giovedì 14 maggio 2009

Sette, morto che parla - 30

Saltellavo per le stanze della squadra mobile ticchettando sulle ciabatte da samurai che non mi ero tolto. Quello stronzo di Mainardi mi aveva già chiesto se pensavo di essere Gaemon, e io gli avevo già risposto chiedendogli se pensava che sarebbe stato un buon membro della stradale.
Devi sapere che io non avevo idea di come la mia squadra potesse reperire le informazioni che mi servivano alle quattro del mattino. Tutte le cose che riguardano le procedure, i permessi e le scartoffie non riescono a rimanere a lungo nel mio cervello.
Il fatto che ero andato in bianco per beccare lo squartatore, però, mi avrebbe tormentato per anni.
Purtroppo mi ero fregato da solo. Nel momento in cui avevo esclamato «Cazzo, ho capito!» Carmel non aveva più pensato ad altro che a ragazze squartate e senso del dovere. Le donne sono fatte così.
Quindi, incazzato come una biscia, mi ero affrettato a svegliare anche il resto della mia squadra e a metterli all’opera.
Ho sempre creduto nella condivisione dell’infelicità.
La Riu era riuscita a rintracciare il direttore dell’ufficio del catasto e l’aveva tirato giù dal letto senza farsi commuovere. Mainardi aveva disturbato i sogni di qualcuno all’anagrafe. Non avevo capito che cavolo stava facendo Tudini, ma ero certo che fosse qualcosa di perfettamente inutile.
Io saltellavo qua e là dando fastidio a tutti.
Il fatto era che salvare ragazzine dallo squartamento imminente fa sempre la sua porca figura nei titoli dei giornali, mentre invece arrivare un istante dopo, non so perché, non funziona altrettanto bene.
Trovare il covo nei boschi del nostro amichetto prima che seviziasse una nuova vittima sarebbe servito eccellentemente allo scopo.
Perché, e questa era stata l’infelice intuizione che mi aveva allontanato dalle cosce di Carmel, l’assassino doveva avere un covo nei boschi.

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