venerdì 29 maggio 2009

Pubblica utilità

Qua accanto è ora possibile scaricare il pdf anche di "Lo strano caso del pappagallo fantasma".

mercoledì 27 maggio 2009

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 13

Erano passati una decina di giorni quando la quiete di Sensi fu disturbata da qualcuno che entrava nel suo ufficio. Per un attimo continuò a controllare che il download della discografia completa dei Sol Invictus stesse procedendo senza intoppi, poi alzò lo sguardo.
Come temeva, era l’ispettrice Riu, una massa solida di cipiglio, abbronzatura ed efficienza.
“Volevo solo dirle che il folle ha colpito ancora,” disse, piazzandosi sull’attenti vicino alla porta. “Nel caso che tornasse a lamentarsi.”
Sensi meditò brevemente sulla possibilità di dirle che Dagoberti, la volta precedente, non era venuto a lamentarsi, ma la scartò immediatamente.
“Ah sì?” disse, invece, in tono vago.
“Esatto, signore. Adesso ha nientemeno che un pappagallo. Una piccola bestia rumorosa che starnazza – o forse dovrei dire “parla” – tutto il giorno e vola defecando qua e là.”
Sensi soppresse diligentemente un sorriso. “Mi rendo conto,” disse.
“Lei non immagina quanto rumore riesca a produrre la sua piccola ugola.”
Sensi annuì con aria fatalista.
“Se continua così sarò costretta a sparargli,” concluse la Riu, risentita.
“Al pappagallo?”
L’altra sembrò turbata. “Al vicino,” specificò.

Fine.

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 12

Arrivò davanti allo studio del commercialista Ghedolfi solo verso le tre del pomeriggio, dopo aver eluso abilmente tutte le chiamate dalla questura.
Era uno studio iper-moderno e Sensi si chiese per qualche minuto se non fosse finito dentro una puntata di Star-Trek Voyager. Il bancone delle segretarie (plurale) era di vetro opaco con incastrate dentro delle cose, forse degli artefatti klingon.
L’immensa vetrata dava su… be’, in effetti dava su un palazzo vicino. Troppo vicino, secondo gli standard galattici. Dava l’impressione che l’astronave dello studio Ghedolfi si stesse per schiantare contro il pianeta terra nella sua espressione più materiale: panni stesi ad asciugare, tricicli sui balconi, persiane verdine un po’ scrostate. Comunque era chiaro che non era colpa di Ghedolfi se i vicini avevano il cattivo gusto di stendere sui fili del bucato quel che sembrava un enorme paio di mutande da donna.
Il commissario mostrò il proprio distintivo a una delle segretarie, una tipa che sarebbe stata meglio sul set di un film porno, secondo il modesto giudizio di Sensi.
“Il dottore la riceverà subito,” cinguettò lei.
“E per aver un appuntamento con lei come posso fare?” si informò Sensi. “Per motivi strettamente fiscali, s’intende.”
Riuscì a dirlo in tono così serio che la segretaria iniziò a spiegargli che lei si occupava solo della contabilità e che per la sua dichiarazione dei redditi doveva parlare col “dottore”. Aggiunse anche che, nel suo piccolo, stava cercando di laurearsi in diritto patrimoniale, cosa che spense immediatamente la libido del commissario.
Il dottor Ghedolfi era un tizio basso e solido, sulla quarantina, con l’impavida abbronzatura invernale di chi fa sport all’aria aperta trascurando il proprio lavoro. Almeno, questo fu quello che pensò immediatamente Sensi, che era più che soddisfatto della propria carnagione cadaverica.
Lo introdusse nel suo ufficio con gentilezza impeccabile.
Se l’anticamera era in stile Guerre Stellari, l’interno era in stile Impero Napoleonico. Sulle pareti stuccate facevano bella mostra una serie di paesaggi a olio dalla tranquillità assopente, una parete era coperta da una libreria intarsiata di legno rossastro, che faceva pendant quasi casualmente con la massa immensa della scrivania, inquietantemente lucida. In giro c’erano varie carte, perfettamente impilate e raccolte in cartellette color avorio.
Sensi appoggiò comodamente il culo su una sedia gonfia che doveva avere circa un secolo più di lui, Ghedolfi si assise sull’oggetto monumentale che forse, in privato, chiamava “trono”.
“Mi dica, commissario…?”
“Ermanno Sensi, squadra mobile. Sa che cosa manca a questa stanza? Dei fiori. Dovrebbe davvero mettere qualche mazzo di, non so, gigli? Leggermente sfioriti sarebbero perfetti. Darebbero all’insieme quel quid in più di decadenza.” Fece un gesto con la mano. “Opinione personale, è ovvio.”
Ghedolfi aprì la bocca per rispondere qualcosa sul tema floreale, leggermente perplesso, ma Sensi lo prevenne con un altro gesto.
“Ma parliamo di pappagalli. In particolare dell’esemplare di Diopsittaca Nobilis, anche conosciuto come Ara Nobile, che lei ha inviato alla signorina Dagoberti.”
Il commercialista aveva aggrottato la fronte, ma fu la fine della frase che lo fece contrarre del tutto.
“Ah, sì,” disse, affettando noncuranza. “Spero che l’abbia gradito.”
“Lei andava spesso a farsi leggere le carte dalla Dagoberti?” replicò Sensi, senza rispondergli.
Ghedolfi parve leggermente imbarazzato. “Di quando in quando… ma perché ha usato il passato?”
“L’ultima volta, credo, il responso non è stato dei più fausti.”
Adesso Dagoberti aveva tutta l’aria di qualcuno sulle spine. “Non capisco dove vuole arrivare.”
Sensi gli rivolse un sorriso sottile e per niente rassicurante. “Niente, volevo solo dirle di persona che quello che ha fatto non è un reato.”
“Ma, scusi, che cosa…”
“Voglio dire: non è un reato regalare un animale vivo e starnazzante a un’agorafobica ossessivo-compulsiva. Assolutamente no.”
“Ah, e quindi…”
“Quindi nessuno la accuserà di aver fatto venire – volontariamente, tra l’altro – una crisi di nervi alla signorina, né di aver messo in allarme il cugino, né di aver fatto lavorare il sottoscritto per una giornata intera. Non è assolutamente perseguibile. Pensi, mi sono persino informato.”
Ghedolfi si era leggermente ritratto sulla sua imponente sedia che, notò Sensi in quel momento, aveva la peculiare caratteristica di farlo sembrare più piccolo e basso e di quanto fosse in realtà.
“Io non…”
“Lei non è una persona rispettabile? Sono perfettamente d’accordo, mi creda. Solo un sadico malato può architettare un piano del genere per punire la propria cartomante di una lettura infausta. Ma, come le dicevo, essere un sadico malato non è un reato.”
Sensi si alzò e si spolverò qualche granello di polvere dal giubbotto di pelle.
Guardò fisso il commercialista con i suoi piccoli occhi grigi e per un attimo l’uomo ebbe l’impressione che fossero diventati di un profondo color sangue. Ma era chiaro che era solo uno scherzo della luce, forse il riflesso di uno dei libri sugli scaffali.
“Vede, io non mi occupo di reati fiscali. Non saprei da che parte cominciare. Questo, per inciso, significa che il suo studio, d’ora in avanti, verrà tenuto d’occhio da qualcun altro, non da me. Ma la mia branca, la mia specializzazione, direi quasi, sono esattamente i sadici malati.”
Il commissario lo guardò ancora in silenzio per qualche secondo, poi sorrise di nuovo. “Quelli che commettono dei crimini perseguibili, va da sé. Lei è in una botte di ferro… per il momento. Le auguro un’ottima giornata.”
Sensi se ne andò, e dopo un attimo anche la sua ombra insolitamente scura si ritrasse dall’ufficio.
Ghedolfi guardò la porta socchiusa per un pezzo, prima di convincersi che il commissario era uscito dal suo studio in via definitiva.

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 11

L’aperitivo al Backstage era andato abbastanza liscio. Sensi e Carmel erano arrivati un po’ tardi e il bar iniziava a svuotarsi, ma nel complesso il fatto di doversi sbrigare con i drink andava a vantaggio dei piani del commissario per il resto della serata.
Il Backstage era un posto minuscolo su piazza del Bastione, a due passi dal sottotetto di Sensi. Era così minuscolo, in effetti, che quasi tutti i tavoli erano fuori, sulla piazza. Era stato fatto un tentativo di riscaldarli, ma in questi casi non si raggiunge mai il pieno successo. Sensi aveva convinto senza troppi sforzi Carmel a ingurgitare una certa quantità di alcolici, per “tenersi calda”.
Carmel gli aveva fatto presente che il suo piano non era proprio il massimo dell’originalità.
Sensi le aveva promesso che sarebbe stato originale più tardi.
Fu esattamente a causa di questa originalità che il commissario non riuscì a svegliarsi prima delle undici. Aveva la faccia incastrata contro una tetta di Carmel, quindi andava tutto per il meglio.
Stava giusto iniziando a mordicchiare tutto quello che aveva davanti alla bocca, quando si ricordò di quali erano stati i suoi piani per la mattinata.
Accantonò il pensiero senza sforzo e si dedicò anima e corpo al mordicchiamento.
Lavorare, in fondo, non era mai stato il suo forte.

martedì 26 maggio 2009

Pubblica utilità

Qua accanto ho inserito anche il pdf del racconto "Carriera veloce", inizialmente uscito per la Writers Death Race, nella sua versione non-tagliata. Non vi aspettate chissà che cosa in più, ma per rientrare nelle regole della gara avevo dovuto tagliare un pezzetto della storia. Ora è di nuovo intera.

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 10

Agostina Dagoberti, si scoprì, dormiva come un sasso sul divano della sua omeopata, abbracciando il suo pappagallo impagliato. La sua omeopata, tra l’altro, non era particolarmente contenta della cosa.
Sensi, Onofrio Dagoberti e una Carmel incuriosita e divertita gli erano piombati a casa a loro volta dopo una veloce telefonata del commissario.
La dottoressa Gelsi, tra l’altro, non era particolarmente contenta neanche di questo.
Il commissario, a prima vista, gli sembrò un ometto insignificante, finché non le venne spiegato che, in effetti, il commissario era quello che assomigliava a un giovanotto goth. Di lui si potevano dire molte cose, ma non che fosse insignificante.
“Allora, quando è arrivata Agostina?” chiese il poliziotto gotico, senza tanti preamboli.
“Verso mezzogiorno,” rispose la dottoressa Gelsi. “Ora la porterete via?”
“Questo dovrebbe chiederlo a suo cugino, veramente. Io avrei una serata da continuare.”
“Ma come mai dorme così profondamente?” interloquì Dagoberti.
Sensi fece un piccolo sorriso fetente. “La dottoressa l’ha drogata con i fiori di Bach.”
“Con l’Ansiolin, veramente. Era fuori di sé.”
Dagoberti sembrava sempre più smarrito. “Ma, insomma, qualcuno può spiegarmi che cosa le è successo?”
Sensi sospirò. Detestava dare spiegazioni, lo faceva sentire come il detective di un romanzo vittoriano.
“Questa mattina un corriere espresso ha consegnato un volatile vivo a sua cugina. Lei ha accettato la consegna, immagino stupita, ma poi il pappagallo deve aver cominciato a svolazzare qua e là. Agostina si è spaventata così tanto che, cercando di catturalo, gli ha rotto le ali. A quel punto le dev’essere venuto un attacco di panico, motivo per cui si è andata a chiudere nel suo armadio anti-panico, insieme al pennuto. In stato di shock è uscita e ha rimesso a posto gli eventuali danni creati dalla bestia – dopotutto uno non smette di essere ossessivo-compulsivo solo perché ha spezzato le ali a un pappagallo. Ma era così sconvolta che ha dimenticato il mazzo delle carte – e di chiamarla.”
Dagoberti era estasiato. “Incredibile, ma come ha fatto…?”
“Devo ancora finire,” lo interruppe Sensi, piccato. Ecco perché non gli piaceva dare spiegazioni. Non c’era nessuno che apprezzasse veramente la cosa.
“Dopo di che è uscita di casa – ancora sottosopra – e ha sceso le scalette fino a piazza Saint Bon. Sul momento non avevo fatto caso al fatto che i Vicci sono sopra la stazione e piazza Brin subito sotto. In macchina ci vogliono almeno venti minuti, ma a piedi molto meno. In fondo, siamo a Spezia, tendo sempre a dimenticarmelo. Comunque, Agostina è andata in chiesa…”
“Questo è un po’ strano. Mia cugina non è molto praticante.”
“Sua cugina non pratica molto neanche il mondo esterno, ma quando hai appena barbaramente mutilato un povero volatile, chiaramente, inizi a fare delle cose un po’ strane. Un po’ più strane del solito, intendo.”
“Barbaramente mutilato, insomma, commissario…” protestò Dagoberti.
“Vuole sentire la fine oppure no?”
“Prego.”
“Quindi, Agostina va in chiesa, entra nel confessionale e inizia ad aspettare che qualcuno, tipo un prete, si faccia vivo. Ma Don Mauro ha i suoi cazzi per la testa e non arriva nessuno. Stasera, quando gli ho parlato di pappagalli ha fatto una faccia che diceva chiaramente che pensava che avessi bevuto o che fossi un pazzoide. Dunque. Il prete dà forfait, ma ad Agostina viene in mente di chiamare la sua omeopata. Il resto può raccontarglielo la dottoressa, credo.”
La dottoressa Gelsi amava le spiegazioni ancora meno di Sensi, e non cercò di nasconderlo.
“Be’, è arrivata qua in uno stato prossimo all’isteria. Ho cercato di calmarla, ma lei sembrava convinta di aver commesso non so quale delitto – be’, adesso lo so, comunque. Alla fine le ho sparato una dose massiccia di Ansiolin e l’ho messa a dormire. In effetti pensavo che intendesse che aveva ucciso il pappagallo che aveva con sé, solo che visto che quello era impagliato non l’ho preso per un ottimo segno di salute mentale.”
Sensi si guardò intorno per il soggiorno arioso dell’omeopata. “Be’, credo che adesso dovremmo svegliarla, che ne dice? Ho ancora una domanda da farle, e comunque Dagoberti non se la può portare a casa in braccio.”
“Aspetti,” interruppe Dagoberti, “anch’io ho ancora una domanda da farle. Il verso che faceva il pappagallo vivo, quell’aiuto-aiuto che mi ha quasi fatto venire un colpo… perché?”
Il commissario inclinò la testa da un lato. “Scusi, vuole che io le spieghi perché un animaletto col cervello grande come una nocciolina gridava proprio quella parola? Le sembro un ornitologo?”
“Ma si sarà fatto un’idea,” insistette Dagoberti.
L’altro si grattò il mento. “Be’, se vuole la mia opinione… credo che quella sia stata la prima parola che ha imparato da sua cugina.”

