentre Sensi guardava i tagli.

“Non lo sapevo,” rispose lui, alzandosi. “Ah, e Moreno non può tenere quel bimbo, lo capisci, vero?”

Anche il ragazzino si alzò. Arrivava più o meno al mento del commissario.

“Ma è suo figlio, gli vuole bene!”

Sensi guardò per un istante il soffitto, semi nascosto dal fumo. “Ci credo. Ma non può tenerlo lo stesso. Non tra le siringhe e le stagnole. E tua madre…”

“Mia madre è una puttana!”

Sensi pensò che fosse meglio non approfondire, e specialmente che fosse meglio non chiedere se l’epiteto fosse un insulto o un dato di fatto.

“Dico solo: nel frattempo badaci tu a quel bimbetto, ok, Omar?”

L’altro inspirò ed espirò, come se stesse sbollendo la rabbia.

“Certo, sbirro dei miei coglioni,” borbottò, mentre Sensi usciva.

giovedì 4 giugno 2009

Una linea d'ombra - 3

Farsi passare l’assistente sociale incaricata del caso fu una questione lunga e dolorosa. Tra telefoni staccati, musichette d’attesa e ricerche non proprio frenetiche dei colleghi, la signora Elena Turri riuscì a svicolare per una mezz’ora.

Alla fine andò al telefono. Dalla voce non sembrava né preoccupata né pentita per averli fatti aspettare così tanto.

“Mi dica.”

“Questo Gomez,” andò direttamente al punto il commissario, “perché lo seguite voi?”

“Gomez…” rispose la Turri, in tono vago.

“Quello che è stato molestato dall’educatrice, ha presente?” Possibile che ricordarsi i dettagli del caso di un minore molestato fosse così difficile?

“Ah, sì. Non è lui a essere seguito, è la sua famiglia.”

“Teresa Rosario e Felipe Gomez.”

“No, Teresa Rosario è la madre, ma ora vive con un altro uomo. Vede, non sono io a seguirli, io ho solo raccolto la denuncia. Vuole che le passi la collega che…?

“Lo conosce il nome di quest’altro uomo?”

“Potrei guardarci sul computer.”

“Se non le causa un attacco di meningite fulminante, sarebbe un’idea.”

Dall’altro lato provenne un silenzio offeso, ma anche, fortunatamente, il rumore di qualcuno che ticchettava lentamente sui tasti di un computer.

“Ecco qua. Sergio Morelli.”

“Sergio Morelli,” ripeté Sensi. “Ok, e come mai…”

“Ah, no, questo davvero non lo so, eh? Le passo la mia collega.”

Prima che potesse replicare Sensi fu messo nuovamente in attesa. La musichetta era l’ultima hit di un gruppo inglese e Sensi si chiese che fine avesse fatto il buon vecchio Bach.

“Sergio Morelli…” borbottò Mainardi. “Ma non sarà mica Moreno il tossico?”

Sensi lo guardò vacuamente. “Morelli, Moreno… hanno solo quattro lettere in comune. Sei sicuro?”

“Chi, io? No, capo.”

Finalmente la cornetta diede di nuovo segni di vita.

“Sergio Morelli è Moreno il tossico?” chiese Sensi, senza lasciare il tempo alla quindicesima assistente sociale della giornata di deviare ancora una volta la chiamata.

“Eh? Io sono la segretaria. Volevo giusto dirle che la Datterio al momento è in riunione.”

“Sì, è chiaro. Anch’io sono quasi sempre in riunione. Mi aiuti lei, va bene? Sergio Morelli è Moreno il tossico?”

“Be’, un po’ di tempo fa era stato in comunità, ma poi, sa com’è…”

“Dovrebbero promuoverla assistente sociale,” la ringraziò Sensi, e riattaccò.

