venerdì 22 maggio 2009

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 3

Era quasi riuscito a dimenticarsi del vicino folle della Riu e anche della Riu stessa, quando la questione si ripresentò. Era un lunedì mattina, da sempre una giornata nefasta per il genere umano in generale e per il commissario in particolare.
Era arrivato in questura verso le undici e mezza, assonnato, scazzato e vagamente depresso. Il suo standard.
Aveva chiesto a gran voce una lattina di Red Bull e l’aveva ottenuta. Poi si era ritirato nell’antro oscuro che passava per il suo ufficio e si era collegato a SoulSeek per vedere se c’era qualcosa che non avesse ancora scaricato.
La Riu era penetrata nel suo ufficio silenziosa come un gatto.
Sensi la osservò per qualche secondo mentre lei si orientava nel buio. Molto strano.
La Riu bussava sempre in modo preciso e fastidioso e, di solito, entrava e si metteva sull’attenti in un tutt’uno.
Questa volta sembrava… circospetta. Quasi furtiva.
“Signore,” iniziò. “Buongiorno, signore,” continuò. Sensi sbadigliò senza cercare di nasconderlo.
“Mi dica.”
La Riu si guardò dietro alle spalle come se si aspettasse di veder entrare dalla porta Norman Bates armato di coltello. “È qua, signore,” sussurrò, poi, in tono urgente.
“Chi è qua?”
Lei roteo gli occhi. “Lui, signore. Il folle. È ricomparso.”
“Le avevo detto di scavare una buca bella profonda,” sospirò il commissario.
“Quello che intendevo, signore, è che era già venuto questa mattina, ma Mainardi l’aveva spedito via.” Adesso l’ispettrice aveva riacquistato il consueto tono censorio e tutto era di nuovo normale.
Sensi alzò gli occhi verso il soffitto, che si perdeva nell’oscurità.
“E che cosa dovrei farci, io?” chiese.
“Vuole parlare con lei!” sbottò l’altra, continuando a sussurrare.
Il commissario osservò il monitor del proprio computer. Sembrava che il download della discografia completa dei Sunn O))) stesse procedendo senza intoppi. Naturalmente lui aveva già la discografia completa dei Sunn O))), ma riscaricarla era più comodo che duplicare tutti i cd.
“Va be’,” borbottò, “lo faccia entrare.”
La Riu gli lanciò un’occhiata carica di apprensione, ma si limitò a un granitico “sissignore.” Poi se ne andò richiudendosi dietro la porta. Sensi non capiva perché non si fosse arruolata nel Corpo dei Marine, negli Arditi Incursori o nella Legione Straniera. Doveva ricordarsi di lasciar cadere il suggerimento nel discorso, una volta o l’altra.
Pochi istanti dopo nella Bat-caverna (definizione della Riu) entrò un ometto dall’aria insignificante, che avanzò a tentoni verso la scrivania di Sensi.
Lui accese la fioca abat-jour che aveva di fianco, orientandola verso il visitatore.
La seconda impressione confermava la prima: era un ometto insignificante. Alto poco più di un metro e sessanta, con addosso un completo un po’ troppo largo, degli occhiali un po’ troppo grandi per il suo volto minuto e un ciuffo di capelli castani in via di diradamento sulla sommità del cranio.
“Si accomodi,” lo invitò Sensi, perfettamente consapevole che nessuna delle sedie che erano davanti alla scrivania era libera, dato che erano tutte invase di scartoffie, scatole, pratiche inevase e anche da qualche elemento di prova ormai fossilizzato. “Sposti qualcosa sul pavimento.”
L’ometto tentennò un po’, poi spostò con cautela una pila di fogli da una sedia e si sedette, tenendosela sulle cosce.
“È qua per la faccenda dell’ombrellone?” andò subito al punto Sensi.
L’altro sembrò preso alla sprovvista. “Quale…? Ah, no,” sorrise poi. Aveva dei piccoli denti da coniglio. “No, è tutto a posto.”
“Se volesse sporgere reclamo non potrei biasimarla,” provò a insistere Sensi.
L’ometto scosse la testa. “No, no. Non c’è problema. L’ispettrice ha detto che mi riparerà i danni.”
“No, perché sa, prepararsi all’avanzata delle acqua, finché è nella sua proprietà, è un suo diritto costituzionale,” sparò a caso Sensi.
Il sorriso dell’altro si intensificò. “A dire il vero quella storia non era proprio… vera. È che quando l’ispettrice mi ha chiesto di chiudere l’ombrellone me l’ha chiesto in un modo che… non so, immagino che la tentazione di dirle che aspettavo il 2012 sia stata troppo forte.”
Sensi si mantenne accuratamente impassibile. “Capisco.”
“L’avrei chiuso, capisce? Pioveva anche. Voglio dire: qua piove sempre, che cosa te ne fai di un ombrellone? Mi ero solo dimenticato.”
Il commissario si sporse leggermente in avanti e chiese, in tono vagamente speranzoso: “Per caso le piace anche la musica goth?”
L’altro aggrottò le sopracciglia. “Mi spiace, non credo di sapere di che cosa parla.”
Sensi sventolò una mano. “Lasci stare. Inizi col dirmi il suo nome, ok?”
“Onofrio Dagoberti.”
Di nuovo Sensi rimase accuratamente impassibile. “Motivo della visita? Abbiamo detto che è completamente, definitivamente, incrollabilmente certo di non voler sporgere reclamo nei confronti dell’ispettrice Riu?”
“Già. Sono qua per mia cugina. È scomparsa.”
Sensi sospirò. “Ah,” disse. Quello aveva tutta l’aria di essere l’inizio di un caso incredibilmente palloso – e senza neanche la speranza di togliersi dai coglioni la Riu. Le persone scomparse, a suo modesto avviso, di solito scomparivano per ottimi motivi: o ne avevano le palle piene della propria vita, e in questo caso ritrovarle era una vera e propria prepotenza, oppure erano morte, e in questo caso ritrovarle era completamente inutile.
“E quando è scomparsa?” chiese, comunque.
Dagoberti provò a guardare il proprio orologio, strizzò gli occhi, provò ad orientarlo verso la flebile luce dell’abat-jour e poi si decise ad accendere il quadrante luminoso. “Più o meno cinque ore fa,” disse.
Poi, naturalmente, pensò Sensi, c’erano anche quelli che non erano scomparsi per niente.
“Ah,” ripeté Sensi. “Si tratta di una bambina?”
“No, ha trentaquattro anni.”
Sensi rimase in silenzio.
“So cosa sta pensando, commissario, ma l’ho già spiegato all’ispettore Mainardi, questa mattina. Agostina è ossessivo-compulsiva, agorafobica ed estremamente abitudinaria. La sua assenza è inspiegabile.”
Sensi si massaggiò stancamente le tempie. “Ok, mi spieghi.”
“Dunque, Agostina, di solito, si sveglia alle sei precise del mattino. Fa colazione con un certo rituale, si lava con un certo rituale e poi legge le carte fino alle nove del mattino. A quell’ora, immancabilmente, mi telefona tre volte per assicurarsi che io stia bene. Questa mattina mi ha telefonato solo due volte.”
“Inquietante,” commentò Sensi. “Lei che cosa ha fatto?”
“Sono andato a casa sua. Vive a tre strade di distanza, in via Podgora. Ho la chiave.”
“Via Podgora,” ripeté Sensi, al quale il nome non diceva proprio niente.
“Ai Vicci,” spiegò Dagoberti.
“Vicci,” ripeté Sensi.
“Sopra la stazione, sui colli, ha presente?”
“Ah, sì. Quindi è entrato in casa sua e…?”
“Lei non c’era.”
Sensi si accarezzò il mento. “No, eh? Ha notato qualcosa di strano?”
Dagoberti annuì con forza, come se quello fosse esattamente il momento che aspettava. “Anche Jon-Jon era scomparso!”
“Signor Dagoberti, le sembro un flemmatico fumatore di pipa britannico?” replicò Sensi, alzando di nuovo gli occhi al soffitto.
“No, perché?” rispose l’altro, interdetto.
“Perché forse, allora, avrà intuito che non sono il fottuto Sherlock Holmes. Mi spighi chi è questa benedetta Agostina, chi è Jon-Jon, perché ritiene che sia scomparsa e perché crede che me ne dovrei occupare io, e lo faccia in non più di venti parole.”
Dagoberti rimase in silenzio per qualche secondo, poi disse: “Agostina è una paragnosta, Jon-Jon è il suo pappagallo, è scomparsa perché è agorafobica, non è in casa e non risponde al telefono, e ho pensato di rivolgermi a lei perché ho letto di lei sul giornale. Erano trentasette, temo.”
“Cosa?”
“Le parole, erano trentasette, mi dispiace.”
“Non importa. E anche il pappagallo è scomparso, dice. Non è possibile che il volatile si sia sentito male e che sua cugina l’abbia portato dal veterinario?”
“Un po’ difficile. Jon-Jon è impagliato.”
“Ah.”
“Ma ho sentito qualcosa, in casa. Adesso penserà che sono pazzo.”
Il commissario si grattò di nuovo il mento. “Lei è spezzino, lo penso già.”
“Ho sentito una voce, nella casa. Sembrava proprio la voce di un pappagallo.”
L’altro annuì. “E diceva?”
“AIUTO-AIUTO,” gracchiò Dagoberti.
Sensi controllò il monitor del suo computer. I Sunn O))) ne avrebbero avuto ancora per un paio d’ore.
Raccolse il suo giubbotto dallo schienale della poltroncina e si alzò in piedi.
“Andiamo a vedere,” disse.