[continua]

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 9

Sensi tornò al Bar Brin di umore piuttosto irritabile. Dagoberti stava chiacchierando amabilmente con Carmel e il locale si era riempito della solita fauna del luogo.
“Le avevo suggerito di chiamare all’ospedale per sentire se loro sapessero qualcosa di Agostina, lo ha fatto?” chiese, saltando i convenevoli.
Dagoberti annuì. “Sì, non risultava. E neanche, ecco… a psichiatria.”
“Già. Avrebbe per caso il numero dell’omeopata di sua cugina?”
Dagoberti si grattò il ciuffo di capelli. “Forse ho il suo biglietto da visita nel portafogli, glielo prendo?”
“No, me lo comunichi a distanza col pensiero,” fu la secca replica dell’altro.
Dagoberti si affrettò a recuperare il cartoncino, seminando banconote, spiccioli e altri biglietti da visita su tutto il tavolo.
“Eccolo qua,” annunciò, alla fine. Sensi gli strappò il biglietto dalle mani.

Fuori programma - 4


Ci si è messo anche Paolo Raffaelli!

lunedì 25 maggio 2009

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 8

Aveva avuto un improvviso barlume di genio e aveva pensato di mettere il cellulare di Agostina in un sacchetto di plastica, invece di infilarselo semplicemente in tasca. Certo, un sacchetto per le prova sarebbe stato meglio, ma Sensi non se ne andava in giro con le tasche piene di sacchetti per le prove.
Forse ne aveva qualcuno in macchina, e se era così avrebbe trasferito il cellulare più tardi..
Dopo pensò che una foto di questa famosa Agostina gli sarebbe proprio venuta comoda, a quel punto. Era la seconda pensata intelligente della giornata e iniziò a sentirsi uno sbirro di prima categoria.
Telefonò a Dagoberti e gli chiese di raggiungerlo con una foto di sua cugina. Per andare sul sicuro gli disse anche che non l’aveva trovata e che, per quel che ne sapeva, non era morta.
Certo, il caso cominciava a essere un po’ strano, lo doveva ammettere.
Quando Dagoberti arrivò gli spiegò per sommi capi che avevano rintracciato il cellulare e che adesso gli serviva la foto. Quando Dagoberti provò ad avere notizie più precise Sensi chiese a Carmel di prenderlo in custodia e improvvisamente Dagoberti smise di lamentarsi.
Sensi tornò trotterellando verso la chiesa, sentendosi piuttosto confidente che Carmel non sarebbe stata presa da un’improvvisa passione per l’altro.
Questa volta invece di entrare direttamente iniziò a costeggiare l’edificio. La porta che cercava, quella degli appartamenti del parroco, ovviamente era sull’ultimo lato che controllò.
Citofonò, spiegò chi era a una voce femminile, poi lo rispiegò a una voce maschile, infine gli dissero che poteva parlare con Don Mauro.
Se per vedere un parroco di periferia serviva tutta quella trafila chissà per vedere il Papa.
Sensi si arrampicò lungo delle scale strette, erte e male illuminate. L’odore di chiesa, in fondo gradevole, qua era sostituito da quello che sembrava odore di cavoli e salsiccia. Sensi odiava i cavoli. E poi, come diavolo faceva quella gente a cenare alle sei e mezza di sera?
Mentre faceva questi pensieri arrivò in cima alle scale. Il suo sottotetto era al quinto piano senza ascensore, quindi avrebbe dovuto essere allenato. Ciò nonostante, aveva il fiatone quando bussò all’ennesima porta.
Questa si aprì con una velocità che il commissario giudicò sospetta, proprio come se qualcuno fosse in attesa subito dietro.
Era una donna piccola e scialba, che Sensi classificò come suora solo alla seconda occhiata. Non aveva il vestito nero, il sogolo e tutte quelle altre cose suoresche, ma, in effetti, nessuna donna sana di mente si sarebbe mai vestita come lei.
Disincastrò il portafogli dall’aderente tasca posteriore dei propri pantaloni e le mostrò il distintivo.
“Commissario Sensi,” ansimò.
La quasi-certamente-suora gli lanciò un’occhiata lunga e sospettosa. Sensi ci era abituato, ma che una con un’informe gonna blu a metà polpaccio con sotto un paio di scarpe larghe e piatte trovasse da ridire sul suo abbigliamento era una novità. Comunque, dato che doveva darsi un tono, si aggiustò il bomber di pelle nera e la sottostante felpa dei Christian Death, che non metteva quasi mai ma che quella mattina gli era sembrata perfetta.
“Mi segua,” disse la quasi-certamente-suora, che così dimostrò di saper anche parlare oltre che saper guardare con disapprovazione. Lo condusse fino a un'altra porta, questa con dei pannelli di vetro, alla quale bussò.
“Don Mauro,” disse, in tono melenso, “c’è qua il commissario.”
Anche in questo caso la porta si aprì con una velocità sospetta, come se Don Mauro fosse stato proprio a portata di maniglia quando la quasi-certamente-suora aveva bussato.
Don Mauro, almeno, era certamente un prete.
Non solo indossava la lunga veste nera dagli infiniti bottoni, le scarpe nere che ormai portavano solo i preti e i camerieri più sfortunati, e il rosario-cintura o come si chiamava, ma aveva anche il tipico sorriso da prete.
Anche Don Mauro gli diede un’occhiata bella approfondita, che Sensi ricambiò senza una parola.
“Il commissario?” chiese, alla fine, Don Mauro, senza smettere di sorridere.
Sensi sollevò di nuovo il suo distintivo. “C’è scritto anche lì sopra.”
“Naturalmente. Il suo aspetto mi aveva tratto in inganno. Ma l’abito non fa il monaco, non è vero? Venga, si accomodi.”
“Bah,” rispose Sensi, seguendolo quietamente, “in realtà l’abito fa il monaco. Ad esempio, io ho un tesserino ufficiale che prova che sono il commissario capo della squadra mobile di questa città, mentre lei, per quanto ne so, potrebbe essere anche un passante travestito da parroco. Ma diamo per scontato che a nessuno di buon senso verrebbe voglia di travestirsi da parroco e continuiamo: lei conosce una certa Agostina Dagoberti, paragnosta?”
Don Mauro, che mentre Sensi parlava non aveva mai perso il sorriso, sbatté lentamente le palpebre pesanti. L’aveva preceduto in una stanza piuttosto angusta, umida e fredda che doveva essere il suo studio. Prima di rispondere si andò a sedere dietro una larga e vetusta scrivania di noce scuro, coperta di scartoffie e quaderni di scuola.
“Mi può ripetere il nome?” chiese.
Sensi lo fece. “Non mi dice niente,” disse, allora, Don Mauro.
“E questa donna?” disse Sensi, tirando fuori la fotografia di Agostina.
Il prete la guardò attentamente, o meglio, fece mostra di guardarla attentamente. “No, mi dispiace.”
“Capisco.”
Sensi, che era rimasto in piedi fino a quel momento, pensò che fosse arrivato il momento giusto per sedersi. Si accomodò sulla sedia di fronte alla scrivania e allungò le gambe davanti a sé, sul pavimento.
Alzò lo sguardo e sorrise (il suo sorriso era molto meno rassicurante di quello del prete).
“Quindi non ha idea di come il cellulare di una persona scomparsa sia finito dentro il suo confessionale,” disse, in tono tranquillo ma non interrogativo.
Il sorriso di Don Mauro diede forfait. “Cosa?”
“Sarebbe a dire ‘no’, immagino.”
“Sarebbe a dire che non ho capito.”
Sensi si voltò improvvisamente verso la porta. “Sorella non-so-cosa? Può entrare, se vuole.”
Da dietro la porta non provenne alcun rumore, ma in effetti non ce n’era bisogno: l’ombra della suora si stagliava contro i pannelli di vetro.
“Anzi, credo che dovrebbe proprio,” aggiunse Sensi.
“Venga avanti, per favore, sorella Rachele,” disse Don Mauro, con voce rassegnata.
Alla fine la porta si aprì e la suora in borghese si fece avanti. “Venivo a chiedere se gradivate del tè,” disse.
“Che bella idea,” si illuminò Sensi. “Avete per caso anche della Red Bull?”
Suor Rachele gli rivolse uno sguardo eloquentemente vacuo.
“Come non detto. Ha mai sentito il nome Agostina Dagoberti?”
La suora scosse la testa.
“E ha mai visto questa donna?”
Anche suor Rachele diede l’impressione di osservarla con attenzione, prima di scuotere nuovamente la testa.
“C’era un cellulare abbandonato dentro un confessionale, l’ha notato?”
“Un cellulare? Santo cielo.” Be’, almeno ora Sensi sapeva che c’era qualcosa che poteva scuoterla, a parte la sua felpa dei Christian Death.
Proprio in quel momento fu il cellulare di Sensi che iniziò a squillare. Il fatto che la musica suonasse allegramente inquietante probabilmente non lo riabilitò agli occhi dei due ecclesiastici, che sollevarono le sopracciglia praticamente in sincrono.
“Velocemente, Mainardi,” rispose Sensi, vedendo il numero sul display. Già gli riusciva difficile fare una cosa per volta.
“Sono stato fin’ora dal veterinario, capo,” iniziò l’ispettore. “Dice che il pappagallo è un Diopsittaca Nobilis, piuttosto giovane, e che qualcuno gli ha spezzato le ali, probabilmente a mani nude, forse involontariamente cercando di prenderlo.”
“Eccellente. Che ne è del volatile?”
“L’ho affidato al veterinario, capo. Aveva bisogno di cure.”
“Molto bene. A domani.”
Sensi richiuse il cellulare e tornò a guardare Don Mauro, che aveva smesso definitivamente di sorridere.
“Ora, se lei avesse visto la donna della fotografia che le ho mostrato, diciamo, in confessione…” iniziò.
“Signor commissario…” Era un pezzo che nessuno lo chiamava così, ma Sensi non commentò. “…Non solo la confessione è segreta, ma c’è anche una grata tra il sacerdote e chi si confessa. Non potrei risponderle neanche se volessi.”
Sensi evitò di far notare che uno doveva essere ipovedente per non riuscire a vedere una faccia attraverso una grata e continuò per la sua strada. “Ok, mettiamola così, allora: per caso questa mattina è venuta a confessarsi una persona che aveva qualcosa a che vedere con un volatile? Con un pappagallo, nello specifico?”
L’espressione del prete fu tutta un programma, ma poi disse: “Non le posso rispondere, mi dispiace.”
Una parte di Sensi gli suggeriva di prendere semplicemente quel grasso bacherozzo per il collo e appenderlo al muro, ma naturalmente non lo fece.
Invece si alzò in piedi e gli rivolse un sottile sorriso. “Mi ha già risposto,” disse, prima di andarsene.
Solo più tardi Don Mauro si rese conto che sulla sua scrivania ora c’era una sorta di grosso tatuaggio, simile alla sagoma di una figura umana che gettasse la sua ombra sul legno. Solo che la sagoma non era esattamente umana e non si trattava di un tatuaggio, ma di una sorta di marchio a fuoco. E sulla natura del soggetto Don Mazzi non aveva alcun dubbio.