Si passò una mano sugli occhi, che gli comunicarono che erano ancora pronti a ricominciare a dormire, e si rivolse a Mainardi. “Guardi che precedenti ha questo Moreno, ok? Io e Tudini andiamo trovare il ragazzino.”

mercoledì 3 giugno 2009

Una linea d'ombra - 2

Tudini incrociava davanti al suo ufficio con una cartelletta in mano, sudando e aggrottando la fronte.

“Portami una Red Bull,” disse Sensi, passandogli accanto e aprendo la porta. “Quella Burn mi ha rovinato il palato.”

Tudini aveva ricevuto un addestramento di qualità superiore, e scattò verso il distributore automatico come un cane di Pavlov. “È urgente, però!” si sentì in dovere di precisare.

“Perché, la stanno stuprando in questo momento?”

Tudini ritornò con una lattina e gliela passò. “Lo stanno stuprando. È un ragazzino. E, no, è già successo.”

Sensi sospirò. “Chiama Mainardi, venite nel mio ufficio.”

Entrò e accese la fioca abat-jour, togliendosi gli occhiali. Pedofili, pensò, ma non c’era una sezione apposta per quel genere di schifezza?

Tudini rientrò con Mainardi un istante dopo. I due iniziarono a spostare sul pavimento parte della paccottiglia del capo e si sedettero senza cerimonie.

“Allora,” disse Sensi, tirandosi indietro i capelli. Quella era una giornata di merda, l’aveva capito dall’inizio. Non potevi incontrare il questore di prima mattina e poi aspettarti che andasse tutto bene.

“Dunque, ci è arrivata una segnalazione dai Servizi Sociali. Pare che questo adolescente, Omar Gomez, anni sedici, abbia ricevuto delle molestie da un’educatrice della sua scuola, l’Istituto Domenico Chiodo.”

“E quando sarebbe successo?”

“Ieri.”

Sensi inarcò le sopracciglia. “È un fatto grave.”

“Sì, in effetti…”

“No, voglio dire: è un fatto grave che i Servizi Sociali ci abbiano messo solo un giorno a inoltrare la denuncia. Che fine ha fatto il lassismo statale? Se continua così dovrò iniziare a venire in ufficio alle sette. Comunque. Il ragazzino ha subito delle molestie. Che tipo di molestie?”

Tudini abbassò lo sguardo sul rapporto.

“Max, non ci credo che non ti ricordi che tipo di molestie ha subito. Sono cose che restano nella mente, che cazzo!”

L’altro sembrò vagamente imbarazzato. “Gli ha fatto una sega.”

“E quanti anni ha questa educatrice?”

Tudini tornò a guardare il rapporto. “Trent’uno.”

Sensi sospirò. “Dev’essere davvero un cesso,” concluse.

“Santo cielo, Ermanno…”

“No, ok, è un fatto gravissimo. Mainardi, immagino che quando tu avevi sedici anni l’idea che un’educatrice trentenne ti facesse una sega ti riempisse d’orrore.”

Mainardi fece un sorrisetto. “Quando avevo sedici anni non c’erano ancora le educatrici scolastiche. Però avevamo una proffe di matematica…”

“No, dai, non è corretto…” si lamentò Tudini “…abbiamo appena ricevuto un’informativa sui pregiudizi a carattere sessuale e non si può…”

“Ok, ok. Siamo due animali. Un fatto grave si è consumato sotto… a proposito, dove si è consumato questo fatto grave?”

“A casa dell’educatrice.”

“Terribile. E il ragazzino perché è andato dai Servizi Sociali e non dagli sbirri?”

“Il suo nucleo familiare è seguito dai Servizi Sociali.”

“Ah. E perché, se non è chiedere troppo?”

“Qua non lo specifica.”

Mainardi si sporse verso l’ispettore capo e sbirciò il rapporto. “Omar Gomez, anni sedici, figlio di Teresa Rosario e Felipe Gomez… no, non mi dice niente.”

“Telefoniamo,” concluse Sensi.