9 commenti:

paolo raffaelli ha detto...

Mi piace

brullonulla ha detto...

il caso del pappagallo è promettente.
mi sto affezionando ai personaggi.

poi mi spiegherai la tua fissa con i protagonisti darkettoni.

Luca Bonisoli ha detto...

Carino.
Divertente.
Mi piace, continua così.

Susanna Raule ha detto...

la mia fissa? solo quello ho, darkettone.
mi pare.
ne ho altri?
devo andare dallo strizzacervelli? no, lì ci vado già.

Luca Bonisoli ha detto...

...ma lo strizzacervelli non eri TU? ^__-

brullonulla ha detto...

ah, è che mi ricordavo che una volta chiedevi informazioni per personaggi darkettoni, ma forse era per lui.

Susanna Raule ha detto...

brullo: sì, era per lui.
luca: sì, e quindi vado anche dallo psicologo (anzi, dallA psicologA), in supervisione. a volte in formazione.
a volte a lamentarmi del mondo crudele e basta. lo consiglio a tutti.

Luca Bonisoli ha detto...

Interessante...

Comunque, tornando al racconto, non ho resistito: il capitolo 3 mi ha fatto ridere e ho DOVUTO farci un disegno.
Lo trovi a questo indirizzo:
http://www.webalice.it/lucabonisoli/Varie/ErmannoSensi2.png
Spero ti piaccia.

Susanna Raule ha detto...

noi che siamo autocelebrativi di brutto, lo inseriamo e ringraziamo per la stima :)