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 7

Il telefono continuava a suonare a vuoto. Il commissario Sensi, tallonato da una Carmel che ondeggiava sugli alti tacchi dei suoi stivali, aveva percorso tutti i portici che circondavano piazza Brin sui quattro lati, senza mai sentire niente. Il quartiere Umbertino era uno dei pochi esempi di urbanistica spezzina sensata e ordinata. Si estendeva sotto alla massicciata della stazione in larghi isolati regolari fino alle mura dell’arsenale militare. Sensi sperava di non doverlo frugare da cima a fondo. Aveva vagato per la piazza in lungo e in largo, ignorando gli spacciatori che portavano avanti il loro commercio dalle panchine. Aveva infilato il naso in tutti i negozi, chiedendo se sentivano un telefono che squillava, guadagnandosi una serie di occhiate perplesse.
“Forse ha la suoneria disattivata,” commentò, alla fine. Poi fu colto da un pensiero. “Forse è per questo che non risponde. Forse è dovuta uscire per un’emergenza e si è portata dietro il suo pappagallo impagliato per farsi coraggio.”
Ora era Carmel che lo guardava perplessa.
“Ah, lascia stare. È molto più probabile che quei deficienti abbiano sbagliato a localizzarlo.”
“Stiamo cercando un cellulare, giusto?” ribatté lei.
“Già.”
“E perché non abbiamo guardato nell’iglesia?”
A Sensi servì qualche secondo per capire che “l’iglesia” era la chiesa. In effetti ce n’era una su un lato della piazza, brutta e grande, con la facciata ricoperta di cemento bugnato grigio.
“Già,” ripeté. “Perché non ci abbiamo guardato?”
La chiesa di Nostra Signora della Salute aveva un portone di ferro aperto e, più all’interno, delle porte laterali chiuse da delle tende.
Sensi sembrò esitare un attimo prima di entrare.
Se fuori l’aria era frizzante, dentro era praticamente gelida. Il pavimento di marmo e le navate erano illuminate fiocamente e c’era il caratteristico odore di incenso e acqua santa, mescolato a qualcosa di più terreno, che poteva essere detersivo.
Sensi si guardò intorno con aria circospetta, mentre Carmel si faceva devotamente il segno della croce. Non c’era nessuno.
Sensi ripeté l’ultima chiamata con il suo cellulare.
All’inizio non si sentì niente.
Poi, lentamente, iniziò a percepire qualcosa. Era come uno strano ronzio, il rumore di qualcosa che vibrava contro il legno.
Si guardò attorno, cercando di localizzarlo.
“Lo senti?” mormorò.
“Cosa?” fece Carmel.
Sensi scosse la testa. La sua ombra, sul pavimento di marmo, assomigliava a quella di un uomo che ride sguaiatamente, tenendosi la pancia. Anche se forse “uomo” non era la definizione più adatta. Carmel avanzò verso una delle navate.
Sensi andò dall’altra parte, verso un confessionale.
Il suono veniva da là, ora ne era sicuro. Spostò con una certa cautela la tenda, sperando che dentro non ci fosse un prete mezzo sordo che avrebbe insistito per confessarlo. In quel caso la faccenda avrebbe potuto protrarsi a lungo.
L’interno era vuoto. Sull’inginocchiatoio di legno, però, c’era un cellulare argentato, che vibrava forsennatamente. Sensi lo raccolse e vide il proprio numero di telefono sul display.
“Trovato,” disse. Carmel, dall’altro lato della chiesa, si voltò dalla sua parte.

domenica 24 maggio 2009

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 6

Sensi non era il tipo da lasciarsi convincere che in una vicenda ci fosse qualcosa di strano solo per un pappagallo con le ali spezzate trovato sul luogo di una scomparsa. Non gli veniva in mente neanche una spiegazione ragionevole per tutti gli avvenimenti, ma gliene venivano in mente decine del tutto irragionevoli.
Comunque, tanto perché non si dicesse che non faceva il suo lavoro scrupolosamente (che poi era l’assoluta verità) verso le quattro del pomeriggio chiamò l’ispettore capo Tudini per chiedergli se fosse possibile rintracciare un certo numero di cellulare.
Tudini rispose che se la scheda era ancora all’interno dell’apparecchio era possibilissimo.
“Allora fallo, ok? Poi telefonami.”
Archiviata la questione cellulare, Sensi tornò a fare quello che stava facendo, ovvero cercare di convincere Carmel, la barista del suo cuore, a diventare la barista di un’altra parte del suo corpo.
Carmel e suo fratello avevano in gestione un bar in piazza Brin, un ritrovo di anziani signori, spacciatori marocchini, vocianti dominicani e innocui senegalesi, condito dalla spruzzatina occasionale di qualsiasi altra nazionalità presente nel quartiere.
Oltre a questo, Carmel, ma non suo fratello, aveva lunghe gambe e un seno prosperoso, una bocca morbida e sensuale e una magnifica pelle color cannella.
In quel momento stava stappando una Ceres davanti al commissario e si stava sedendo con lui a uno dei tavolini dell’interno, che quel pomeriggio era semi-deserto.
“Potresti chiedere a Santos di sostituirti,” stava suggerendo in modo non molto sottile il commissario.
“No che non potrei,” replicò Carmel, senza pietà.
“Allora potremmo vederci questa sera,” rilanciò lui.
Carmel sollevò le perfette sopracciglia scure con espressione pensierosa. “Depende,” disse.
“E da che cosa?”
“Depende se me porti a cena in un bel posto, è claro.”
Sensi sorrise. “Casa mia è un posto superbo, a mio avviso, ma potrei anche offrirti una cena alla Toja degli Aranci.”
“Troppo empegnativo,” obiettò Carmel.
“Un aperitivo al Backstage?”
“Mh. Può andare.”
Sensi bevve un sorso di birra direttamente dalla bottiglia per non far vedere che sorrideva e le fece l’occhiolino. Carmel si mise a ridere.
“Vorrei solo sapere endove ti ho pescato!”
“Oh, non essere cinica,” rispose lui, mentre il suo cellulare iniziava ad emettere un’inquietante musichetta sincopata. “Sai benissimo che non c’è nessuno che ti adori più di me. In realtà credo che tu abbia fatto un ottimo affare.”
On candystripe legs, the spiderman comes, softly through the shadow…
“Non contarce troppo, su esto affare!”
Sensi si decise a rispondere. “Tudini, spero che tu ti renda conto che sei di grandissimo disturbo.”
“Ma, Ermanno, me l’hai detto tu di chiamare quando avevamo rintracciato quel cellulare.”
Sensi aggrottò la fronte. Non aveva la minima idea che ci volesse così poco, altrimenti l’avrebbe chiesto per il giorno successivo.
“Ok. Dove sarebbe, quindi?”
“In piazza Brin.”
Sensi rimase in silenzio per qualche istante. “Non avete rintracciato il mio numero, vero?”
“No, capo,” rispose Tudini, che aveva almeno il buon gusto di non offendersi per un’insinuazione di quel tipo. Non sarebbe stato esattamente il primo sciocco errore della sua carriera.
“Ok allora. Ci vediamo domani,” concluse Sensi, e riattaccò. “Curioso.”
Si alzò in piedi e lanciò un’occhiata maliziosa a Carmel: “Avresti voglia di una piccola caccia al tesoro?”

sabato 23 maggio 2009

Fuori programma - 3

E questo è il commissario Sensi di Armando Rossi.

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 5

Il commissario era rientrato in questura con un pappagallo verde e rosso appollaiato su un dito.
“Il commissario Darkettoni ha trovato un nuovo amichetto,” commentò la Riu, che stava uscendo per mangiare. Mainardi si limitò a fissare Sensi con aria allucinata.
Immediatamente dopo il commissario lo chiamò.
“Mainardi?” disse, in tono distratto. “Si prenda cura di questo volatile. Lo porti da un veterinario e scopra che cosa gli hanno fatto alle ali. Poi veda di scoprire come si archiviano gli indizi ancora vivi.”
Le sopracciglia bionde di Mainardi si aggrottarono.
“Il pappagallo sarebbe un indizio, capo?”
“Non lo so. Ho sempre dei problemi a capire che cosa è un indizio e che cosa non lo è. Ma non lo potevo lasciare nell’armadio anti-panico di Agostina, non le pare?”
Mainardi annuì docilmente, anche se non aveva capito niente.
“Bene, mi faccia sapere,” concluse Sensi e fece dietro-front come se arrivare in questura, lasciare un pappagallo ed andarsene di nuovo fosse la cosa più naturale del mondo.
Mainardi, a cui il volatile aveva già piantato soddisfatto gli artigli nella mano, rimase lì a guardare la sua schiena in veloce allontanamento, completamente senza parole.

Fuori programma - 2

Il solito Luca Bonisoli, in vena di omaggi!

venerdì 22 maggio 2009

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 4

Via Podgora, scoprì il commissario, era esattamente il tipo di strada che un urbanista sensato non avrebbe mai fatto costruire. A Spezia, d’altronde, di urbanisti sensati non ce n’erano mai stati, a parte, forse, un breve periodo durante il XIX secolo. Via Podgora, quindi, si inerpicava su un fianco delle alte colline che sovrastavano la città, formando una serie di strette anse a gomito e integrandosi nell’intrico di sensi unici e insospettabili doppi-sensi che formavano un dedalo in salita che avrebbe fatto sentire a casa propria qualsiasi Minotauro. Era fiancheggiata da basse casette di due o tre piani, dall’inconfondibile architettura anni ’60, e da occasionali villette a schiera, che probabilmente avevano una vista mozzafiato sul Golfo, o almeno sulla periferia della città. Sebbene la strada consentisse a stento il passaggio di una macchina, qualcuno aveva pensato che una serie di parcheggi a incastro, su un lato, ci sarebbe stata proprio bene.
Sensi pilotò cautamente la sua jeep Wrangler su per la stretta stradina, seguendo scrupolosamente le indicazioni di Dagoberti. In passato gli era capitato di imboccare un senso unico sbagliato e aveva capito che fare un errore del genere, quando eri ai Vicci, significava dover rifare il giro panoramico completo della città.
“Siamo arrivati,” disse, alla fine, Dagoberti. “La casa di Agostina è quella lì. Può parcheggiare davanti al cancello, se vuole.”
Sensi, in realtà, non voleva affatto incastrare la sua macchina nel ristretto spazio tra una Punto, un Doblò e la cosiddetta carreggiata, ma non vedeva alternative. Dopo un numero pressoché infinito di manovre riuscì nell’impresa e lasciò sul parabrezza il contrassegno delle forze dell’ordine. Ci mancava solo che gli rimuovessero la jeep perché ostruiva il passo carrabile. Non si era neanche portato le corde da arrampicata, per tornare in città.
Dagoberti lo precedette lungo il breve vialetto asfaltato che portava all’ingresso principale della casa (e che non giustificava in alcun modo il fatto che il cancelletto fosse considerato un passo carrabile). Era una villetta a due piani verdino chiaro, contornata da un’aiuola di qualche tipo di rosacea, al momento secca. Anche nella luce grigiastra del cielo eternamente coperto di Spezia, non sembrava propriamente l’esemplare tipico di casa infestata. Le finestre avevano delle tendine di pizzo, si vedeva benissimo anche da lì.
Dagoberti aprì la serratura e gli fece segno di entrare. Sensi notò che accanto alla porta c’era una targa che annunciava che Agostina era una paragnosta riconosciuta di una qualche associazione di svitati.
L’interno era quanto di meno paragnostico ci si potesse aspettare.
Un salotto immacolato lasciava spazio a una cucina di specchiata pulizia e il bagno era così ordinato che Sensi immaginò che anche i cotton-fioc fossero allineati dal più alto al più basso.
“Sembra tutto, hem… in ordine,” commentò il commissario. Dire che quel posto era in ordine era come dire che Adolf Hitler era un birichino.
Aprì un’anta del mobiletto del bagno e ci guardò dentro. Come si aspettava c’era una quantità pressoché infinita di farmaci, tutti perfettamente allineati, forse per data di scadenza.
“Sua cugina era seguita da qualcuno, per questa cosa dell’agorafobia?” chiese.
“Oh, ha cambiato diversi specialisti. Alla fine si è rivolta a un’omeopata.”
“Ah, e ha funzionato?” chiese il commissario, che aveva provato con curiosità più o meno tutti gli psicofarmaci disponibili sul mercato prima di essere fidelizzato dal Prozac.
“No,” rispose Dagoberti. “Ma d’altronde non aveva funzionato neanche il resto.”
Sensi uscì dal bagno e tornò in salotto.
L’unico segno della professione della scomparsa era un mazzo di tarocchi lasciato sul tavolinetto di vetro tra due poltrone immacolate.
“E Jon-Jon era su quel trespolo, suppongo,” disse il commissario, indicando una sorta di ramo di plastica che protrudeva da un vaso pieno di ciottoli bianchi.
“Esatto. Essendo impagliato, non sporcava.”
Sensi andò a sedersi a una delle due poltrone.
“Il mazzo di solito era qua?” chiese. Non che la risposta gli avrebbe detto qualcosa, Sensi non era molto abile con gli indizi, ma gli sembrava la cosa giusta da dire.
“No, in effetti di solito era in quell’armadio, insieme agli altri oggetti della professione.”
Sensi prese il mazzo e rovesciò la prima carta.
“Una torre capovolta, brutto segno,” commentò.
“Si intende di tarocchi?”
“Coi fondi di caffè vado più forte. Provi a telefonare di nuovo,” aggiunse, poi.
Dagoberti tirò fuori il cellulare e digitò qualcosa.
Il commissario si rilassò contro lo schienale della poltrona e accavallò le gambe. La sua ombra, che si stagliava debolmente sul pavimento nella luce grigia della casa, sembrò oscillare lievemente.
“Niente. È acceso, ma non risponde. Crede che si potrebbe, ecco, rintracciare?”
“Non ne ho la più pallida idea,” rispose Sensi, con gli occhi socchiusi. “Continui a provare.”
Se Dagoberti non fosse stato impegnato a guardare il vuoto davanti a sé e ad ascoltare il trillo della chiamata, forse si sarebbe accorto che l’ombra del commissario si stava stiracchiando in un modo che non aveva molto a che vedere con la posizione del suo proprietario.
Sensi si alzò di scatto dalla poltrona e salì con passo deciso le scale che portavano al secondo piano.
Dagoberti, smarrito, gli andò dietro senza lasciare il cellulare.
Il commissario si era diretto con aria molto sicura verso la camera da letto di Agostina. Era entrato senza guardarsi attorno e aveva aperto l’armadio.
“Curioso,” commentò, inclinando la testa da una lato.
Esattamente in quel momento si udì uno strano richiamo riecheggiare nella casa.
“AIUTO-AIUTO!” diceva lo strano richiamo, con la voce gracchiante di un pappagallo.
Dagoberti richiuse il cellulare e guardò il commissario.
“AIUTO-AIUTO!” ripeté la voce del pappagallo. Quella mattina Dagoberti non aveva capito da dove provenisse (e si era preso uno spavento tale da non voler indagare troppo a fondo), ma adesso sembrava chiarissimo che veniva dall’armadio.
“Ovvio. Hai perfettamente ragione, amico,” disse il commissario, chinandosi. Dagoberti gli andò alle spalle.
Dentro l’armadio, che per il resto era vuoto, c’era un pappagallo verde e rosso, che starnazzava a tutto spiano.
“Ma… quello non è Jon-Jon!” esclamò.
“Grazie per avermelo confermato,” rispose Sensi, seccamente. “Il primo sospetto mi era venuto quando mi sono accorto che non è impagliato.”
“Non capisco,” disse Dagoberti, senza far caso al suo sarcasmo.
“Neanch’io. Perché non vola?”
“AIUTO-AIUTO!” si limitò a ripetere il pappagallo.
Sensi si chinò verso di lui e gli sollevò cautamente un’ala. La lasciò andare subito e si pulì la mano sui pantaloni neri.
“Gli hanno fatto qualcosa alle ali. C’è del sangue.” Poi si chinò di nuovo e prese il pappagallo da sotto. Il volatile gli strinse immediatamente gli artigli attorno a un dito.
Sensi si rialzò e guardò per qualche istante il pennuto che gli si era appollaiato sul dito.
“Agostina,” gli disse.
“AIUTO-AIUTO!” ripeté il pappagallo.
“La sua conversazione è un po’ monotona,” rilevò il commissario, apparentemente serissimo.
“Ma che cosa significa tutto questo?” chiese Dagoberti, sempre più agitato.
Sensi si strinse nelle spalle. “Lo chiede a me?”

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 3

Era quasi riuscito a dimenticarsi del vicino folle della Riu e anche della Riu stessa, quando la questione si ripresentò. Era un lunedì mattina, da sempre una giornata nefasta per il genere umano in generale e per il commissario in particolare.
Era arrivato in questura verso le undici e mezza, assonnato, scazzato e vagamente depresso. Il suo standard.
Aveva chiesto a gran voce una lattina di Red Bull e l’aveva ottenuta. Poi si era ritirato nell’antro oscuro che passava per il suo ufficio e si era collegato a SoulSeek per vedere se c’era qualcosa che non avesse ancora scaricato.
La Riu era penetrata nel suo ufficio silenziosa come un gatto.
Sensi la osservò per qualche secondo mentre lei si orientava nel buio. Molto strano.
La Riu bussava sempre in modo preciso e fastidioso e, di solito, entrava e si metteva sull’attenti in un tutt’uno.
Questa volta sembrava… circospetta. Quasi furtiva.
“Signore,” iniziò. “Buongiorno, signore,” continuò. Sensi sbadigliò senza cercare di nasconderlo.
“Mi dica.”
La Riu si guardò dietro alle spalle come se si aspettasse di veder entrare dalla porta Norman Bates armato di coltello. “È qua, signore,” sussurrò, poi, in tono urgente.
“Chi è qua?”
Lei roteo gli occhi. “Lui, signore. Il folle. È ricomparso.”
“Le avevo detto di scavare una buca bella profonda,” sospirò il commissario.
“Quello che intendevo, signore, è che era già venuto questa mattina, ma Mainardi l’aveva spedito via.” Adesso l’ispettrice aveva riacquistato il consueto tono censorio e tutto era di nuovo normale.
Sensi alzò gli occhi verso il soffitto, che si perdeva nell’oscurità.
“E che cosa dovrei farci, io?” chiese.
“Vuole parlare con lei!” sbottò l’altra, continuando a sussurrare.
Il commissario osservò il monitor del proprio computer. Sembrava che il download della discografia completa dei Sunn O))) stesse procedendo senza intoppi. Naturalmente lui aveva già la discografia completa dei Sunn O))), ma riscaricarla era più comodo che duplicare tutti i cd.
“Va be’,” borbottò, “lo faccia entrare.”
La Riu gli lanciò un’occhiata carica di apprensione, ma si limitò a un granitico “sissignore.” Poi se ne andò richiudendosi dietro la porta. Sensi non capiva perché non si fosse arruolata nel Corpo dei Marine, negli Arditi Incursori o nella Legione Straniera. Doveva ricordarsi di lasciar cadere il suggerimento nel discorso, una volta o l’altra.
Pochi istanti dopo nella Bat-caverna (definizione della Riu) entrò un ometto dall’aria insignificante, che avanzò a tentoni verso la scrivania di Sensi.
Lui accese la fioca abat-jour che aveva di fianco, orientandola verso il visitatore.
La seconda impressione confermava la prima: era un ometto insignificante. Alto poco più di un metro e sessanta, con addosso un completo un po’ troppo largo, degli occhiali un po’ troppo grandi per il suo volto minuto e un ciuffo di capelli castani in via di diradamento sulla sommità del cranio.
“Si accomodi,” lo invitò Sensi, perfettamente consapevole che nessuna delle sedie che erano davanti alla scrivania era libera, dato che erano tutte invase di scartoffie, scatole, pratiche inevase e anche da qualche elemento di prova ormai fossilizzato. “Sposti qualcosa sul pavimento.”
L’ometto tentennò un po’, poi spostò con cautela una pila di fogli da una sedia e si sedette, tenendosela sulle cosce.
“È qua per la faccenda dell’ombrellone?” andò subito al punto Sensi.
L’altro sembrò preso alla sprovvista. “Quale…? Ah, no,” sorrise poi. Aveva dei piccoli denti da coniglio. “No, è tutto a posto.”
“Se volesse sporgere reclamo non potrei biasimarla,” provò a insistere Sensi.
L’ometto scosse la testa. “No, no. Non c’è problema. L’ispettrice ha detto che mi riparerà i danni.”
“No, perché sa, prepararsi all’avanzata delle acqua, finché è nella sua proprietà, è un suo diritto costituzionale,” sparò a caso Sensi.
Il sorriso dell’altro si intensificò. “A dire il vero quella storia non era proprio… vera. È che quando l’ispettrice mi ha chiesto di chiudere l’ombrellone me l’ha chiesto in un modo che… non so, immagino che la tentazione di dirle che aspettavo il 2012 sia stata troppo forte.”
Sensi si mantenne accuratamente impassibile. “Capisco.”
“L’avrei chiuso, capisce? Pioveva anche. Voglio dire: qua piove sempre, che cosa te ne fai di un ombrellone? Mi ero solo dimenticato.”
Il commissario si sporse leggermente in avanti e chiese, in tono vagamente speranzoso: “Per caso le piace anche la musica goth?”
L’altro aggrottò le sopracciglia. “Mi spiace, non credo di sapere di che cosa parla.”
Sensi sventolò una mano. “Lasci stare. Inizi col dirmi il suo nome, ok?”
“Onofrio Dagoberti.”
Di nuovo Sensi rimase accuratamente impassibile. “Motivo della visita? Abbiamo detto che è completamente, definitivamente, incrollabilmente certo di non voler sporgere reclamo nei confronti dell’ispettrice Riu?”
“Già. Sono qua per mia cugina. È scomparsa.”
Sensi sospirò. “Ah,” disse. Quello aveva tutta l’aria di essere l’inizio di un caso incredibilmente palloso – e senza neanche la speranza di togliersi dai coglioni la Riu. Le persone scomparse, a suo modesto avviso, di solito scomparivano per ottimi motivi: o ne avevano le palle piene della propria vita, e in questo caso ritrovarle era una vera e propria prepotenza, oppure erano morte, e in questo caso ritrovarle era completamente inutile.
“E quando è scomparsa?” chiese, comunque.
Dagoberti provò a guardare il proprio orologio, strizzò gli occhi, provò ad orientarlo verso la flebile luce dell’abat-jour e poi si decise ad accendere il quadrante luminoso. “Più o meno cinque ore fa,” disse.
Poi, naturalmente, pensò Sensi, c’erano anche quelli che non erano scomparsi per niente.
“Ah,” ripeté Sensi. “Si tratta di una bambina?”
“No, ha trentaquattro anni.”
Sensi rimase in silenzio.
“So cosa sta pensando, commissario, ma l’ho già spiegato all’ispettore Mainardi, questa mattina. Agostina è ossessivo-compulsiva, agorafobica ed estremamente abitudinaria. La sua assenza è inspiegabile.”
Sensi si massaggiò stancamente le tempie. “Ok, mi spieghi.”
“Dunque, Agostina, di solito, si sveglia alle sei precise del mattino. Fa colazione con un certo rituale, si lava con un certo rituale e poi legge le carte fino alle nove del mattino. A quell’ora, immancabilmente, mi telefona tre volte per assicurarsi che io stia bene. Questa mattina mi ha telefonato solo due volte.”
“Inquietante,” commentò Sensi. “Lei che cosa ha fatto?”
“Sono andato a casa sua. Vive a tre strade di distanza, in via Podgora. Ho la chiave.”
“Via Podgora,” ripeté Sensi, al quale il nome non diceva proprio niente.
“Ai Vicci,” spiegò Dagoberti.
“Vicci,” ripeté Sensi.
“Sopra la stazione, sui colli, ha presente?”
“Ah, sì. Quindi è entrato in casa sua e…?”
“Lei non c’era.”
Sensi si accarezzò il mento. “No, eh? Ha notato qualcosa di strano?”
Dagoberti annuì con forza, come se quello fosse esattamente il momento che aspettava. “Anche Jon-Jon era scomparso!”
“Signor Dagoberti, le sembro un flemmatico fumatore di pipa britannico?” replicò Sensi, alzando di nuovo gli occhi al soffitto.
“No, perché?” rispose l’altro, interdetto.
“Perché forse, allora, avrà intuito che non sono il fottuto Sherlock Holmes. Mi spighi chi è questa benedetta Agostina, chi è Jon-Jon, perché ritiene che sia scomparsa e perché crede che me ne dovrei occupare io, e lo faccia in non più di venti parole.”
Dagoberti rimase in silenzio per qualche secondo, poi disse: “Agostina è una paragnosta, Jon-Jon è il suo pappagallo, è scomparsa perché è agorafobica, non è in casa e non risponde al telefono, e ho pensato di rivolgermi a lei perché ho letto di lei sul giornale. Erano trentasette, temo.”
“Cosa?”
“Le parole, erano trentasette, mi dispiace.”
“Non importa. E anche il pappagallo è scomparso, dice. Non è possibile che il volatile si sia sentito male e che sua cugina l’abbia portato dal veterinario?”
“Un po’ difficile. Jon-Jon è impagliato.”
“Ah.”
“Ma ho sentito qualcosa, in casa. Adesso penserà che sono pazzo.”
Il commissario si grattò di nuovo il mento. “Lei è spezzino, lo penso già.”
“Ho sentito una voce, nella casa. Sembrava proprio la voce di un pappagallo.”
L’altro annuì. “E diceva?”
“AIUTO-AIUTO,” gracchiò Dagoberti.
Sensi controllò il monitor del suo computer. I Sunn O))) ne avrebbero avuto ancora per un paio d’ore.
Raccolse il suo giubbotto dallo schienale della poltroncina e si alzò in piedi.
“Andiamo a vedere,” disse.

giovedì 21 maggio 2009

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 2

“Ho scoperto perché ha messo lì quell’accidente di ombrellone,” esordì la Riu, la volta seguente.
Sensi, preso alla sprovvista mentre si stava sfilando la felpa per farle fare un giretto insieme agli altri panni, quasi ebbe un colpo.
“Scusi, che cosa sta facendo?” chiese, subito dopo, la Riu, in tono inquisitivo.
“Mi stavo togliendo la felpa. Poi mi toglierò i pantaloni, e le calze, e le mutande, e laverò tutto insieme. Non le hanno detto che questa è una lavanderia per nudisti?”
La Riu inarcò le sopracciglia, perplessa.
“Sta scherzando,” diagnosticò, alla fine. Se avesse detto “ha il cancro” sarebbe sembrata più divertita.
“Levi gli oggetti dalle tasche,” aggiunse, poi, visto che non sembrava che potesse evitare di dirgli la sua opinione.
Sensi estrasse dalle tasche della felpa un paio di scontrini, un preservativo e una multa.
Era già la seconda volta che incontrava l’ispettrice mentre faceva il bucato e la cosa iniziava a stressarlo.
“E quindi perché avrebbe messo lì l’ombrellone?” domandò. Tutta quella faccenda doveva finire al più presto. Si sarebbe procurato l’indirizzo del vicino di casa della Riu e sarebbe andato ad arrestarlo. Un motivo si trovava sempre.
“È completamente folle,” rispose lei.
“Sì, questo l’aveva già detto.”
“Dice che non so in quale data il livello del mare raggiungerà esattamente la nostra altitudine e lui si ritroverà con una villetta sulla spiaggia.”
Sensi impiegò qualche minuto per analizzare l’affermazione dell’altra sotto tutti i punti di vista.
“Il 21 dicembre 2012?”
“Esatto!” fece lei, sbalordita, “come faceva a saperlo?”
“Ma manca un sacco di tempo,” fece notare Sensi, al quale l’idea di aspettare fino al 2012 per riavere la sua lavanderia tutta per sé faceva accapponare la pelle.
“Gliel’ho detto,” spiegò la Riu.
“Ah. E non ha funzionato, eh?”
“Per niente. Ma credo di aver risolto il problema, lo verificherò al ritorno.”
“Che bellezza,” commentò Sensi, assolutamente sincero.
“Gli ho sparato.”
Di nuovo Sensi si prese qualche secondo per elaborare l’informazione. “Al vicino?” chiese, alla fine, in tono conversevole.
“All’ombrellone,” specificò la Riu.
“Capisco,” concluse Sensi, tornando al suo bucato.

Lo strano caso del pappagallo fantasma - 1

Generalmente la fiera avversione dell’ispettrice Riu non turbava affatto il commissario Ermanno Sensi. Le cose che lo turbavano erano ben altre: doversi svegliare presto al mattino, parlare con il questore Salvemini, perdere uno dei suoi vinili nella caotica collezione che tappezzava un’intera parete del suo sottotetto.
In ordine di importanza decrescente si potevano citare anche: guidare nel traffico spezzino, essere a corto di Red Bull o di Prozac, essere esposto agli effetti benefici della natura o dei raggi solari e usare le lavatrici a gettone.
La fiera avversione della Riu, quindi, era piuttosto in basso nella sua scala delle preoccupazioni.
Incontrare l’ispettrice Riu davanti alle lavatrici a gettoni della sua lavanderia, però, era un po’ troppo anche per lui.
La lavanderia in questione, una delle poche in una città di orgogliosi pulitori fai-da-te, era in una strada poco distante dal sottotetto di vico Cerniai del commissario.
Era frequentata dalla crema della società spezzina, anziani vedovi, extracomunitari e uomini single. Sensi si trovava in perfetta sintonia con ognuno di loro.
Nessuno si offendeva se il tuo bucato veniva lasciato incustodito per ore e ore, nessuno si permetteva di darti consigli su come lavare i tuoi colorati (Sensi aveva solo capi di diverse sfumature di nero, comunque, mutande a parte) e specialmente nessuno ti rivolgeva la parola, neanche quando i tuoi panni rimanevano nel cestello della lavatrice finché non facevano la muffa.
Fu quindi con grande costernazione che una sera di febbraio, entrando nella lavanderia, Sensi si accorse che davanti alla sua solita lavatrice c’era una donna bionda, atletica, incazzata, che palesemente stava controllando che ogni giro della centrifuga fosse perfettamente uguale al precedente, e che quella donna era l’ispettrice Riu.
Di primo acchito Sensi pensò di darsi alla fuga.
Come percependo le sue intenzioni l’ispettrice si voltò e gli lanciò una lunga occhiata penetrante.
A onor del vero, sembrò presa alla sprovvista come lui, ma un istante dopo il suo viso si atteggiò nella consueta espressione sprezzante.
“Ispettrice,” salutò, mesto, Sensi, lasciando cadere il sacchetto con i suoi panni sporchi sul coperchio di un’altra lavatrice.
“Commissario,” rispose lei, granitica. Era chiaro che aspettava con impazienza che tirasse fuori i suoi vestiti per potersi assicurare che fossero in condizioni pietose quanto si aspettava.
“Non credevo che fosse una cliente di questa lavanderia,” disse lui, dandole le spalle e iniziando a dividere i capi delicati dai capi meno delicati. La maglietta di “Boys don’t cry” dei Cure, tutta stinta e anche un po’ bucherellata, ricadeva certamente nella prima categoria.
“Di solito no,” rispose la Riu, brusca.
“Che ci creda o no è un’ottima notizia. Auguro alla sua lavatrice di casa lunga vita e prosperità.”
“La mia lavatrice sta benissimo,” replicò la Riu, come se implicare che i suoi elettrodomestici avessero dei problemi fosse un’offesa mortale. “Ma ho un nuovo vicino completamente folle.”
Sensi iniziò immediatamente a solidarizzare col vicino, ma disse: “Ah, davvero?”
Poi riprese a selezionare i capi d’abbigliamento che andavano nel bucato delicato. Apparentemente quasi tutti. Be’, boxer a parte, dato che l’elastico aveva esalato gli ultimi respiri da un pezzo. Il vantaggio di indossare sempre jeans aderenti era che anche se avevi l’elastico dei boxer rotto per te non sarebbe mai stato un problema.
“Ha piantato un ombrellone da spiaggia proprio davanti al mio filo per il bucato.”
“Chi?” chiese Sensi, che da qualche minuto stava sviluppando le sue idee sui boxer in un magnifico sistema teoretico.
“Il mio nuovo vicino, il folle,” spiegò la Riu.
Era possibile che stesse provando a fare conversazione? In una lavanderia? Non sapeva che questo violava le regole implicite di quel luogo sacro?
“Ah,” disse Sensi. Iniziò a caricare la sua lavatrice del delicato, in cui aveva messo praticamente tutti i suoi panni sporchi, a parte i boxer e un paio di jeans troppo nuovi e troppo neri.
“L’ombra del suo ombrellone proietta proprio sopra i miei panni stesi, moltiplicando per due il loro tempo d’asciugatura.”
Il commissario stava per chiedere se avesse messo a punto un modello matematico che spiegasse la cosa, ma si trattenne: probabilmente l’aveva fatto. Emise un vago grugnito, che in teoria avrebbe dovuto scoraggiare la conversazione.
“Ho anche pensato di comprare un’asciugatrice, ma preferisco che i miei panni si asciughino fuori, al sole.”
“Ah, ha deciso di trasferirsi in Sicilia, quindi?” non riuscì a trattenersi lui. Il sole a Spezia era un evento meteorologico raro e mai di lunga durata.
“È più naturale,” continuò la Riu, senza ascoltarlo.
Sensi ebbe una fugace immagine mentale dell’ispettrice che al mattino si faceva la doccia sotto una cascata gelata, perché era più “naturale”. Doveva ammettere che, acqua gelata a parte, non era un’immagine del tutto sgradevole. Be’, magari con un’altra al posto della Riu. E, be’, anche la cascata era piuttosto superflua, a ben vedere. Immediatamente dopo si rese conto di un altro fatto: l’ispettrice era sconvolta.
A prima vista era difficile accorgersene, perché aveva lo stesso contegno granitico di sempre, ma il fatto che gli stesse rivolgendo spontaneamente la parola avrebbe dovuto metterlo sul chi vive da un pezzo.
Si voltò per ammirare l’insolito fatto in tutta la sua grandiosità.
“Ha provato a chiedergli di togliere il cazzo di ombrellone?” offrì.
Le labbra dell’ispettrice diventarono un’unica linea dura. “Si rifiuta,” sbottò.
“Ah, e suppongo che l’ombrellone sia nella sua proprietà?”
“Sì,” ammise l’altra.
“E che lei non abbia un altro posto dove tendere il suo filo per il bucato?”
“Giammai!” strillò l’ispettrice. “È sul lato esposto a sud, l’unico appropriato!”
Sensi annuì mollemente. “Capisco,” concluse, tornando a dedicarsi al suo bucato.

sabato 16 maggio 2009

Qua accanto è stato inserito un link per scaricare il racconto completo in formato pdf.

giovedì 14 maggio 2009

Sette, morto che parla - 34

Lo squartatore che mi aveva fatto andare in bianco con Carmel appoggiò docilmente il coltello a terra e sollevò le mani in aria proprio come gli aveva ordinato Tudini.
Era magro e pallido, con corti capelli scuri e un viso niente-di-speciale.
Avrei avuto voglia di sparargli, ma visto che collaborava mi trattenni. Mainardi si infilò tra me e Tudini e provvide ad ammanettarlo, poi lo scortò fuori.
La Riu e Tudini si affrettarono a inginocchiarsi accanto alle ragazze ancora vive e a liberarle dal nastro adesivo.
Le guardai anch’io e le riconobbi. Si trattava di due punkabbestia che da un po’ di tempo chiedevano l’elemosina in città.
Non appena furono prive di costrizioni le due iniziarono a piangere e a eruttare frasi sconnesse in romanesco.
«Ho freddo…» disse una. «Ci ha buttato dell’acqua addosso!»
Era sconvolta, poveretta.
«Quello si chiama lavarsi,» le spiegai, gentilmente. Era chiaro che non aveva familiarità con la cosa.
La Riu mi guardò male e decretai di lasciar perdere qualsiasi forma di sostegno empatico con le vittime. Mentre le due fortunate superstiti venivano scortate fuori nell’umida luce dell’alba, riportai la mia attenzione su cadavere rattoppato vecchio di qualche mese che l’assassino aveva chiamato Sara.
Mi accucciai davanti a lei, le braccia sulle ginocchia e le mani penzoloni, e la fissai attentamente.
«Ti ho visto che muovevi le palpebre, prima,» le dissi.

FINE

Sette, morto che parla - 33

[Ero sconvolto. Qualcuno aveva spalancato di scatto la porta e mi minacciava con una pistola delirando a proposito della consegna di una pizza ai peperoni.
Si trattava di un tizio inquietantemente simile al cantante dei Cure, con una maglietta dei Joy Division e un paio di zoccoli infradito da samurai.
Sbattei un paio di volte le palpebre e mi resi conto che accanto alla strana apparizione c’era un altro tizio dall’aspetto molto più comune, che aveva appena mormorato «Oh. Mio. Dio.»
Mi sembrava una reazione molto più appropriata, anche se magari chiamarmi “Dio” era un po’ eccessivo.
Comunque fu lui a darmi l’indizio definitivo per capire che si trattava della polizia.
«Quello che intendevo dire è: abbassa quel coltello, ragazzo, perché sei in arresto,» disse il samurai gotico. Non sembrava particolarmente interessato a Numero 8 e Numero 9.
Mi voltai verso Sara.
«Mi dispiace,» le dissi, «Mi sa che starò via per un po’.»
Sara, quella stronza, rimase immobile e fece finta di essere morta.
«Sara?» la chiamai.
«Non può risponderti,» disse il tizio più convenzionale. «Adesso abbassa lentamente quel coltello e alza le mani.»
Che cosa potevo fare? Ero certo che se non avessi obbedito il goth mi avrebbe sparato. Sembrava proprio averne voglia.
Conosco quella voglia.
La cosa dentro di me salutò la cosa dentro di lui.
E depose le armi.]

Sette, morto che parla - 32

Immagino che una persona sensata come te non abbia mai provato a camminare su una pista sterrata con ai piedi degli zoccoli infradito giapponesi. Immagino che tu, a maggior ragione, non abbia mai provato a correre tra pozzanghere, ciuffi di vegetazione, foglie scivolose e fanghiglia varia.
Se ti serviva una prova del fatto che non sono molto sensato ora l’hai avuta, perché io arrancavo come un invasato alla testa della mia squadra in avvicinamento proprio su un terreno simile.
Avevo già rischiato tre volte di distorcermi una caviglia – chissà come facevano i samurai a fare tutti quei salti e quelle giravolte con simili zattere ai piedi, io avevo sempre preferito un solido paio di anfibi!
Ora, tu potrai pensare che come poliziotto non sono un granché e devo confessare di essere in gran parte d’accordo. Sono oscenamente pigro, ho scarso rispetto della gerarchia e delle convenzioni, e si può ben dire che non mi hanno ancora buttato fuori solo perché licenziare un dipendente statale è più difficile che trovare parcheggio in centro. Tuttavia, malgrado le mie molte pecche, ero almeno un ottimo tiratore.
Non che mi sia mai sforzato molto per ottenere questo risultato, sono sempre stato piuttosto tiepido nei confronti delle armi da fuoco, ma a quanto pare sono naturalmente dotato di un’ottima mira.
Motivo per cui, in quella specifica occasione, arrancavo in testa ai miei uomini in ciabatte infradito da samurai, rischiando di rompermi una gamba da un momento all’altro e con i miei delicati piedini a contatto con una quantità di natura decisamente eccessiva, con una pistola puntata davanti a me.
Male che andasse avrei abbattuto un cervo.
È inutile dire che dopo una simile, traumatica, esperienza, mi sarei attaccato al mio flacone di Prozac come un bimbo alla tetta della mamma.
Finalmente, semi-nascosta dalle frasche, avvistai la costruzione prefabbricata che, secondo il catasto, apparteneva al nostro uomo.
O meglio: visto che apparteneva ad un nato il sette luglio, oltretutto in un anno la cui somma dava sette, avevamo arbitrariamente deciso che quello era il nostro uomo.
Davanti alla baracca era parcheggiata una vecchia Panda 4x4, con il portabagagli spalancato.
Lo presi per un indizio.
Feci cenno ai miei uomini di circondare il prefabbricato e mi accostai alla porta.
Hai mai provato a sfondare una porta con un calcio avendo ai piedi un paio di zoccoli giapponesi?
Io, dopo qualche attimo di esitazione, lo feci. Tudini, accanto a me con l’arma di ordinanza in mano, era pronto a scansarsi velocemente se qualcuno mi avesse sparato.
Niente del genere avvenne.
La porta (che non era chiusa a chiave) si aprì agevolmente al mio cospetto, mostrandomi l’interno in penombra del prefabbricato.
Gli occhi di Tudini, che è un individuo più solare del sottoscritto, ci misero qualche secondo ad abituarsi alla mancanza di luce. Quando lo fecero lo sentii mormorare: «Oh. Mio. Dio.»
I miei, che con il sole ho un problema personale, misero subito a fuoco tutto.
L’interno era costituito da un’unica stanza quadrata dal pavimento di linoleum verde marcio e le pareti rivestite di pannelli di compensato bianco tirato a lucido. Su un lato c’era un tavolo con sopra vari attrezzi e coltelli.
Un cadavere vecchio di qualche mese, coperto di squarci successivamente ricuciti, era seduto contro un’altra parete, con le gambe leggermente divaricate, le braccia lungo i fianchi e la testa, mozzata, appoggiata sopra al collo.
Due ragazze nude e legate con nastro adesivo argentato da elettricista giacevano sul pavimento con espressione di ebete terrore. Gocciolavano, segno che avevano buttato loro dell’acqua addosso.
Un tizio di una decina d’anni più giovane di me, nudo come un verme, stava in piedi sopra di loro, stringendo un lungo coltello dall’aria affilata.
La sua erezione iniziò ad ammosciarsi non appena si voltò verso la porta sfondata.
Gli puntai la pistola verso il centro della fronte e dissi:
«Ai peperoni l’avevamo finita, fa lo stesso se è alle acciughe?»
Certe volte non riesco a trattenermi.

Sette, morto che parla - 31

[Ammetto che ero su di giri. Mentre portavo dentro le mie due nuove conigliette fischiettavo. Le portai dentro una per volta, naturalmente: non sono molto muscoloso.
Dopo che le ebbi scaricate sul mio comodo pavimento di linoleum mi presi qualche secondo per esaminarle.
Si agitavano e mugolavano. Una, dopo aver visto Sara, se l’era fatta nei calzoni, che comunque sapevano di piscio anche prima.
Entrambe more, quella che chiamavo tra me e me Numero 8 aveva una sorta di zazzera lurida da cui spuntavano un paio di dreadlocks singoli, occhi castani e braghe rosso sporco (a maggior ragione ora, visto che era lei ad aver pensato bene di pisciarsi addosso), mentre la Numero 9 aveva capelli corti un paio di centimetri, una collezione completa di piercing in faccia e degli sformati pantaloni neri. Tutte e due sembravano snelle, ed erano sporche da morire.
«Puzzano, eh?» commentai, rivolto a Sara.
«Come le vacche che sono,» rispose lei, diplomatica come sempre.
Lo presi come un velato suggerimento a lavarle. Arricciai il naso. Davvero, erano un po’ troppo ruspanti anche per i miei gusti.
Così presi il mio bisturi e iniziai a tagliare via i vestiti dalla Numero 8. Lei provò a divincolarsi, ma al secondo calcio era già molto più tranquilla. L’altra, nel frattempo, cercò di nascondersi in un angolo, peraltro senza molto successo.
Numero 8 aveva un grande tatuaggio tra la pancia e l’inguine che rappresentava la dea Kalì con la lingua di fuori. Il seno appuntito della divinità si andava a perdere nella peluria folta dell’inguine di Numero 8. Naturalmente decisi che, dopo averla ripulita per bene, l’avrei senza dubbio rasata per vedere con esattezza dove finiva il tatuaggio.
Poi mi dedicai a Numero 9.
Era più pallida della sua collega, ed era già rasata di suo, anche se dovevano essere passati vari giorni dall’ultima volta che si era sistemata. Aveva piercing ovunque: due all’ombelico, uno su ogni capezzolo e ben due sopra il clitoride, che era insolitamente lungo.
Osservai le mie nuove amiche distese ai miei piedi (e, incidentalmente, a quelli di Sara) e fui percorso da un brivido.
Iniziai a spogliarmi.
Ripiegai ordinatamente i miei vestiti sopra al tavolo. Ero già tremendamente su di giri. Mentre mi spogliavo fischiettavo qualche stupido jingle di una pubblicità. Saltellavo.
Quando fui come mamma mi ha fatto (Sara lanciò un fischio di ammirazione) la cosa dentro di me prese a urlare.
Voleva subito quello che le spettava e riuscii a fermarla solo per un pelo prima che, agendo impetuosamente, rovinasse tutto. I miei sforzi gocciolarono a terra accanto alla testa di Numero 8, che riprese a divincolarsi e a roteare gli occhi.
Più tranquillo, afferrai il tubo dell’acqua e iniziai a lavarle.]

Sette, morto che parla - 30

Saltellavo per le stanze della squadra mobile ticchettando sulle ciabatte da samurai che non mi ero tolto. Quello stronzo di Mainardi mi aveva già chiesto se pensavo di essere Gaemon, e io gli avevo già risposto chiedendogli se pensava che sarebbe stato un buon membro della stradale.
Devi sapere che io non avevo idea di come la mia squadra potesse reperire le informazioni che mi servivano alle quattro del mattino. Tutte le cose che riguardano le procedure, i permessi e le scartoffie non riescono a rimanere a lungo nel mio cervello.
Il fatto che ero andato in bianco per beccare lo squartatore, però, mi avrebbe tormentato per anni.
Purtroppo mi ero fregato da solo. Nel momento in cui avevo esclamato «Cazzo, ho capito!» Carmel non aveva più pensato ad altro che a ragazze squartate e senso del dovere. Le donne sono fatte così.
Quindi, incazzato come una biscia, mi ero affrettato a svegliare anche il resto della mia squadra e a metterli all’opera.
Ho sempre creduto nella condivisione dell’infelicità.
La Riu era riuscita a rintracciare il direttore dell’ufficio del catasto e l’aveva tirato giù dal letto senza farsi commuovere. Mainardi aveva disturbato i sogni di qualcuno all’anagrafe. Non avevo capito che cavolo stava facendo Tudini, ma ero certo che fosse qualcosa di perfettamente inutile.
Io saltellavo qua e là dando fastidio a tutti.
Il fatto era che salvare ragazzine dallo squartamento imminente fa sempre la sua porca figura nei titoli dei giornali, mentre invece arrivare un istante dopo, non so perché, non funziona altrettanto bene.
Trovare il covo nei boschi del nostro amichetto prima che seviziasse una nuova vittima sarebbe servito eccellentemente allo scopo.
Perché, e questa era stata l’infelice intuizione che mi aveva allontanato dalle cosce di Carmel, l’assassino doveva avere un covo nei boschi.

Sette, morto che parla - 29

[Non avevo pensato che non ci sarebbero state entrambe nel bagagliaio. Ahimè, avevo dovuto farle un po’ stringere.
Così, dopo un gradevole viaggio di quaranta minuti, raggiunsi la mia baracca nel bosco. Avrei aspettato l’alba, naturalmente, ma nel frattempo potevo prepararle.
«Pensi che dovrei lavarle?» chiesi a Sara, che era piazzata trionfalmente sul sedile del passeggero.
«Puzzano di vomito, fai un po’ tu,» replicò lei, inacidita.
«Hai ragione,» concessi.
Per farla contenta la riportai dentro per prima. Il suo corpo era appoggiato a una parete, le gambe distese davanti a sé, leggermente allargate, le braccia lungo i fianchi. Una real doll solo leggermente rappezzata.
Piazzai la sua testa sopra il suo collo.
«Lasciale aspettare ancora un po’,» suggerì.
Come potevo resistere?]

mercoledì 13 maggio 2009

Sette, morto che parla - 28

Mi ero infilato un paio di jeans, una maglietta a maniche corte dei Joy Division e i miei zoccoli giapponesi da casa. Siccome alzano di circa quattro centimetri, in questo modo arrivavo al metro e ottantacinque. Non che io sia basso, ma Carmel è maledettamente alta e detesto fare la figura del nano.

Quando suonò al citofono ero già pronto con due bicchieri di Cuba Libre in mano. Una pecca dei sudamericani è che apprezzano un po’ troppo il rum.

Carmel salì le otto rampe di scale che portano al mio sottotetto in meno di cinque minuti e quando arrivò sbuffava ed era sudata.

«Ho pensato che facendoti ubriacare sarei andato sul sicuro,» esordii, osservando con attenzione il vestito di lino bianco che indossava.

«Mannooo,» mi rimproverò, lei, bonariamente, ma poi prese il suo drink. Si chiuse la porta dietro e si andò a sedere, leggiadra, sul mio divano rosso scuro. I capelli le ricadevano sulle spalle coperte da un velo di sudore, ed io pensai che se il mio serial killer subito prima di uccidere si sentiva come me in quel momento, potevo perdonargli la perdita di controllo.

Mi chinai e le baciai una spalla, prima di lasciarmi cadere a mia volta sul divano.

«Sono preoccupato, ecco cosa,” dissi, buttando giù un’abbondante sorsata di coca e rum. Come previsto era dolciastro e semi-inbevibile.

Lo appoggiai sul tavolinetto davanti a me e mi sdraiai su un fianco, andando ad adagiare la testa in grembo a Carmel. Il suo odore, il calore della sua pelle, mi davano le vertigini.

«Acomodati, eh?» rise lei.

La presi in parola e le accarezzai un seno rimanendo sopra al vestito. «Perchè non mi sposi?” proposi, ma non facevo sul serio. Almeno. Non proprio.

Lei rise ancora. «Commissario Ermanno Sensi…» mi prese in giro «…non dirme che vuoi meter la testa a posto?»

Non avevo mai capito con quale criterio deformasse alcune parole italiane e altre no, ma lo trovavo irresistibile.

Risalii lungo il suo stomaco, tra il solco dei suoi seni, fino a baciare quella sua bocca pazzesca dal sapore di miele.

«Sicuro. Comprare una casetta in campagna, buttare via tutti i dischi, prendere un cane da guardia da fare avvelenare ai ladri…»

La circondai con le braccia e iniziai a baciarle il collo.

«La campagna te materebbe dopo un giorno. Comprate una casa vicino a gli alberi e saprò che te vuoi ucidere!» rise lei.

Mugolai il mio assenso, mentre le infilavo una mano nella scollatura.

Poi, insidiosamente, fui colto da un pensiero.

Sette, morto che parla - 27

[Non era stato molto difficile.

Ricorda che era il sette del settimo mese di un anno la cui somma dava sette. Ovvero il mio momento di massimo fulgore. Gli eventi si inchinavano al mio potere, quella sera.

Ero arrivato alle spalle della mia prima vittima mentre aveva ancora i cenciosi pantaloni abbassati. Le avevo circondato il collo con la garrotta e avevo tirato fin quasi a strozzarla. Poi, velocemente, le avevo bloccato le mani e tappato la bocca.

Una precauzione inutile, visto che l’avevo già minacciata di ucciderla se avesse emesso un suono.

I suoi amici, sdraiati sotto il glicine, emettevano il morbido russare degli ubriachi. Quando la ebbi immobilizzata per bene mi presi qualche minuto per capire come era fatta sotto gli strati di vestiti sovrapposti. Si divincolò deliziosamente, pronta a mordere.

Lasciai passare qualche minuto prima di gettare addosso all’altra un sassolino prelevato dal ghiaino che rivestiva i sentieri.

Come la sua amica prima di lei si riscosse e si guardò intorno con occhi appannati dall’alcool e dalle droghe. Si voltò dall’altro lato, ma ormai la sua vescica gonfia esigeva che andasse dietro al suo cespuglio.

Sono una persona educata, ma ancora di più sono una persona ordinata. Non mi sarebbe piaciuto avere il bagagliaio della macchina all’odore di pipì, quindi lasciai che finisse.

Non era uno spettacolo che mi dispiacesse.

Poi saltai avanti e colpii con tutta la mia forza.]

martedì 12 maggio 2009

Sette, morto che parla - 26

Ero stravaccato sul mio letto singolo e stavo ascoltando della musica a basso volume quando il mio cellulare iniziò a suonare forsennatamente.
Sobbalzai, azzittii gli Einsturzende Neubauten e risposi.
Come forse ti ho già detto vivo in un sottotetto in vico Cerniai. Il soffitto è inclinato dai due lati, con le travi a vista, e le finestre sono piccole e basse.
Visto che io e la luce abbiamo un rapporto difficile per me è l’ideale.
«Indosso solo i calzini e sto aspettando te, baby,» dichiarai nella cornetta, dopo aver visto chi chiamava.
«Me sa che dovrai aspetare ancora, hombre,» replicò Carmel, evitandomi la fatica di dover indossare i calzini. «Lo sai che è passata medianoche e che oggi è el sette de luglio? Non estai nervoso?»
Mi grattai le parti basse. «Sì.» In un certo senso era vero. «Sono sulle spine da impazzire, ma che cosa posso farci? Aspetto che qualcuno mi segnali la scomparsa di una ragazza, che a quel punto sarà già morta e stecchita.»
Tossicchiai. «Mi farebbe piacere se aspettassi insieme a me.»
«Ma non te arendi mai?»
«Di fatto no,» ammisi.
Lei sospirò. «E va bene. Pero cerca di mettere un po’ en ordine.»
Il mio sorriso si allargò come quello del gatto del Cheshire, mentre rispondevo: «Certo.»

Sette, morto che parla - 25

[L’idea alla base del mio appostamento era semplice.
Visto che ai giardini non c’erano bagni pubblici, avrei semplicemente aspettato che la natura emettesse il suo richiamo, nascosto dietro al più classico dei cespugli.
Avevo osservato le mie prede con grande attenzione per vari giorni. Non erano particolarmente pudiche, ma avevano una preferenza per il mio cespuglio, mentre i punkabbestia maschi preferivano il tronco di una palma.
Avevo dovuto per forza appostarmi fin dalla sera, e le avrei catturate durante la notte.
Avevo con me tutto il necessario. Guanti di lattice, corda, nastro adesivo, sottile filo piombato da usare come garrotta, un manganello col quale stordirle, all’occorrenza.
Se prendi qualcuno di sorpresa non è poi così difficile buttarlo a terra.
La parte più complicata del piano era stata trovare parcheggio su viale Italia.
Sara (o meglio, la sua testa) attendeva con me in silenzio. Alle tre di notte del sette i giardini erano deserti e non mi restava che svegliare le mie prede colpendole con un sassolino. Al resto avrebbe pensato la natura.]

lunedì 11 maggio 2009

Sette, morto che parla - 24

Solo nell’area urbana c’erano circa trecento persone nate il sette luglio. In compenso c’era un solo caso di sette figli. Spedii prontamente Tudini a controllare se uno di questi mostrasse i segni di un’evidente follia, mentre io mi concentravo sui nati di luglio.
Circa il cinquanta per cento erano donne. Viste le modalità dell’aggressione mi sentii di escluderle, anche se immagino che volendo proprio qualcosa ci sia sempre il modo di ottenerlo.
Il seme maschile non era materiale così raro, come sapevo benissimo.
Circa un ulteriore cinquanta percento era troppo giovane o troppo anziano.
Sui bambini ero piuttosto certo, sui vecchietti, dopo aver conosciuto Peppo, non proprio, ma dovevo ben tagliare da qualche parte, come avrebbe detto l’assassino.
A questo punto mi restavano circa una settantina di persone.
Passai l’intero malloppo alla Riu e a Mainardi, che se lo meritavano, incaricandoli di scovarmi il serial killer nascosto là in mezzo.
Quasi mi aspettavo di vedere Mainardi che sbirciava prudentemente tra un foglio e l’altro.

Sette, morto che parla - 23

[Mi chiedevo se tagliando la testa a Sara lei avrebbe continuato a parlare e ad essere cosciente.
Ci provai verso l’inizio di luglio, quando ormai i miei preparativi per le due punkabbestia erano quasi ultimati. Tutto stava nell’attirarle lontano dai cani e dai punkabbestia maschi, ma questa volta – chiamami sentimentale se vuoi – volevo che Sara fosse al mio fianco.
Le tagliai la testa usando coltello da disosso e seghetto. Fu un lavoro molto pulito, anche se lei si lamentò tutto il tempo dicendo che rivoleva il suo corpo.
Alla fine le promisi che non l’avrei buttato via e riuscii a calmarla un po’.
Partii per Spezia (ormai stavo in pianta stabile nella baracca) tenendomela in grembo. Purtroppo stava perdendo i capelli, ma nel complesso la sua massa mi rassicurava.
Avrebbe aspettato in macchina mentre caricavo le mie due conigliette nuove.]

Sette, morto che parla - 22

Avrei voluto far presente a Carmel che il suo era un ricatto sessuale, ma sentivo che in qualche modo aveva ragione.
Dovevo smetterla di pensare al mio pisello e iniziare a pensare a quelle povere ragazze squartate. Il fatto è che nel mio mestiere uno diventa cinico molto velocemente – o forse, pensandoci meglio, uno cinico lo è già quando comincia, ed è il motivo per cui si trova tanto bene in polizia.
In ogni caso dovevo mettermi a riflettere seriamente sulla faccenda del sette.
Perché il nostro amichetto era fissato con questo numero? A parte il fatto che era suonato, ci poteva essere qualcosa a cui potessi arrivare anch’io?
Nei film c’è sempre una soluzione che salta agli occhi, nel nostro caso poteva essere che lo squartatore fosse rimasto sconvolto dall’avere 777 come inizio del numero del cellulare. Forse aveva sette sorelle (in questo caso capivo che fosse venuto fuori un po’ spostato). Forse era nato il sette luglio (sempre meglio che nascere il quattro, almeno a dar retta alla filmografia ufficiale).
Forse era il momento di controllare l’intera pletora di cazzate, dettaglio per dettaglio, indipendentemente da quanto l’idea potesse sembrare demente.

Sette, morto che parla - 21

[Avevo iniziato a guardarmi intorno, malgrado le proteste di Sara. Volevo festeggiare il giorno del mio compleanno alla grande. Avrei potuto addirittura concedermi una doppia libagione, che cosa ci sarebbe stato di male?
Avevo notato un gruppo di punkabbestia che campeggiavano nei giardini tra viale Italia e via Mazzini, accampati sotto a un glicine in fiore.
Sembrava la cornice ideale.
Tra di loro c’erano due ragazze more e sporche e tre giovanotti altrettanto sporchi.
Probabilmente durante il giorno chiedevano l’elemosina in corso Cavour facendo i giocolieri con le palline o con i diablos.
Avevano tre cani. Tre bestie grosse e zozze, per niente docili.
Dovevo ammettere che la sfida era stimolante. ]

domenica 10 maggio 2009

Sette, morto che parla - 20

E così avevamo un serial killer a piede libero, il fiato della stampa sul collo, e qualche genio mi aveva preso per un satanista. Magnifico.

Controllai attentamente se per caso non avessi qualche giorno di ferie ancora da utilizzare, ma me li ero già bruciati tutti.

Di solito il mio piano è brillante. Ad agosto non c’è quasi niente da fare e in questura c’è l’aria condizionata, quale periodo migliore per lavorare? Così consumo sempre tutte le ferie da gennaio a marzo, quando le città del mondo non sono invase dai turisti e il lavoro infuria sulle spalle degli altri.

Quella volta avevo toppato.

Avevo allegramente dirottato le critiche dei superiori su Tudini, ma non me la sarei potuta cavare ancora a lungo. Dovevo assolutamente mettere le mani sullo squartatore.

«Naturalmente c’è una data in cui possiamo essere certi che colpirà,» dissi a Carmel, un pomeriggio di maggio inoltrato in cui il BB era semi-deserto e lei si era venuta a sedere al mio tavolo.

«Sì?» chiese.

«Be’, immagino che il sette luglio gli piaccia parecchio.» L’avevo messa a parte della mia teoria, sicuro della sua discrezione.

«Sette luglio duemila e cinco,» capì al volo lei. «Como a dire: sette e sette, e cinco e dos ancora sette.»

«Esatto. A parte il fatto che in italiano si dice cinque, naturalmente.»

Carmel sventolò una mano, come a dire che erano dettagli. Io mi stavo godendo la visione della sua pelle ambrata e il contatto del suo ginocchio contro il mio. Carmel ha le gambe più lunghe che io abbia mai visto e per il resto assomiglia a Rosario Dawson.

Un paio di volte ero anche riuscito a portarmela a letto, ma purtroppo lei non sembrava interessata a consolidare una routine.

«Ma in tutti i mesi ce sono almeno due date favorevoli, Manno. Non potete mica controllare tutte le chicas de la città.»

«No, non possiamo,» ammisi.

«E perché si è… impuntado con ‘sto sette?»

Con la testa appoggiata a una mano seguivo i movimenti delle sue labbra sensuali.

«E chi lo sa?» Non il più brillante dei conversatori, lo so. Il problema era che pian piano la questione squartatore stava scivolando sullo sfondo.

«Non mirarme  in quel modo, Manno. Ho del trabaho oggi.»

«Datti malata.»

«Capisci perchè el sette,» ribattè lei, spietata.

Era senza cuore, proprio come piacciono a me.

Sette, morto che parla - 19

[Maggio era iniziato nel migliore dei modi, con un bel sole splendente e frotte di turiste in anticipo. Le tedesche, la specie più comune da queste parti, solitamente non mi interessano molto.

Sono quasi tutte bionde, e scialbe, e insignificanti.

Lo stesso si può dire per le inglesi.

Naturalmente, però, c’erano sempre le eccezioni. Malgrado fossi affezionato a Sara sentivo di non poterle essere del tutto fedele.

«Ti dispiacerebbe se portassi qui un’altra ragazza?» le chiesi, un giorno, in tono casuale.

Lei mi guardò con espressione offesa.

La capivo, tuttavia la cosa dentro di me non poteva resistere ancora a lungo.

E i numeri si stavano nuovamente allineando nel più propizio dei modi.]

venerdì 8 maggio 2009

Sette, morto che parla - 18

«Che cosa significa che sono state uccise dai satanisti?» strillai, esattamente cinque secondi dopo essere entrato nelle stanze della squadra mobile, a chiunque fosse interessato a sentire.

Varie teste spuntarono qua e là come quelle di una tartaruga dal guscio.

«Non avevo ordinato il silenzio stampa? Non avevo detto che i giornali non dovevano essere informati dello squartatore? Volete davvero che Luccarelli e Picotti si trasferiscano nel nostro atrio?»

Ero fuori di me.

Tudini emerse timidamente dal suo ufficio e iniziò a spiegare, con aria imbarazzata: «È che Aulla è un piccolo paese… gli abitanti hanno saputo del ritrovamento, forse da Ammaniti, forse da qualcuno dei ragazzi della polizia locale…»

«Come hanno fatto a sapere delle altre vittime?!” sbraitai. «E che cosa c’entrano i cazzo di satanisti!»

L’imbarazzo di Tudini si accentuò visibilmente.

Provò a guardarsi intorno, alla ricerca disperata di un sostegno che non sarebbe arrivato.

Alla fine sospirò. «Devono averti visto entrare nel commissariato di Aulla, Ermanno.»

Sette, morto che parla - 17

[Inizialmente ero un po’ seccato che avessero trovato i cadaveri. Li avevo nascosti con tanta cura… Poi, però, vedendo che attribuivano il tutto a qualche satanista folle fui preso da una strana euforia.

Avrei potuto buttare nella prossima fossa un cero nero, tanto per aggiungere quel tocco in più.

Sempre che ci fosse stata una prossima fossa.

Non potevo di certo seppellire Sara da viva, no? Anche se forse viva non descriveva pienamente la sua condizione.

Rispetto al primo giorno il nostro rapporto era cresciuto, non è così che si dice?

Per prima cosa lei aveva smesso di urlare per qualsiasi cosa, inoltre avevamo iniziato a conoscerci meglio. Negli ultimi tempi le avevo addirittura slegato le caviglie per portarla a fare quattro passi nel bosco.

Sara, naturalmente, non mangiava, non aveva bisogni fisiologici e non sentiva caldo o freddo.

Per ogni nuovo taglio che le facevo, bastava usare ago e filo per richiuderlo. Non dovevo esagerare, però, o presto non ci sarebbe stato più spazio disponibile.

Dovevo amministrarla con parsimonia.]

giovedì 7 maggio 2009

Sette, morto che parla - 16

La letteratura è piena di investigatori che passeggiano e io mi sono in qualche modo adeguato a questo standard.

In realtà, nel mio caso, visto che abito in centro si tratta più che altro di una necessità. Prova a parcheggiare da qualunque parte tra piazza Garibaldi e piazza Verdi dalle tre alle sette del pomeriggio. Neanche il contrassegno delle forze dell’ordine può aiutarti, perché non c’è posto nemmeno in divieto.

Quindi, ecco, sono un camminatore.

Era ormai il 28 aprile e, malgrado la mia geniale intuizione numerica, non eravamo molto vicini alla cattura del nostro squartatore.

Ho pensato molte volte che un serial killer non fa più vittime di una guerra, o anche di una comune epidemia di febbre cinese. Per quanto un serial killer si sforzi non può competere con gli incidenti stradali o le diagnosi sbagliate dei nostri valenti medici.

Non è che un granello nell’universo delle morti violente e accidentali.

Eppure, per qualche motivo che non mi saprei spiegare, volevo mettere le mani sul mio squartatore più di qualsiasi altra cosa, anche più di quanto volessi portarmi a letto la barista del Bar Brin. Il che è tutto dire.

Visto che però dal punto di vista “squartatore” non stavo facendo grandi passi avanti, niente mi impediva di proseguire nel soddisfacimento degli altri punti della mia wish-list.

E la barista era nettamente al secondo posto.

Avevo messo la mia squadra a fare tutte le cose noiose del caso: interrogare genitori e fidanzato di Katia, combinare date di nascita, mesi di morte, momenti critici della stagione calcistica (ovvero, parlando dello Spezia, tutte le domeniche) secondo le regole della Cabala ecc., ecc.

Visto, quindi, che la mia coscienza era a posto, partii alla volta della barista. Abito all’ultimo piano senza ascensore di un palazzo in vico Cerniai. Scesi dal mio tetto e iniziai a risalire via Prione, che era invasa dagli adolescenti come ogni maledetto giorno dalle quattro alle sette e mezza.

Mi feci largo tra gli ombelichi scoperti e i capelli scolpiti, rimuginando sul caso.

Insomma, passeggiai.

A dire il vero, malgrado la letteratura sostenga il contrario, passeggiare e rimuginare nello stesso tempo non mi viene benissimo. Dopo un po’ mi distrassi ed iniziai a scrutare con raccapriccio i passanti.

Non c’è niente da fare: mi sono adattato a questa città come un’ostrica nel suo guscio, ma non c’è molto che io e lei abbiamo in comune.

Camminai mogio mogio fino in piazza Brin, per infilarmi allegro nell’omonimo bar. Ovviamente, visto che questo è il “quartiere multietnico” della città, era pieno per un quarto di nordafricani, per un quarto di dominicani e per il rimanente di vecchietti semi-alcolizzati autoctoni che giocavano a briscola con senegalesi troppo condiscendenti.

La barista in questione stava frullando dietro al banco con una maglietta scollata che mi riempì di allegria. Mi andai ad appollaiare su uno sgabello e feci ciao con la mano.

«Commissario Sensi,» mi accolse lei, con aria di vago sfottimento, e passò uno straccio davanti a me per lucidare la mia porzione di bancone.

«Carmel,” replicai, con un sorriso ebete.

«Commissario di cosa?» si intromise inopportunamente un vecchietto appollaiato alla mia sinistra. Era il classico esemplare spezzino: ruvido come la carta vetrata, segaligno e carogna.

«Di polizia,» risposi, rassegnato alla risata che, infatti, seguì puntuale.

«Te? A me me pae un beccamorto, altro che commissario,» commentò carinamente il vecchietto. Sarebbe stato bello se lo squartatore avesse cambiato target e fosse passato agli sbevazzoni sopra i settanta.

Decisi di ignorare il mio inopportuno vicino e tornai a sorridere alla mia barista preferita, che nel frattempo stava ridacchiando. «Es un ufficiale, Peppo. Te vuoi far fare la multa?»

Di bene in meglio.

«È bello vedere i miei concittadini di buon umore, figurati che sono venuto qua apposta. Potrei persino chiudere un occhio sul vecchietto in divieto di sosta che ho notato sedendomi.»

Carmel rise e, in effetti, mi tirò su l’umore.

«Vuoi una birra?» disse, appoggiandomi nel contempo una Ceres davanti al naso. Sono di gusti prevedibili. Annuii e lei stappò velocemente la bottiglia e vi mise un bicchiere accanto.

«In realtà sarei venuto per un parere professionale,» cominciai, dopo aver bevuto il primo sorso. Dietro di me si accese una veloce discussione in arabo, che si interruppe quasi subito.

Carmel, come speravo, si chinò sul bancone.

Tirai fuori dalla tasca interna della mia giacca di pelle tre fotografie delle vittime (quando erano ancora vive, ovviamente) e le posai davanti a lei. Per quanto sembri insolito usare una barista dominicana e incredibilmente attraente come supporto per le indagini, ho imparato con l’esperienza che Carmel ha la sconcertante capacità di capire tutto di una persona al primo sguardo. Siccome funziona anche con le fotografie, non era la prima volta che gliene portavo.

Naturalmente non avevo mai avuto il coraggio di chiederle che cosa aveva capito di me, al primo sguardo.

Osservò le fotografie per qualche secondo e si accigliò.

«Sono quelle chicas morte, Manno? Quelle de…» cercò una parola nel suo ampio vocabolario italo-dominicano «…quelle de los satanistas? Matade durante i riti exoterici?»

La guardai come un perfetto babbeo, con tanto di bocca semi-aperta.

«Tesoro, è meglio se mi spieghi questa cosa,» conclusi.

Sette, morto che parla - 15

[Mentre scendevo in macchina verso valle ero attraversato da mille pensieri. La possibilità di essere impazzito mi sembrava attraente. Non che anche prima fossi perfettamente normale, vero?

Persino in quel momento, con tutti i problemi che quella nuova situazione comportava, non potevo fare a meno di pensare a quelle belle ferite pulite e ad essere percorso da un brivido di passione.

Oppure, semplicemente, era accaduto qualcosa di raro e stupefacente.

Forse l’anima della vittima numero sette si era rifiutata di staccarsi dalla sua carne. Forse, invece, si era già staccata tempo prima, come uno sbuffo di vapore dalle viscere di un gatto.

Tornai in città e andai a casa dei miei per chiedere con nonchalance a mia madre di prestarmi il suo cestino da cucito.

Non essere una persona particolarmente emotiva ha i suoi vantaggi.

Ringraziai tanto e ritornai da dove ero venuto.

In un certo senso se al mio ritorno la vittima fosse stata morta mi sarei sentito deluso. Avevo grandi progetti per me e per lei.

Fortunatamente non solo lei era ancora viva, ma era anche quasi riuscita a liberarsi le mani. Provvidi subito a bloccarle di nuovo.

«Allora, mia intraprendente amica…» salutai, tutto allegro, «sono felice di informarti che mi sono procurato ago e filo. Sfortunatamente non sono un sarto di prima categoria, ma sono certo che apprezzerai ugualmente il mio impegno.»

Per infilare il filo nell’ago ci misi svariati minuti, durante i quali la mia vittima ruotò forsennatamente gli occhi.

Decisi di iniziare il restauro dal taglio in gola. Ammetto che, malgrado il filo rosa chiaro, il rattoppo era lungi dall’essere invisibile.

Non mi demotivai, e con grande pazienza ricucii ognuno degli altri tagli.

Alla fine le tolsi di nuovo il bavaglio.

«Ora assomiglio a Frankenstein!» furono le sue prime parole. Non c’è riconoscenza, a questo mondo.

Stavo per risponderle qualcosa di molto acido quando mi sovvenne un pensiero.

«Non hai sentito niente,» dissi. Ne ero assolutamente sicuro. Si era fatta rattoppare come se fosse stata una bambola di pezza, insensibile.

Lei aggrottò le sopracciglia.

Tutto eccitato dalla mia scoperta mi affrettai a riprendere il mio coltello.

«Hey, fermo! Che cosa credi di fare? Mi hai già seviziata una volta!»

Sorrisi lentamente. «Oh, tesoro…» sospirai.]